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  • Immagine del redattore: Sergio Bianchi
    Sergio Bianchi
  • 11 giu
  • Tempo di lettura: 9 min

Aggiornamento: 6 giorni fa

Perché rileggere «Primo Maggio»

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Questo testo è in relazione alla pubblicazione del podcast Primo Moroni editore della rivista «Primo Maggio»

È negli anni Settanta la più ragguardevole espressione teorica dell’operaismo italiano, e mantiene la propria presenza anche nei momenti più duri degli «anni di piombo». «Primo Maggio» nasce nel 1973 come rivista dedicata soprattutto alla riflessione teorica e storico-politica. Si colloca, fin dall’inizio, in una posizione autonoma all’interno del Movimento, cercando di muoversi negli spazi aperti dalla frattura culturale e politica mondiale degli anni Sessanta e per quanto riguarda l’Italia, dalle specificità delle esperienze di operai e studenti e dei «gruppi». Si tratta di spazi che la rivista riesce sostanzialmente a occupare con la sua funzione critica, anche se con una periodicità non proprio martellante: nei primi dieci anni della sua vita ne escono 20 numeri. L’intenzione su cui «Primo Maggio» nacque era stata quella di rivisitare i temi principali della storia del rapporto tra classe e capitale e delle strutture istituzionali e politiche attraverso le quali esso si era espresso nel Novecento. L’idea cardine di «storia militante», attorno a cui si sviluppava una parte del lavoro della rivista in quella direzione, veniva dal rapporto intellettuali-politica definitesi negli anni Sessanta e dalle opinioni maturate sull’esperienza dei gruppi nei primi anni Settanta. Nuovi temi vennero quindi imposti rapidamente dal golpe cileno, dalla crisi petrolifera, dalla ristrutturazione mondiale dell’economia e della finanza. E il modo in cui crisi e scontro di classe si sviluppavano in Italia portò a sua volta su «Primo Maggio» l’analisi più ravvicinata del sistema politico e della composizione di classe e un intervento più diretto nel dibattito politico corrente.


Per questi temi e per il modo in cui sono trattati, la rivista trova un ventaglio di lettori molto ampio, anche se non particolarmente numeroso, visto che venderà al massimo 4300 copie. Nella «storia» della rivista stessa, pubblicata sul numero 19/20, a conclusione dell’esame dei suoi lettori, gli estensori del saggio affermano abbastanza giustamente che «Primo Maggio» ha trovato aree di consenso in tutta la sinistra, istituzionale e no, e in tal senso è stata una rivista unica nel suo genere. Tra i contributi maggiori di «Primo Maggio»: l’analisi della forma denaro in quanto chiave di lettura sia del nuovo imperialismo monetario, sia delle nuove egemonie politiche sul piano internazionale Quindi, i contributi alla storia del movimento operaio internazionale – valga su tutti la prolungata attenzione sull’Industrial Workers of the World – e gli esempi di impiego delle fonti orali. La proposizione di temi trascurati dalla sinistra, come quello dei trasporti. Infine, nei suoi ultimi numeri «Primo Maggio» – a fianco dell’analisi delle trasformazioni tecnologiche e dei loro risvolti sociali – ha iniziato un coraggioso lavoro di ricostruzione storico-politica dei percorsi individuali e collettivi che hanno attraversato il Movimento.


Che cos’è la storiografia militante [1]


Bruno Cartosio, introducendo sul numero 1 della rivista un saggio sulle lotte guidate dagli anarco-sindacalisti americani nel primo quindicennio del Novecento, scrive che «l’insorgenza di nuovi modi di lottare e di nuovi soggetti sociali a protagonisti delle lotte impose allora, come ora, la modifica delle categorie di giudizio necessarie per l’organizzazione del nuovo». Centrale, nel brano, e nell’impostazione del lavoro storiografico di «Primo maggio», è proprio quel ora come allora; la produttività-legittimità dell’indagine esige questo nesso («molto di quello che loro hanno portato nella fabbrica va riportato dentro la fabbrica e attorno ad essa», p. 44), in quanto la storiografia militante pone al suo centro le lotte, e lotte che hanno per protagonisti «dell’insubordinazione capitalistica» la figura «dell’operaio massa dequalificato, sprofessionalizzato, del disoccupato bianco e nero, del sottoproletariato nero dei ghetti urbani». Si tratta insomma di rintracciare e valorizzare nella storia di classe americana situazioni, comportamenti, modelli d’organizzazione del tutto alternativi al modello europeo e terzinternazionalista, soprattutto in quanto sembrano fortemente anticipatori della situazione italiana degli anni Sessanta e Settanta).


Ciò coincide con il porre come indispensabile un nesso tra storiografia e lotte presenti: le lotte presenti e passate reciprocamente si spiegano; sono le urgenze pratiche e teoriche del presente a spingere sulle tracce delle lotte passate utili a rileggere il presente, e viceversa. Per esempio, una rassegna storiografica dal titolo Per la storia degli anarchici spagnoli è introdotta da questa considerazione: si tratta della storia «più vicina alla nostra storia recente, alle scoperte e alle speranze legate alle lotte del 1968-69 e poi ai tentativi di organizzazione e di progetto politico scaturiti da quegli anni» (numero 6, p. 79); e così Marco Revelli introduce un suo saggio notevole, dal titolo Fascismo come rivoluzione dall’alto, affermando che «tentare di leggere con l’occhio di oggi il ciclo di lotte degli anni ’20 non è forse operazione scorretta»; saggio dichiaratamente in risonanza con l’analisi dell’«uso capitalistico della crisi» degli anni Settanta che la rivista va conducendo sul piano della crisi finanziaria e dei mutati rapporti fra politica ed economia.


I tratti fondativi della concezione storiografica di «Primo Maggio» trovano un’ulteriore limpida esemplificazione nell’uso della storia orale, che diviene una delle novità metodologiche di maggior rilievo della rivista, soprattutto grazie alla partecipazione al lavoro redazionale di Cesare Bermani. La fonte orale viene presentata e vissuta come lo strumento più adatto, per sua natura, a permettere una ripresa della parola dal basso, sottraendo la storia del proletariato e delle sue lotte al dominio delle verità ufficiali, e delle distorsioni che le carte di polizia o le memorie di funzionari e dirigenti di partito implicano. Bermani scrive, paradigmaticamente, che «la storia orale sarà attendibile solo se il ricercatore è anche un militante, e in quanto tale riscuote la piena fiducia del testimone. La storia del e per il movimento operaio e contadino non può che essere una storia scritta da un militante per i militanti» (…) «la funzione che viene ad assumere lo storico di portavoce e generalizzatore di esperienze non è di poco conto se è vero, come è vero, che soltanto se ciò avviene va avanti la scienza operaia, una scienza che è sempre in funzione di un’attività pratica, una scienza che denuncia, trasforma, genera lotta» per cui allo «storico, militante tra i militanti, è demandato il compito di farsi portavoce delle esperienze della classe e di apprestare canali idonei alla loro circolazione e generalizzazione all’interno di essa e nelle sue organizzazioni».


Sullo stesso argomento, Bologna scrive, in una lettera a Bermani, «mi sembra importante sottolineare come la storia orale implichi un rapporto fiduciario che ne fa uno strumento valido solo di una storia militante, di una storia di compagni scritta da compagni. Non ci interessa la fonte orale “in sé” ma la fonte orale come rapporto di militanza».Ciò che qui viene affermato per la storia orale è in realtà estensibile alla intera concezione di storiografia militante come viene propugnata dalla rivista, fin dall’incipit della quarta di copertina: «storia di lotte, scritta da compagni per compagni».In sintesi, alla ricerca storiografica sembra dunque competere una funzione di laboratorio, di riflessione che deve prima di tutto rispondere alle urgenze delle lotte in corso. Questo strettissimo nesso fra lotte presenti e riflessione storiografica rappresenta, dal mio punto di vista, la principale spiegazione del fascino della concezione del lavoro storiografico propugnata da «Primo Maggio»; collocandosi nel punto più lontano da qualunque esigenza di neutralità e di asettica scientificità (liquidate con un certo sprezzo come tipiche della «storiografia accademica»), questa impostazione abolisce d’un sol tratto, per chi vi aderisca, domande ricorrenti tra gli storici (almeno quando sono giovani e idealisti) grossolanamente riassumibili nella questione «a che serve, a chi serve il mio lavoro?».


Legittimità, utilità, correttezza dell’agire storiografico sono qui verificate esclusivamente dal suo essere interno e in risonanza con le lotte in corso. Dunque, nell’accezione proposta da «Primo Maggio», la committenza era indiscutibilmente data, studiare la classe coincideva con lo studio delle sue lotte, della sua alterità, verificando la capacità delle lotte di produrre identità e organizzazione (o studiando i motivi per cui questi passaggi non si erano determinati); dunque studiare la classe, ben più che un mestiere, diveniva un prender parte, pur con vari distinguo e perplessità, alla lotta in corso; né era allora dubitabile, per me e per molti altri, che di lotta di classe si trattasse, e che l’alterità operaia rispetto al capitale fosse, oltre che una realtà, una buona causa. Questo nesso strettissimo tra ciclo di lotte e lavoro storiografico era appunto ragione di fascino, ma, come spesso accade, coincideva anche con la massima debolezza di questa impostazione. Debolezza ben visibile soprattutto su due piani. 1. Anzitutto, come lo stesso Bologna avrebbe sottolineato di lì a pochi anni, i tempi della ricerca e della riflessione storiografica sono per loro intima natura diversi da quelli delle lotte operaie e del conflitto sociale; ancor più lo sono i tempi in cui la riflessione storiografica può essere metabolizzata, entrare in circolo, interagire effettivamente con i movimenti, con le lotte, con gli ipotetici, e normalmente inconsapevoli, committenti di quelle indagini e di quelle riflessioni.


Non è dunque un caso che pressoché tutti i saggi storiografici presentati su «Primo Maggio» siano caratterizzati dall’essere, più che il risultato di indagini originali, proposte interpretative, riletture, secondo prospettive a volte radicalmente innovative, di questioni ampiamente note e già dibattute; oppure sintesi, rassegne, a volte molto stimolanti, di problemi di storia operaia fino a quel momento del tutto trascurati dalla storiografia nazionale (è il caso, soprattutto, delle incursioni nella storia delle lotte negli Stati Uniti). Ma proprio l’urgenza, il legame strettissimo con l’attualità e la qualità delle lotte in corso abolisce il tempo e lo spazio per progettare, promuovere, mettere in circolo ricerche innovative e originali all’altezza delle ambizioni della rivista.2. Né è questo il limite maggiore, se è vero che a partire da questa impostazione diventa ineludibile la domanda: che si fa, quando arriva una sconfitta epocale, quando le lotte si frantumano e poi si inabissano? Se storiografia operaia e storiografia militante coincidono, e sono una funzione delle lotte e della costruzione di una «scienza operaia», in assenza di un soggetto collettivo che esprima una potenzialità di lotta, la storiografia militante sarebbe priva di senso e di scopo, e a essa subentra la «storiografia accademica», che si occupa di operai, mestieri, storie e memorie individuali, trattando di storia operaia come di un qualunque altro oggetto. Con tipica, radicale consequenzialità, nel 1984 Sergio Bologna, in uno degli ultimi numeri di «Primo Maggio», constatata la pesantezza della sconfitta politica che si è consumata nel decennio trascorso, scrive: «dobbiamo ammainare la bandiera straccia di “storia militante”, bruciarla. Tanto, sappiamo come vanno le cose: ci sarà sempre qualche raccoglitore di cimeli che le conserverà nel cassetto». Affermazione particolarmente amara e drastica, che implicherebbe la rinuncia alla possibilità di una qualunque storiografia operaia non accademica. I progetti della storiografia militante si erano fondati sull’ipotesi di una propria immediata utilità, nel dotare le lotte in corso di modelli teorici e di esperienze storiche, in una fecondazione continua. Venuta meno la composizione politica di classe, e poi lo stesso aggregato di forza lavoro che la esprimeva, vengono meno la possibilità e l’utilità di una storiografia operaia militante. Almeno, di quella accezione di storiografia militante. In realtà, come lo stesso Mario Tronti ha sottolineato qualche anno fa, è facilmente constatabile «la presenza, l’esistenza, nascosta nelle pieghe della cultura contemporanea, di una serie di ricerche, di ricostruzioni, di analisi, di riflessioni, riguardanti la storia della classe operaia. Questi studi sono più diffusi di quanto non si creda. È solo il clima culturale, e il dominio in esso di un punto di vista superficialmente post-operaio, che non li fa vedere».


Di che storie si tratti, se coloro che se ne fanno carico si sentano raccoglitori di cimeli, o piuttosto protagonisti di una battaglia di lungo corso, di resistenza culturale, a queste questioni forse il convegno offrirà qualche risposta. Resistere alla rimozione delle lotte, della loro legittimità e grandezza, delle potenzialità, delle contraddizioni che hanno innescato, resistere al trionfo dell’esistente come dotato di necessità e di razionalità indiscutibile, rappresenta, a mio avviso, una forma di militanza, che fa della storiografia operaia una pratica comunque dotata di una sua specificità.Per altro, resta vero che in assenza di un ciclo di lotte, di un movimento chiaramente identificabile, qualunque militanza diviene più difficile da precisare, da definire, e resta potenzialmente sospesa tra un volontarismo individuale e un lavoro intellettuale onesto ma autoreferenziale. Insomma, secondo me potrebbe non essere inutile tornare a riflettere, anche, sulle possibili declinazioni del concetto di militanza dello storico di classe operaia, o anche, naturalmente, dell’obsolescenza del concetto stesso. 

Note


[1] da: Santo Peli, La rivista «Primo Maggio» (1973-1989), DeriveApprodi (prima gestione), 2010

Sergio Bianchi nel 1992 ha fondato (con Mauro Trotta) la rivista «DeriveApprodi». Nel 1998 è stato cofondatore della casa editrice DeriveApprodi nella quale ha assunto le cariche di direttore editoriale e amministratore unico fino al 2023. In quei 25 anni la casa editrice ha pubblicato un migliaio di titoli. Nel 2020 ha progettato e realizzato la rivista on line di dibattito politico-culturale «Machina». Ha curato i saggi: L’Orda d’oro a firma di Nanni Balestri e Primo Moroni; La sinistra populista; (con Lanfranco Caminiti) Settantasette. La rivoluzione che viene e Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, voll. I, II, III; nanni balestrini – millepiani. È autore dei saggi: Storia di una foto; (con Raffaella Perna) Le polaroid di Moro; Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo. È inoltre autore del romanzo La gamba del Felice (Sellerio).

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