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Al limite: su Trump e la socialdemocrazia Thomas Berra Matthew Karp analizza la politica di Trump negli Stati Uniti a partire da una profonda critica alle compagini democratiche. Trump svolge il ruolo di rivitalizzare una sinistra americana che soffre di una importante empasse interna. L'articolo è uscito per la prima volta su Sidecar la rivista di New Left Review Il mondo politico statunitense oggi può dirsi diviso non solo tra destra e sinistra, ma anche lungo un altro asse: i massimalisti e i minimalisti di Trump. I massimalisti tendono a vedere il tycoon come un agente o un tramite di una rottura storica improvvisa – che si tratti della trasformazione del sistema partitico, della distruzione della democrazia americana o dell'implosione dell'ordine mondiale liberale – . I minimalisti non vedono il presidente USA come una rottura fondamentale, piuttosto come un simbolo raccapricciante di sviluppi di lungo corso, o un sintomo di crisi che affliggono altri settori: un buco nero che distoglie l'attenzione dai veri problemi politici. Non si tratta di una distinzione puramente partitica o ideologica, il che è uno degli aspetti che la rende interessante. Ci sono molti massimalisti liberali ben noti, naturalmente – alcuni di loro si sono recentemente trasferiti in Canada per paura o in segno di protesta contro lo status quo – e ci sono anche massimalisti conservatori, per lo più editorialisti di destra che hanno mobilitato pochi voti ma hanno avuto un impatto enorme sulla struttura e sul tenore della politica anti-Trump. Nonostante alcuni disaccordi, i massimalisti liberali e conservatori sono uniti nel considerare il presidente stesso come la questione principale – spesso l'unica – della politica nazionale; entrambi si sono affrettati inoltre ad arruolarsi nella “guerra al fascismo”, spesso brandendo la parola con la “F” come un bastone per disciplinare la sinistra alle elezioni e altrove. Tuttavia, esiste anche un minimalismo contrapposto del centro, articolato da James Carville, che a febbraio ha consigliato ai democratici di “girarsi e fingersi morti” – cosa che, a quanto pare, sanno fare bene – perché l'amministrazione Trump sarebbe “crollata” nei trenta giorni successivi. Anche il Senato democratico sembra contenere una buona dose di minimalisti. Secondo loro, Trump è il peggior nemico di se stesso e in ogni caso non rappresenta una vera rottura con la politica tradizionale; i democratici devono semplicemente tenere un profilo basso e prepararsi per una vittoria schiacciante nelle elezioni di medio termine del 2026. I massimalisti di sinistra si dividono sostanzialmente in due fazioni. Quelli che hanno celebrato Trump per aver demolito l'ordine neoliberista, dipingendo il presidente del reality show come una figura storica di grande importanza – «l'anima del mondo che cavalca una scala mobile dorata», come ha detto lo scorso novembre il podcast Aufhebunga Bunga. Poi, i sinistroidi dell'«emergenza nazionale» che vedono l'attacco del presidente agli attivisti studenteschi, all'immigrazione clandestina e ai diritti civili come una crisi urgente che supera ogni altro livello di analisi e richiede una risposta immediata. Entrambi vedono in Trump una chance per la sinistra. Per i primi, le conseguenze offrono la possibilità di raccogliere alcuni frammenti del malcontento nel sistema neoliberista ormai in frantumi, aprendo la possibilità di una sorta di riallineamento con la rivolta della classe operaia contro i democratici. Per il secondo, è l'occasione per un ampio fronte popolare contro Trump in nome di una forma di antifascismo che permetterà alla sinistra di esercitare una certa influenza insieme agli alleati liberali. Qui, tuttavia, intendo sostenere un minimalismo progressista – critico e qualificato – facendo luce su alcune questioni chiave dei primi mesi dell’attuale presidenza. In primo luogo, i dazi. Nel «giorno della liberazione», Trump sembrava aver dato il via alla demolizione dell'economia internazionale che molti massimalisti temevano e alcuni speravano. Tuttavia, al primo segnale di nervosismo dei mercati obbligazionari, ha cambiato rotta, passando dal riallineamento commerciale globale a una semplice guerra commerciale con la Cina, per poi fare marcia indietro anche su questo poche settimane dopo. Restano in vigore dazi significativi sulla Cina e sono probabili ulteriori manovre tariffarie, ma un cambiamento trasformazionale sembra fuori discussione. A Wall Street, quello che il Financial Times ha soprannominato “il commercio del taco”, basato sulla teoria che Trump si tiri sempre indietro, ha riportato i mercati ai livelli pre-dazi. In secondo luogo, il DOGE (Department of Government Efficiency) [1]. Con Elon Musk che ha ufficialmente lasciato il progetto, non è troppo presto per valutarne l'impatto. Secondo il tracker del NYT, oltre 58.000 dipendenti federali sono stati licenziati e altri 149.000 sono in programma per essere tagliati (metterei i dipendenti che hanno accettato il buyout in una categoria leggermente diversa). Ciò equivale alla cessazione di circa il 7% di una forza lavoro civile federale di 3 milioni di persone; il 7%, forse non a caso, corrisponde all'aumento della forza lavoro federale nell'era post-Covid, tra il 2019 e il 2023. Non si tratta di un semplice ritorno al Trump 1.0. Il DOGE ha distrutto l'USAID oltre ogni possibilità di rinascita giudiziaria, ha quasi strangolato i finanziamenti federali alla scienza e ha lasciato una scia di caos, disfunzioni e sofferenza in tutto il servizio civile. Ma suggerisco di prendere sul serio il verdetto dei sostenitori ideologici più accaniti dei tagli al governo, come Jessica Riedl del Manhattan Institute, che hanno definito l’iniziativa come “teatro politico” piuttosto che un vero tentativo di riorganizzare la forza-lavoro federale, per non parlare di ridurre lo Stato. Il risultato più significativo è stato il traumatismo dei dipendenti federali liberali. Nella misura in cui aveva una qualche logica, al di là della gratificazione dell'ego di un importante donatore, il DOGE è servito a Trump per colpire bersagli facili, infuriare i democratici e poi dire alla propria base e alle frange ideologiche della coalizione: «Non dobbiamo fare tutti questi tagli a livello legislativo, non saremo in grado di farlo, perché invece stiamo facendo il DOGE». I numeri sono minimi, i sentimenti no. Poi c'è il Congresso: remissivo, inerte, quasi patetico. Ma ciò che il Congresso non ha fatto è significativo. Rispetto ai primi cento giorni di Roosevelt, Reagan e persino Obama nel 2009, l'azione del Congresso è stata praticamente nulla. I repubblicani hanno apparentemente una tripletta di governo, ma la blitzkrieg di Trump è avvenuta quasi interamente tramite ordini esecutivi, un segno di debolezza, non di forza. Il <> che è stato approvato a fatica dalla Camera rappresenta probabilmente il culmine, se non la summa, dell'agenda legislativa del primo mandato di Trump. È un brutto pasticcio, ma anche estremamente familiare. Vasti regali alle aziende e ai ricchi, simbolici doni per i lavoratori e tagli crudeli per i poveri, pagati con un'esplosione del debito e mascherati dal linguaggio del patriottismo: non si tratta di una rottura storica, ma del modello prevedibile di governo repubblicano da oltre mezzo secolo. L'elemento di gran lunga più rilevante del disegno di legge è la proroga di 3,8 trilioni di dollari dei tagli fiscali di Trump del 2017, di per sé un commento alla mancanza di nuove priorità sostanziali da parte dell'amministrazione. Altre disposizioni, come una tassa sulle dotazioni destinata alle “élite woke” dell'Ivy League, sono più simboliche che realmente trasformative. La caratteristica più dura del disegno di legge della Camera – i tagli al Medicaid che potrebbero negare l'assistenza sanitaria a milioni di persone – potrebbe non sopravvivere al Senato. Ma anche questo attacco diretto ai poveri e ai malati non è un artefatto del trumpismo, bensì il feroce anti-welfarismo che ha governato la destra repubblicana sin dall'era di Newt Gingrich. Se nel 2025 ci sarà un riallineamento ideologico degno di nota, sarà solo sotto forma di una ribellione MAGA contro i tagli al Medicaid. Infine, ci sono le elezioni speciali dello scorso aprile. I democratici sono diventati un partito che prospera su questi eventi in deroga: più bassa è l'affluenza, meglio è. In questa occasione, sembrava possibile che, dopo tutto il clamore e i milioni investiti da Musk nel Wisconsin, le dinamiche potessero essere diverse, che potesse esserci un'ondata di sostegno popolare per l’operato del presidente. Ma mentre i repubblicani sono riusciti a generare un'affluenza più alta, c'è stata anche un'affluenza più alta per i democratici, il che ha significato che praticamente tutti i margini di Trump, compresa la Florida, sono stati dimezzati. A questo proposito, comunque, Chuck Schumer de i minimalisti del Senato democratico hanno ragione: le leggi della gravità politica sembrano rimanere le stesse del 2022 e del 2018. Secondo i mercati delle scommesse, le probabilità che i democratici riconquistino la Camera nel 2026 sono ora circa dell'80%. Riflettendo sul “fenomeno Trump”, mi è venuto in mente Lost Highway (1997) di David Lynch. La pellicola inizia con un musicista jazz che vive in una versione asettica e ultramoderna della California. Non ha un legame profondo con la moglie e non riesce a dare il meglio di sé nel talamo. L'atmosfera del film è pesante, il ritmo lento. È una serie di sequenze opprimenti e soffocanti in cui l'eroe non riesce a superare lo stallo. A metà del film – con la cifra tipica del regista – il protagonista si trasforma senza alcuna spiegazione in un altro personaggio, un giovane meccanico catapultato in una classica trama noir, con tanto di triangolo amoroso. La moglie si reincarna in una femme fatale disperatamente innamorata di lui. Lui finalmente la ricambia, ma è minacciato da un gangster feroce, un cattivo caotico e ringhioso che lo bracca. Slavoj Žižek – che ha scritto un intero libro su Lost Highway – vede questa trasformazione come una sorta di slittamento, il gangster come una proiezione delle inibizioni e delle ansie che tormentavano il musicista jazz. Il fallimento nell'agire, nell'essere un agente nel mondo, è stato trasposto sulla figura criminale. Questa è la funzione che Trump svolge oggi per molti, non solo nel mondo liberale ma anche tra alcuni massimalisti di sinistra. Trump incarna l'azione, il potere, il movimento, l'eccitazione: un incitamento all'insurrezione aperta contro i fascisti, forse, o almeno un sintomo del crollo del liberalismo. Ma questo potrebbe essere in definitiva un modo attraente e conveniente per esternare una empasse interna: la profonda e scoraggiante frattura tra la sinistra storica e la classe operaia. Questa è <> storia della politica americana e del privilegio dagli anni '70: un dramma cupo e di lunga durata in cui Trump non è il protagonista. Il mostruoso spettacolo del trumpismo, che è già riuscito a rivivificare Canada ed Australia, offre certamente opportunità politiche di qualche tipo. Ma per coglierle dobbiamo riconoscere e affrontare questa marea prossima a travolgerci. Note [1] Il Department of Government Efficiency (lett. "Dipartimento dell'Efficienza Governativa"), in sigla: DOGE, formalmente US DOGE Service Temporary Organization (lett. "Organizzazione temporanea del servizio DOGE negli Stati Uniti"), è un'organizzazione temporanea nata su iniziativa della seconda amministrazione Trump e guidata da Elon Musk. Matthew Karp è professore associato di storia all'Università di Princeton, specializzato nello studio della guerra civile americana e del suo rapporto con il mondo del XIX secolo. È autore di This Vast Southern Empire: Slaveholders at the Helm of American Foreign Policy (2016).
- clan-milieu
Il falcone maltese # 3: dal ritorno all’ordine alla critica sociale: manieri, cottages e bassifondi Roberto Gelini Mauro Trotta nella sua rubrica <> ci porta ad esplorare un altro tipo di letteratura crime noto come hard boiled . Si passa da un romanzo giallo dove l’indagine è mirata a ripristinare l’ordine costituito in un ambiente patinato e borghese, ad un ambiente fatto di bassifondi e dove i protagonisti sono gangstar, criminali, dark lady. Gli esponenti principali di questo filone sono Dashiell Hammett e Raymond Chandler. Chandler non scriverà solo romanzi ma sarà anche sceneggiatore di diversi film tra cui lavorerà alla sceneggiatura di una delle pellicole più note di Alfred Hitchcock, L’altro uomo . Al momento della nascita del poliziesco, è possibile rintracciare nelle opere elementi di resistenza all’avvento del capitalismo. Elementi che abbiamo visto all’opera nel singolo autore – da Poe a Conan Doyle – ma che possiamo ritrovare anche nella costellazione di personaggi che, all’inizio del Novecento, si affiancano a Sherlock Holmes nel raggiungere elevatissimi livelli di popolarità all’interno del panorama narrativo del crime . Condividono, infatti, il grande successo del detective per eccellenza, figure che non si ergono assolutamente a difensori della società ma, all’opposto, sono criminali, nemici pubblici. Certo, si tratta di villain particolari, ladri gentiluomini e spietati trasformisti come Arsène Lupine, ideato da Maurice Leblanc, e Fantômas, creatura di Marcel Allain e Pierre Souvestre. Ben presto, però, anche la letteratura di consumo, e il poliziesco in particolare, dovrà essere adeguato alla nuova ideologia che va informando il mondo sviluppato. Dal 1848, l’anno delle rivoluzioni, si erano viste all’opera le nuove classi rivoluzionarie. Non solo la borghesia, che ormai reclamava la totalità del potere politico dopo aver conquistato quello economico, ma soprattutto il proletariato che spingeva nel nome di una società socialista. Si affermava la cultura di massa, ma sulla scena della storia si affacciavano anche e soprattutto quelle che qualcuno ha definito «le classi pericolose». Si trattava, allora, di difendere lo stato delle cose, garantire la nuova morale borghese e, soprattutto, consolidare il potere acquisito anche a livello dell’immaginario collettivo. È in questo contesto che prende piede il poliziesco classico, il whodunit , l’enigma della camera chiusa. Lo schema di base è semplice: il delitto mette in crisi l’ordine costituito, che deve essere restaurato scoprendo il colpevole ed «eliminandolo» dalla scena sociale. La razionalità – la stessa razionalità del sistema capitalistico – consente all’investigatore di svelare l’arcano e ripristinare l’ordine violato. Certo, da sempre, il delitto rappresenta una ferita dell’ordine sociale, anche in Poe o Conan Doyle. Adesso, però, la garanzia di difendere lo status quo, a livello simbolico, diventa centrale nell’economia di valori trasmessi dal romanzo poliziesco. Non a caso le storie si svolgono sempre in un contesto borghese o aristocratico, quasi a sottolineare quale ordine è in pericolo e quale società è sempre comunque in grado di difendersi. Gli autori sono quelli del periodo d’oro del giallo, scrittori del livello di Agatha Christie, con i suoi Hercule Poirot e Miss Marple, S. S. Van Dine, creatore di Philo Vance e autore delle Venti regole per scrivere romanzi polizieschi . Ambientati originariamente in Inghilterra o negli Stati Uniti, i romanzi di questo tipo, incentrati comunque su un mistero, continuano ancora oggi – chiaramente con le dovute modifiche – a essere prodotti. Inoltre, nel periodo d’oro, va diminuendo l’opposizione protagonista-poliziotti, fino ad arrivare a una sorta di integrazione con Ellery Queen, dove il protagonista è il figlio dell’ispettore capo della squadra Omicidi e chiaramente collabora con la polizia. Del resto, forse, il genere poliziesco potrebbe nascere da un’altra integrazione in qualche modo sorprendente, quella tra ladro e gendarme. Si tratterebbe di spostare la sua origine più indietro nel tempo, prima di Poe fino al periodo napoleonico, a François Vidocq, ladro, criminale, evaso, capo e fondatore della Sûreté francese, in cui arruolò parecchi ex criminali. Nel 1828, dopo essersi ritirato dalla polizia, Vidocq pubblicò le sue memorie, che ebbero un grandissimo successo. Fondò nel 1833 anche il Bureau de renseignements pour le commerce, la prima agenzia di investigatori privati di Francia. Mentre il giallo – incentrato sulla risoluzione di un mistero, di un crimine che viola l’ordine del mondo e che va dunque ricostruito scoprendo e punendo il colpevole – continua per la sua strada arrivando fino a oggi, qualcosa di nuovo si affaccia sulla scena del romanzo poliziesco. Si tratta di un nuovo tipo di crime story, completamente agli antipodi di quello che è ormai il romanzo poliziesco tradizionale. Se questo si svolge in ambienti medio alto borghesi o addirittura aristocratici, il romanzo nuovo spesso vede personaggi che si muovono nei bassifondi, nei luoghi più pericolosi della città. Protagonisti e comparse non sono gentiluomini azzimati e gentildonne sofisticate, circondati dalla loro servitù, ma in genere gangster o mezze tacche del crimine. L’azione non si sviluppa seguendo esclusivamente le volute dei ragionamenti del detective, ma per tentativi concreti, andando a cercare indizi e risposte nei luoghi più diversi e consumando la suola delle scarpe, per così dire, e facendo a botte più che mettendo in moto «le celluline grigie». Emerge, poi, una figura ormai mitica della letteratura poliziesca – e non solo – la «dark lady», la «femme fatale». Il nuovo giallo nasce negli Stati Uniti ed è subito noto col nome di «hard boiled». I suoi esponenti più importanti sono senza dubbio Dashiell Hammett e Raymond Chandler. La sua nascita è rintracciabile a partire dagli anni Venti del Novecento. Hammett crea Continental Op nel 1923 e Sam Spade (il detective protagonista di The Maltese Falcon ) nel 1929. È stato lui stesso investigatore privato e ha lavorato per la mitica agenzia Pinkerton. Ha un’esperienza diretta, dunque, della materia che tratta nei suoi libri. È stato iscritto al Partito comunista degli Stati Uniti d’America. Negli anni Cinquanta si rifiutò di rispondere alla commissione per la repressione delle attività antiamericane del famigerato senatore Joseph McCarthy e fu condannato a sei mesi di carcere per oltraggio alla corte. Raymond Chandler inventa la figura di Philip Marlow tra il 1938 e il 1939. Nel suo saggio La semplice arte del delitto attacca soprattutto per il suo scarso realismo il romanzo poliziesco tradizionale ed esalta la figura del suo predecessore Dashiell Hammett: «Hammett ha restituito il delitto alla gente che lo commette per un motivo, e non semplicemente per fornire un cadavere ai lettori; e con mezzi accessibili, non con pistole da duello intarsiate, curaro e pesci tropicali». Lavorerà come sceneggiatore a Hollywood e non si occuperà soltanto della versione cinematografica dei propri romanzi, ma parteciperà alla sceneggiatura di altri capolavori del cinema giallo. Collaborerà, infatti, con Billy Wilder alla sceneggiatura di La fiamma del peccato , tratto dal romanzo di un altro grande esponente dell’ hard boiled, James M. Cain, e lavorerà alla sceneggiatura di uno dei film più noti e più belli di Alfred Hitchcock, L’altro uomo , noto anche col titolo di Delitto per delitto , ispirato abbastanza liberamente da Sconosciuti in treno di Patricia Highsmith. Mauro Trotta ha lavorato per vent’anni nel campo della comunicazione e dell’editoria. Ha partecipato insieme a Sergio Bianchi alla fondazione della rivista «DeriveApprodi». Da oltre vent’anni collabora alla pagina culturale de «il manifesto». Dal 2005 insegna materie letterarie nei licei e negli istituti letterari. Ha partecipato, curato e pubblicato libri sulla pubblicità, sui movimenti e sugli anni settanta.
- comp/art
Istanbul: cronaca di una generazione dietro le sbarre momenti in cui un giovane in costume da derviscio rotante si annoiava, immortalati dal fotoreporter della Reuters Ümit Bektaş L’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu candidato del CHP all’elezioni presidenziali del 2028 ha innescato una serie di proteste che si sono diffuse in tutta la Turchia. Il sindaco di Istanbul, ancora in carcere, insieme ad altri suoi sostenitori è stato accusato di favoreggiamento al terrorismo. Ceyda Baytas ci racconta i giorni della protesta, del protagonismo dei giovani, degli artisti e della generazione Gezi Park. Ci racconta che in Turchia si scende in piazza per denunciare l’autoritarismo di Erdogan ma è la protesta di tutti coloro che nel mondo assistono alla trasformazione delle democrazie in finzione: <<[...] se c’è qualcosa che la Generazione Z ha insegnato al pubblico è come la repressione generi reinvenzione. Non è solo la rabbia a essere diversa, è l’articolazione di quella rabbia. E non si tratta solo una storia turca, ma di una storia globale.>>. Sì, tutto questo è iniziato con İmamoğlu. Sì, riguarda Istanbul. Sì, a vent’anni non ci si aspetta che io scriva questo articolo. Eppure, lo faccio. Eppure, riguarda ogni città sotto il peso di un governo che ha dimenticato di essere al suo servizio. Riguarda ogni studente che continua il proprio percorso quando il diploma che otterrà non sarà nemmeno certo di essere valido tra qualche anno. Riguarda ogni donna che marcia, ancora e ancora, rifiutandosi di essere messa a tacere. Ogni artista che continua a dipingere. Il mondo dovrebbe guardare. Non solo per la storia distopica di Türkiye, ma perché offre uno specchio a ciascuno. Uno specchio che riflette quanto fragile diventi una democrazia quando le definizioni di diritti, legge e giustizia si confondono, quando la finzione diventa legge. Quello che verrà dopo non è scritto. Ma non sarà silenzioso. Non più. Sono stata picchiata e arrestata. Dopo il mio arresto, un poliziotto barbuto, alto un metro e novanta, mi ha toccato il seno. Ho avuto paura e mi sono fatta la pipì addosso. Le poliziotte mi hanno pressata per non fare denuncia... Sono stata ammanettata dietro la schiena e un poliziotto ha premuto il piede sulla mia testa... La mia famiglia non è stata avvisata. Ho dovuto aspettare 24 ore in una cella di detenzione con i vestiti bagnati di urina. Testimonianza di una manifestante di Istanbul Istanbul non è mai stata estranea alla resistenza. Eppure, l’attuale ondata di disordini è diversa da qualsiasi altra. È una reazione esplosiva dopo anni di oppressione politica, depressione economica e di palese smantellamento della democrazia, che ora sta raggiungendo un punto di rottura di fronte alla brutalità dello Stato. Il grilletto? Il bersaglio politico di Ekrem İmamoğlu, sindaco di opposizione di Istanbul, candidato per le prossime elezioni presidenziali del 2028. Per anni, il governo ha cercato di rimuoverlo dalla sua posizione, temendone l’influenza sul cuore della cultura e dell’economia della Turchia. Dopo la vittoria alle municipali del 2019, dove ha vinto non una, ma due volte con una percentuale del 54,22%, gli attacchi alla sua persona hanno preso una brutta piega. Il culmine è stato quando le autorità dell’Università di Istanbul hanno dichiarato che la sua laurea non era valida, ostacolando così la sua possibilità di candidarsi alle elezioni presidenziali. Lo scandalo ha suscitato un’immediata indignazione popolare che si è espressa inizialmente attraverso i social. Invalidare la laurea di İmamoğlu significava cancellare la scelta democratica e inaugurare un pericoloso precedente per il quale nulla sarebbe stato più certo. Se è possibile alterare un diploma, cos’altro si può manipolare? La situazione è peggiorata quando, nel giro di pochi giorni, il 19 marzo alle 7.00 del mattino, Ekrem İmamoğlu è stato arrestato con l’accusa di «costituzione e guida di un’organizzazione criminale, frode e appropriazione indebita, collaborazione con organizzazioni terroristiche». Mentre il Tribunale ha respinto l’accusa di terrorismo, İmamoğlu è stato ritenuto colpevole di altri reati. Nella stessa operazione sono stati arrestate oltre un centinaio di persone. I leader del CHP hanno condannato gli eventi etichettandoli come «tentativo di colpo di stato». Nel giro di pochi giorni, Istanbul è diventata irriconoscibile. Milioni di abitanti hanno occupato le strade. Tra studenti, lavoratori, insegnanti, c’erano i figli di coloro che una volta avevano protestato al Gezi Park. E, oggi come allora, l’attuale sfida riecheggia quella dei genitori e il governo risponde con la forza, ignorando le istanze collettive. La risposta è stata rapida e spietata. Migliaia di poliziotti dispiegati durante la notte hanno trasformato le aree chiave delle proteste in zone militari. Il ruolo della polizia è andato oltre il controllo della folla: cannoni ad acqua, gas, lacrimogeni, proiettili di gomma. La volontà era quella di disumanizzare le persone con arresti privi di accuse e detenuti privi di avvocati. Le stazioni di polizia erano sovraffollate, mentre gli agenti recintavano letteralmente la folla chiudendola in spazi pubblici e parchi. Le barricate di veicoli blindati bloccavano piazza Taksim, le aree di protesta venivano interrotte. L’accesso ai social media, come X, è stato interdetto. Il messaggio di chi detiene il potere è chiaro: qualsiasi forma di resistenza è accolta con la più feroce brutalità. Ma gli abitanti di Istanbul hanno rifiutato il silenzio. Le proteste si sono rapidamente diffuse in tutta la Turchia e nel mondo. Man mano che crescevano, anche le tattiche di forza aumentavano. Il silenzio non era più un’opzione e la gente trovava nuovi modi di protestare, scioperare e farsi sentire. momenti in cui un giovane in costume da derviscio rotante si annoiava, immortalati dal fotoreporter della Reuters Ümit Bektaş Nel processo di arresto di Ekrem İmamoğlu, gli studenti hanno marciato con slogan e striscioni vicino all’Università di Istanbul, a Saraçhane e in piazza Beyazıt. La polizia antisommossa, equipaggiata con caschi e scudi, ha cominciato a usare una violenza sproporzionata per disperdere i gruppi. Ogni civile è stato trattato come minaccia da neutralizzare. I manifestanti si rifugiavano negli androni, alcuni negli alberghi. Non importava dove cercassero rifugio, nessuno si sentiva davvero al sicuro. La polizia arrestava chiunque rifiutandosi di fornire giustificazioni legali chiare. 301 studenti sono stati arrestati. Tuttavia ai sensi dell’articolo 3 della legge turca sulle riunioni e le manifestazioni (2911 sayılı Toplantı ve Gösteri Yürüyüşleri Kanunu), tutti hanno il diritto di organizzare dimostrazioni e marce pacifiche senza autorizzazione preventiva, purché siano disarmate e non violente, per scopi non considerati criminali dalla legge. Costoro provenivano da diversi background, in vari settori di studio e regioni, con un pensiero comune: l’impegno per i valori democratici e la volontà di opporsi all’ingiustizia del governo. Mentre urlavano a gran voce «hak, hukuk, adalet (diritti, legge, giustizia)», 301 di loro venivano caricati e fermati. In carcere alle donne è stato negato l’accesso ai prodotti igienici essenziali durante il ciclo mestruale. Sono state lasciate senza cibo e acqua fino a 18-20 ore. Alcuni rapporti indicano che gli studenti condividevano la cella con assassini e criminali di professione. Il gruppo di advocacy legale SOL Hukuk ha denunciato gli abusi da parte dei «capi-cella» e ha richiesto il trasferimento degli studenti. Alla Centrale della polizia di Vatan, le condizioni erano ancora peggiori: temperature sotto lo zero, nessun letto e isolamento. Domenica 23 marzo, quindici milioni di cittadini di tutta la Turchia e del mondo hanno partecipato a un voto ufficiale per esprimere il loro sostegno a Ekrem İmamoğlu mentre protestavano contro l’invadenza del governo. Le primarie inizialmente pianificate dal CHP per nominare İmamoğlu candidato presidenziale, si sono trasformate in un atto di solidarietà non solo nelle 81 province della Turchia, ma anche all’estero. Da Londra a Boston, file interminabili di persone hanno espresso il proprio voto simbolico. È stato implementato un sistema a doppia sezione per garantire l’inclusività. Una sezione era designata ai membri registrati del CHP, mentre una sezione di «Sostegno e Solidarietà» accoglieva i non membri e i sostenitori internazionali. I risultati hanno segnato una vittoria collettiva. In molti luoghi, le schede stampate con un solo nome – Ekrem İmamoğlu – sono finite rapidamente, e il tempo di votazione è stato prolungato a causa della folla. I video hanno inondato i social media dove, in più epicentri del movimento, come Kadıköy a Istanbul, le file si estendevano per interi isolati sin dalla luce dell’alba. Tuttavia, i momenti più toccanti sono stati quelli delle storie personali. Votanti anziani, in sedia a rotelle o con serbatoi di ossigeno portatili, insistevano per partecipare di persona. In ogni fila c’erano anche adolescenti che non potevano votare, ma volevano fare il loro «coming of age» politico. Saraçhane resistance. Source unknown I media filogovernativi hanno ignorato il voto, le proteste e gli arresti. In alcuni casi li hanno dipinti come «provocazione». Le principali fonti di informazione sono rimaste in silenzio sull’argomento, mentre altre trasmettevano soap opere. Le proteste principali, come quelle a Saraçhane, con milioni di persone in strada brutalmente picchiate, hanno avuto una copertura quasi nulla sui canali statali. Questi si sono concentrati su storie neutre o irrilevanti, creando l’illusione di una provocazione da parte dei manifestanti. Solo una manciata di piattaforme giornalistiche come Sözcü TV e Halk TV ha osato documentare le proteste con piena trasparenza. La loro ricompensa? Divieto di pubblicazione.Nello stato distopico della Turchia di oggi, i paralleli con 1984 di George Orwell sono innegabili. RTÜK (Consiglio Supremo della Radio e della Televisione) ha inflitto multe a stazioni come Now TV o Halk TV per violazioni gravi e ha imposto un blackout di dieci giorni a Sözcü TV per la sua trasmissione in diretta delle proteste. Accusando di «incitare l’odio e l’ostilità pubblica», RTÜK ha anche dichiarato che se le violazioni fossero continuate per una terza volta, Sözcü TV sarebbe stata soggetta a una sanzione di revoca della licenza. Dopo il riconoscimento del crescente blackout mediatico, il leader del CHP, Özgür Özel, ha dichiarato pubblicamente che stavano monitorando le emittenti che censuravano le proteste e gli incontri dell’opposizione. Contemporaneamente veniva compilata una lista. Per indebolire l’influenza del governo sui media e sul commercio, Özgür Özel ha organizzato un boicottaggio nazionale di diverse aziende e marchi visti come sostenitori del potere centrale. Tra i principali obiettivi c’erano anche i media compiacenti. La lista di Özel comprendeva il boicottaggio di aziende come Espressolab, una catena di caffè molto popolare per i suoi legami con il governo, e D&R, una catena filogovernativa di librerie. Lo sciopero dei consumi non è stato solo un atto simbolico, ma un tentativo di sfidare le strutture di potere che sostengono la narrativa ufficiale. Per il pubblico, si è trattato di un’opportunità di partecipare a un’azione diretta contro il mantenimento di un regime autoritario e violento. Rifiutandosi di comprare dalle aziende in elenco, i cittadini hanno inviato un potente messaggio. La gente consumava quello che aveva in casa, si scambiava i prodotti, non comprava più arrangiandosi alla meglio per giorni. I siti web di diverse aziende sono stati temporaneamente chiusi, causando significative interruzioni nelle vendite. Il punto di svolta è arrivato il 2 aprile, quando il boicottaggio economico si è esteso su larga scala in tutto il Paese. Una rete interuniversitaria, composta da studenti provenienti da vari istituti della Turchia, ha proclamato la data del 2 aprile, come giorno ufficiale per un boicottaggio economico nazionale. Questo non si è limitato alle sole attività commerciali menzionate da Özgür Özel, ma ha interessato tutto il paese. Con l’aumentare del tempo trascorso in carcere dai loro compagni, la Generazione Z è diventata sempre più consapevole del potere che deteneva. Questo innovativo appello all’azione si è diffuso a macchia d’olio. Migliaia di persone hanno condiviso i dettagli dello sciopero dei consumi sui social media. Grazie alla tecnologia, gli studenti hanno raggiunto milioni di utenti in tutto il Paese. I social media sono diventati la spina dorsale di questo movimento, con video virali, storie e post ripubblicati, e audaci scritti sul boicottaggio che sono circolati alla velocità della luce, superando i tradizionali mezzi di organizzazione delle proteste. Nati nell’era digitale, gli studenti hanno sfruttato le loro capacità su internet per mobilitarsi e coordinarsi in modo più efficace di qualsiasi generazione precedente. Tra i più accesi critici della repressione governativa figurano artisti, attori e altre personalità culturali. In Turchia, dove l’arte svolge da tempo un ruolo cruciale nel plasmare l’opinione pubblica, molti di questi individui hanno offerto il loro sostegno allo sciopero economico sui social. Attori e attrici di spicco, in spettacoli in corso, sono stati licenziati e arrestati. Questo approccio punitivo non si è limitato a loro ma ha coinvolto anche i loro partner e sostenitori incappati in reazioni analoghe. Fan e concittadini si sono mobilitati sui social media esprimendo loro solidarietà. L’atto riflette un modello più ampio degli sforzi governativi volti a mettere a tacere e censurare le voci dei cittadini. Eppure, nonostante queste difficoltà, i social media hanno fornito immagini di bar, attività commerciali e mercati chiusi, a testimonianza del successo dello sciopero. Il 2 aprile, la spesa con carta di credito in Turchia è diminuita significativamente rispetto alle medie nazionali di gennaio e febbraio. È stata registrata una diminuzione di circa il 38% delle transazioni. Ciò che ha distinto la protesta sono stati i metodi avanzati di organizzazione e mobilitazione. A differenza delle generazioni precedenti, che si affidavano alla leadership dei politici, gli attivisti di oggi sono sempre più lontani dai partiti convenzionali. Non aspettano che i politici costruiscano il loro futuro, ma desiderano costruirlo insieme, mano nella mano. Molti studenti hanno espresso la loro crescente frustrazione all’idea di seguire ciecamente figure politiche, che ritengono lontane dal comprendere i loro bisogni. Non hanno paura di far sentire la propria voce, nonostante i tentativi di metterla a tacere. Stanno ridefinendo il panorama politico, rimodellando il significato di «apoliticità» nel mondo distopico della Turchia, poiché per molti il silenzio non è più tollerato.Quello che succederà in seguito è incerto. Ma una cosa è chiara: c’è speranza nonostante la risposta del presidente, il quale ha intimato altri arresti se dovessero esserci nuove proteste. Seguiranno ancora i blackout mediatici e il tentativo di mettere a tacere. Ma se c’è qualcosa che la Generazione Z ha insegnato al pubblico è come la repressione generi reinvenzione. Non è solo la rabbia a essere diversa, è l’articolazione di quella rabbia. E non si tratta solo una storia turca, ma di una storia globale. Riguarda la lenta combustione dell’autoritarismo, la normalizzazione della brutalità della polizia, i modi del silenzio venduti come scudo. Riguarda i giovani che dovrebbero essere a scuola, uscire con gli amici, trascorrere il Bayram a casa con la famiglia, incontrandosi per strada anziché dietro le sbarre. Sì, tutto questo è iniziato con İmamoğlu. Sì, riguarda Istanbul. Sì, a vent’anni non ci si aspetta che io scriva questo articolo. Eppure, lo faccio. Eppure, riguarda ogni città sotto il peso di un governo che ha dimenticato di essere al suo servizio. Riguarda ogni studente che continua il proprio percorso quando il diploma che otterrà non sarà nemmeno certo di essere valido tra qualche anno. Riguarda ogni donna che marcia, ancora e ancora, rifiutandosi di essere messa a tacere. Ogni artista che continua a dipingere. Il mondo dovrebbe guardare. Non solo per la storia distopica di Türkiye, ma perché offre uno specchio a ciascuno. Uno specchio che riflette quanto fragile diventi una democrazia quando le definizioni di diritti, legge e giustizia si confondono, quando la finzione diventa legge. Quello che verrà dopo non è scritto. Ma non sarà silenzioso. Non più. Ceyda Baytaş è una giovane artista e narratrice turca. Studia alla NABA di Milano. Questa è la sua prima pubblicazione.
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Il popolo vs l'abisso: la Dichiarazione di Sarajevo del Tribunale di Gaza Thomas Berra Di fronte al genocidio perpetrato dall'Occidente e da Israele contro il popolo palestinese e all'inerzia dei governi, il Tribunale di Gaza riconosce che la sfida della giustizia spetta al popolo, alla resistenza legittima, agli atti di solidarietà, alla società civile, ai movimenti sociali e alle persone coscienti di tutto il mondo. Questo articolo originariamente pubblicato su Mondoweiss è stato ripubblicato con l'espressa autorizzazione del suo editore Un tribunale del popolo Quasi sessant'anni fa il mondo ha assistito con orrore alla brutale aggressione perpetrata dagli Stati Uniti nel corso di una serie infinita di atrocità commesse contro il popolo vietnamita. Queste atrocità, e l'apparente impunità di cui godevano gli Stati Uniti nel commetterle, erano davvero intollerabili per un numero immenso di persone. Poiché nessuno Stato, gruppo di Stati o istituzione internazionale venne in aiuto del popolo vietnamita, fu presto chiaro che la libertà sarebbe potuta arrivare solo dalla resistenza popolare organizzata all'interno del Vietnam e da un movimento di solidarietà globale organizzato al di fuori dei suoi confini. In questo contesto, Bertrand Russell, eminente filosofo e intellettuale britannico, istituì il primo “tribunale popolare” come espressione organizzata dell'indignazione morale. Nel 1967 il filosofo si presentò davanti al Tribunale Russell e dichiarò: «Noi non siamo giudici. Siamo testimoni. Il nostro compito è quello di rendere l'umanità testimone di questi terribili crimini e di unirla a favore della giustizia». Oggi, un altro tribunale popolare segue le orme di Russell, questa volta per affrontare il genocidio che il regime israeliano sta commettendo in Palestina, l'ideologia razzista che lo sostiene e la complicità delle potenze e delle corporazioni imprenditoriali occidentali che lo rendono possibile. Il Tribunale di Gaza Costituito nel novembre 2024 e riunito per la prima volta a Londra nel febbraio 2025, il Tribunale di Gaza ha appena tenuto la sua prima riunione pubblica a Sarajevo (26-29 maggio 2025), durante la quale ha adottato la Dichiarazione di Sarajevo. Il Tribunale di Gaza è stato creato da un altro celebre intellettuale pubblico, questa volta il professor Richard Falk, eminente professore di diritto internazionale, ex relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Palestina e attuale presidente del Tribunale di Gaza. Il Tribunale di Gaza riunisce pensatori e attivisti palestinesi e di tutto il mondo per affrontare non solo gli orrori coloniali e genocidi perpetrati dal regime israeliano in Palestina, ma anche la complicità degli Stati, delle grandi aziende, dei media e dei gruppi di potere che agiscono come delegati di Israele in Occidente, nonché l'inerzia o la risposta inadeguata della maggior parte dei paesi e delle istituzioni del mondo, sia a livello nazionale che internazionale. Il Tribunale di Gaza è strutturato in tre “sezioni” ed esamina questioni relative (1) al diritto internazionale, (2) alle relazioni internazionali e all'ordine mondiale, e (3) alla storia, all'etica e alla filosofia, analizzando tutti gli aspetti coinvolti nella lotta contro il genocidio e per la libertà della Palestina. Tenendo conto delle testimonianze dei sopravvissuti, delle testimonianze degli esperti e dell'analisi dei suoi membri, il Tribunale di Gaza convocherà infine un “giuria di coscienza”, che si pronuncerà alla fine di quest'anno. Al momento, il Tribunale sta raccogliendo il relativo fascicolo probatorio. La Dichiarazione di Sarajevo, adottata dal Tribunale di Gaza il 29 maggio 2025, riassume la sua concezione della risposta morale globale adeguata alla Nakba, che oggi si sta perpetrando in Palestina. Perché un tribunale? Il lavoro del Tribunale di Gaza si basa su una premessa fondamentale: che il popolo palestinese è costituito da esseri umani dotati di diritti umani, tra cui il diritto all'autodeterminazione, il diritto di tornare alle proprie case in qualsiasi parte della Palestina storica, il diritto all'uguaglianza davanti alla legge e il diritto di vivere liberi dalla paura e dal bisogno. Il Tribunale di Gaza riconosce che l'allineamento delle forze reazionarie che stanno perpetrando il genocidio in Palestina rappresenta attualmente una minaccia esistenziale per la sopravvivenza del popolo palestinese, per la pace e la sicurezza internazionali e per il progetto di un ordine internazionale giusto. Il Tribunale di Gaza parte ugualmente dal riconoscimento che i governi e le istituzioni internazionali, apparentemente istituiti per mantenere la pace e la sicurezza e promuovere i diritti umani e il diritto internazionale, hanno fallito nel porre fine all'impunità del regime israeliano e nel rispondere in modo efficace al genocidio e a un secolo di persecuzione coloniale in Palestina. In quanto tale, il Tribunale di Gaza riconosce che la sfida della giustizia spetta al popolo, alla resistenza legittima, agli atti di solidarietà, alla società civile, ai movimenti sociali e alle persone coscienti di tutto il mondo. Comprende la necessità di mobilitare il potere di milioni di persone per sfidare i crimini del regime israeliano e dei suoi complici, per isolarlo e per dissentire attivamente dalla complicità dei nostri governi e delle nostre istituzioni. Il Tribunale di Gaza intende contrastare le forze del male con le forze della giustizia, esercitando pressione su tutti i settori coinvolti e chiarendo in modo inequivocabile che il genocidio non sarà normalizzato, che l'apartheid non sarà normalizzato, che il colonialismo non sarà normalizzato e che la Palestina sarà libera. Questo è il grido di coscienza del Tribunale di Gaza. Un appello a tutte le persone perbene affinché si oppongano all'anarchia e alla brutalità dei potenti attori coinvolti nel genocidio perpetrato in Palestina, in primo luogo il regime israeliano, ma anche gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania e i loro collaboratori. Cosa non è il Tribunale di Gaza Sebbene il Tribunale di Gaza possa contare su alcuni dei più competenti avvocati e giuristi internazionali del pianeta, non è un meccanismo giudiziario o giuridico formale, ma un'assemblea della società civile, dei movimenti, dei pensatori e degli attivisti, e delle persone coscienti determinate a porre fine agli orrori che tutti siamo costretti a vedere in Palestina. Il Tribunale di Gaza non ritiene inoltre che per agire debba attendere che si pronunci uno o l'altro dei tribunali internazionali esistenti, il che potrebbe richiedere anni. Di fronte a un'esigenza storica come il genocidio, i membri del Tribunale di Gaza ritengono che la deferenza passiva nei confronti delle istituzioni ufficiali sia moralmente indifendibile. A differenza di un tribunale, il Tribunale di Gaza parte dal riconoscimento della realtà del genocidio, dell'apartheid e del colonialismo dei coloni, che i suoi membri considerano realtà innegabili. Questi crimini sono stati confermati da tempo da importanti organizzazioni per i diritti umani, da organismi delle Nazioni Unite e da esperti di genocidio e non ammettono più alcun ragionevole dubbio. Infatti, questa aggressione perpetrata a Gaza è stata giustamente definita «il primo genocidio trasmesso in diretta su Internet». Mentre le istituzioni ufficiali discutono all'infinito, se sta calando la notte, il popolo palestinese sa che l'oscurità è già qui e questo significa che tutti noi abbiamo l'obbligo morale di trovare il modo di riportare la luce. Pertanto, il Tribunale di Gaza ritiene che sia un imperativo morale urgente affrontare questi crimini ora, con tutto il potere e la determinazione che possono essere mobilitati nella società. Il Tribunale di Gaza si differenzia anche da molte istituzioni ufficiali perché non cade nell'evasività morale così comune tra i governi e le istituzioni ufficiali, compresi gli uffici politici delle Nazioni Unite. Il Tribunale di Gaza rifiuta l'applicazione retorica dell'approccio “di entrambe le parti” a una situazione come quella che prevale in Palestina, in cui le due parti sono la parte colonizzatrice e la parte colonizzata, la parte occupante e la parte occupata, la parte oppressiva e la parte oppressa, la parte perpetratrice del genocidio e la parte vittima dello stesso. Il Tribunale di Gaza non riconosce inoltre alcuna eccezione che esenterebbe Israele dal rispetto del diritto internazionale, così spesso invocata dalle potenze occidentali sia per rafforzare l'impunità dello Stato israeliano, sia per proteggere i singoli autori israeliani dalla corrispondente responsabilità. Ma o la legge è reale e si applica a tutti allo stesso modo, oppure è una menzogna, un'arma perfida di oppressione e sottomissione nelle mani del potere. Il Tribunale di Gaza si schiera chiaramente dalla parte dello Stato di diritto. Il Tribunale di Gaza respinge infine gli ordini di silenzio imposti dal regime israeliano, dai suoi alleati occidentali e dai suoi rappresentanti, nonché dai media complici. Il Tribunale di Gaza parla apertamente delle cause profonde, delle parole che gli Stati e le istituzioni ufficiali spesso si rifiutano di pronunciare, come sionismo, colonialismo dei coloni, etnosupremacismo e apartheid, perché sono alla radice del problema. Il Tribunale di Gaza affronta direttamente il genocidio, senza distogliere lo sguardo, senza ricorrere ai soliti trucchi retorici («solo un tribunale può dichiarare il genocidio»), che i funzionari dell'ONU usano spesso per eludere la questione. Il Tribunale di Gaza lo fa non solo perché è moralmente giusto, ma anche perché riconosce la semplice verità che nessun conflitto può essere risolto senza prestare attenzione alle sue cause profonde. E a questo punto dovrebbe essere chiaro a tutti che la crisi palestinese non si risolverà riportando in vita il cadavere putrefatto del processo di Oslo, istituendo bantustan palestinesi o brandendo la promessa amorfa di una soluzione a due Stati in un momento indeterminato del futuro. Come dimostra la sua Dichiarazione di Sarajevo, il Tribunale di Gaza dice la verità ad alta voce e ha il coraggio di esigere giustizia reale invece di retorica vuota o premi di consolazione assolutamente privi di significato. Una dichiarazione di coscienza e un appello all'azione. La Dichiarazione di Sarajevo si propone quindi come antidoto alla confusione morale, alle narrazioni distorte e alla complicità silenziosa che hanno dominato le posizioni ufficiali negli ultimi diciannove mesi, anzi, negli ultimi settantasette anni. La Dichiarazione di Sarajevo è un appello alla coscienza, che affronta direttamente la lotta contro l'oscurità, la malvagità del regime israeliano, la sua ideologia e le sue azioni, nonché contro i suoi collaboratori. E fornisce una piattaforma per l'azione collettiva su cui le persone possono organizzarsi. Pertanto, nella Dichiarazione di Sarajevo, il Tribunale di Gaza dichiara la sua indignazione morale per il genocidio e gli innumerevoli crimini commessi dal regime israeliano, la sua solidarietà con il popolo palestinese e il suo impegno a lavorare con i partner della società civile mondiale per porre fine al genocidio e garantire che i responsabili e i facilitatori siano chiamati a rispondere delle loro azioni, che le vittime e i sopravvissuti ottengano riparazione e che sia creata una Palestina libera. La Dichiarazione di Sarajevo chiede la fine immediata di questi crimini, compresa l'occupazione, l'assedio, l'apartheid e il genocidio, nonché la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi. Essa invita inoltre tutti i governi e le organizzazioni internazionali ad agire. Denuncia tutti coloro che si sono resi complici dei crimini del regime israeliano, dagli Stati alle aziende mediatiche, alle industrie belliche e agli innumerevoli altri attori coinvolti nel genocidio palestinese. È importante sottolineare che la Dichiarazione di Sarajevo esprime la convinzione che la lotta contro tutte le forme di razzismo, intolleranza e discriminazione includa necessariamente il rifiuto egalitario dell'islamofobia, del razzismo anti-arabo e anti-palestinese e dell'antisemitismo, nonché il riconoscimento dei terribili effetti del sionismo, dell'apartheid e del colonialismo dei coloni sul popolo palestinese. La Dichiarazione di Sarajevo rifiuta esplicitamente «l'ideologia distruttiva del sionismo, come ideologia ufficiale del regime israeliano, delle forze che hanno colonizzato la Palestina e hanno stabilito lo Stato di Israele sulle sue rovine, e delle attuali organizzazioni e rappresentanti filoisraeliani». Chiede inoltre la decolonizzazione di tutto il territorio, la fine dell'ordine etnosupremazista e la sostituzione del sionismo con un sistema basato sull'uguaglianza dei diritti umani per cristiani, musulmani, ebrei e membri di altre confessioni. La Dichiarazione di Sarajevo, esprimendo preoccupazione sia per le carenze del sistema internazionale che per gli attacchi contro le istituzioni internazionali che hanno sfidato il genocidio e l'apartheid in Palestina, chiede misure immediate per isolare, contenere e chiedere conto al regime israeliano. A tal fine, chiede il boicottaggio universale, il disinvestimento, le sanzioni, l'embargo militare, la sospensione della sua presenza nelle organizzazioni internazionali e il perseguimento penale degli autori di crimini di guerra, crimini contro l'umanità, genocidio, gravi violazioni dei diritti umani e complicità. La Dichiarazione di Sarajevo denuncia l'ondata di persecuzioni e repressioni scatenata contro i difensori dei diritti umani, gli attivisti per la pace, gli studenti, gli accademici, i lavoratori e i professionisti, e rende omaggio a coloro che, nonostante queste persecuzioni, hanno avuto il coraggio e la convinzione morale di alzarsi e far sentire la propria voce. La Dichiarazione di Sarajevo denuncia anche la tattica di diffamare come “antisemiti” o “sostenitori del terrorismo” tutti coloro che osano alzare la voce contro il regime israeliano e i suoi crimini. La Dichiarazione di Sarajevo onora «la coraggiosa resistenza e la resilienza del popolo palestinese, nonché il movimento di milioni di persone che si solidarizzano con esso» e riconosce il diritto del popolo palestinese alla resistenza armata in conformità con il diritto internazionale. Ricorda che il diritto palestinese all'autodeterminazione è «jus cogens erga omnes, non negoziabile e assiomatico». La Dichiarazione di Sarajevo rispetta ugualmente «le aspirazioni palestinesi e riconosce la piena capacità di azione e leadership del popolo palestinese su tutte le decisioni che riguardano la sua vita». Sebbene la Dichiarazione di Sarajevo critichi l'incapacità della maggior parte delle istituzioni internazionali di agire in modo efficace contro il regime israeliano e i suoi crimini, riconosce anche gli attori internazionali che hanno agito con principi. Elogia la Corte internazionale di giustizia per la sua storica causa di genocidio contro il regime israeliano e per i suoi pareri consultivi storici sulla Palestina. Riconosce il Sudafrica per aver portato la causa di genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia. E chiede che venga accelerato il procedimento dinanzi alla Corte penale internazionale contro i responsabili israeliani, che gli Stati membri adempiano al loro obbligo di arrestarli e che gli Stati Uniti cessino la loro persecuzione della Corte. Anche le procedure speciali indipendenti del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite sono oggetto di elogio e la Dichiarazione di Sarajevo le riconosce «per i loro contributi esperti e per le loro voci forti e fondate sui principi nel chiedere conto al regime israeliano e nel difendere i diritti umani del popolo palestinese». La Dichiarazione di Sarajevo dichiara inoltre il suo particolare sostegno agli attori umanitari e agli organismi internazionali che hanno agito in difesa dei diritti del popolo palestinese, tra cui spicca l'UNRWA. Non desisteremo dal nostro impegno: le parole finali della Dichiarazione di Sarajevo La Dichiarazione di Sarajevo si conclude con un monito: «Il mondo si sta avvicinando a un precipizio pericoloso, il cui bordo si trova in Palestina». Ritiene che le principali organizzazioni internazionali e la maggior parte dei paesi del mondo abbiano fallito nella difesa dei diritti umani del popolo palestinese e nella risposta al genocidio perpetrato dal regime israeliano in Palestina. E conclude dichiarando: La sfida della giustizia spetta ora alle persone coscienti di tutto il mondo, alla società civile e ai movimenti sociali, a tutti noi. Come tale, il nostro lavoro nei prossimi mesi sarà dedicato ad affrontare questa sfida. Sono in gioco le vite dei palestinesi. È in gioco l'ordine morale e giuridico internazionale. Non dobbiamo fallire. Non desisteremo dal nostro impegno. Craig Mokhiber è un avvocato internazionale specializzato in diritti umani ed ex alto funzionario delle Nazioni Unite, nonché membro del Tribunale di Gaza. Mokhiber ha lasciato l'ONU nell'ottobre 2023, dopo aver scritto una lettera molto diffusa in cui denunciava il genocidio a Gaza, criticava la risposta internazionale e chiedeva un nuovo approccio nei confronti della Palestina e di Israele basato sull'uguaglianza, i diritti umani e il diritto internazionale.
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Indifendibili Sull’onda degli attacchi al sistema carcerario firmati Difesa dei Diritti dei Prigionieri Francesi Thomas Berra Pubblichiamo un testo di Alessandro Stella pubblicato lo scorso 13 maggio sulla rivista francese «lundimatin». Si ringrazia l’autore e la testata. Il mese scorso, un’ondata di azioni ha preso di mira il sistema carcerario francese. Ogni volta, sulla scena è stato rinvenuto l’acronimo DDPF (Difesa dei Diritti dei Prigionieri Francesi). Contemporaneamente, un canale Telegram ha rivendicato la responsabilità di questa campagna e ne ha spiegato le rivendicazioni: il rispetto dei diritti dei detenuti, descritti come sistematicamente violati. Lo storico Alessandro Stella torna su questa vicenda per ricontestualizzarla sia nel momento politico attuale sia, più in generale, nella storia del «traffico di droga» e della politica penale che ha cercato di reprimerlo in tutto il mondo a partire dagli anni Sessanta. Stella sottolinea inoltre la mancanza di sostegno ricevuto dai detenuti, nonostante per decenni la questione carceraria sia stata riconosciuta come un pilastro dell’ordine costituito. I fatti Scorso aprile, la stampa locale – ripresa poi nel circuito nazionale – riportava una serie di episodi di incendi ad auto di guardie carcerarie, attacchi contro le loro abitazioni, colpi esplosi sulle porte degli istituti penitenziari. Da Agen a Lione, da Tolosa a Tolone, da Grenoble a Lille, da Nanterre a Luynes: ovunque in Francia gruppi di individui hanno attaccato non solo i luoghi di detenzione ma anche agenti della Penitenziaria, in servizio o in formazione. Sui luoghi degli attacchi gli assalitori avevano scritto una sigla, DDPF – Difesa dei Diritti dei Prigionieri Francesi – . Sigla ripresa da un account Telegram, rapidamente chiuso dalle autorità, in cui si denunciavano le violenze quotidiane esercitate dai sorveglianti sui reclusi. «Questo canale è un movimento dedicato a denunciare le violazioni dei nostri diritti fondamentali dei quali il ministro Gérald Darmanin intende privarci». «Contattaci tramite messaggio privato per unirti al movimento DDPF. Unisciti al movimento».Le lettureDopo aver considerato azioni dell’ultrasinistra o ingerenze straniere (intelligence russa o algerina), agenti e procuratori hanno concluso che l’ipotesi più plausibile fosse quella del narcotraffico. Così, attraverso un’operazione su scala nazionale, il 28 aprile la polizia ha arrestato 30 persone, tra cui 21 sono state messe sotto accusa il 2 maggio, 7 già detenute. Riassumendo le conclusioni degli investigatori, «Le Monde» datato 4 maggio titolava: «Dietro gli attacchi alle prigioni, l’ombra della Mafia DZ e del narcotraffico». Il quotidiano francese riprendeva quindi le conclusioni e il registro dei dicasteri dell’interno e della giustizia: Mafia, gruppi criminali organizzati. Sottolineando peraltro che tra i 21 sospetti deferiti – di cui due donne e due minorenni – «molti, presentano profili di esecutori, piccoli pesci del traffico di droga». Inoltre, gli arrestati vivevano nelle regioni scenario degli attacchi a loro contestati. Il presunto capo della rete, committente e organizzatore degli attentati dalla sua cella di Avignone, sarebbe un certo Imran A., di 23 anni.Gli episodi sarebbero quindi stati commissionati da boss della droga incarcerati. Eseguiti da manovalanza, sicari, a volte reclutati sui social in cambio di alcune centinaia di euro. Una strategia mafiosa volta a intimidire l’amministrazione penitenziaria mentre il Ministero della giustizia si prepara a istituire prigioni speciali, ultra-sicure, destinate ad accogliere i narcotrafficanti più pericolosi.Le interpretazioni di poliziotti, giudici e giornalisti mainstream, sono convergenti. Come per la Mafia italiana, i Cartelli colombiani o messicani, anche in Francia l’economia sotterranea degli psicotropi vietati sarebbe controllata e diretta da capi, una cupola centralizzata, un deus ex machina che dall’alto della sua organizzazione piramidale muove i fili di tutte le sue ramificazioni criminali. Narcotraffico Il termine – ormai sfinito – rinvía a un immaginario popolato da Pablo Escobar o da El Chapo Guzmán e reso noto dalle serie Netflix sui narcos. Grandi criminali che si godono la vita in ville tropicali o in loft a Dubai. Molto patinato, in effetti. Se l’economia delle droghe illegali non differisce molto dall’economia capitalista legale, la realtà della produzione, del commercio e del consumo di queste droghe è assai più complessa.1Se i grandi esportatori e importatori sono ovviamente dei milionari (con un capitale a rischio elevato...) e la vendita all’ingrosso consente a un certo numero di soggetti di vivere comodamente, per la massa di produttori, trasformatori, corrieri e distributori al dettaglio non è che un modo per guadagnarsi da vivere. Un lavoro spesso faticoso e sempre pericoloso. Studi di sociologia e antropologia hanno ben dimostrato che la massa di contadini che coltivano cannabis in Marocco, coca in Colombia o papavero in Afghanistan sono lavoratori agricoli poveri che producono queste piante proibite solo in virtù di un miglior rapporto rispetto ad altre colture praticabili. Quanto alle migliaia di persone che si occupano quotidianamente di tutte le attività del commercio al dettaglio, si potrebbe parlare di operai a cottimo. Chi si occupa del trasporto, del confezionamento, della custodia della merce. Poi ci sono quelli che – dalla mattina alla sera dal lunedì alla domenica con bel tempo o sotto la pioggia – gestiscono un punto di spaccio, e quelli che effettuano consegne a domicilio. Oltre alle difficoltà della vedetta, questi operatori del commercio al minuto di prodotti illeciti sono quotidianamente esposti alla repressione, regolarmente oggetto di retate, sistematiche perquisizioni, vessazioni, umiliazioni – a volte di fermi e detenzione –.Bisognerebbe ridimensionare l’entità del traffico di sostanze, troppo spesso presentato come un mercato dai profitti giganteschi. Dati alla mano, i servizi dello Stato stimano che il fatturato annuale delle droghe illegali in Francia sia dell’ordine di 3 miliardi di euro. Quanto la Coca Cola, legale e dannosa per la salute più di alcune sostanze illegali. Quanto la Française des jeux [l’impresa che detiene il monopolio delle lotterie e delle scommesse sul territorio francese, N.d.T.] – temibile, illusoria, capace di indurre a dipendenza e rovina. Ancora, un fatturato ben inferiore a quello del tabacco – 20 miliardi – e del vino – 90 miliardi – : alla fine di una giornata di lavoro ci sono molti più soldi nella cassa di un bar-tabac che nelle tasche dei gestori di un «forno» [punto fisso di spaccio] di quartiere. Il confronto più pertinente sarebbe con il fatturato delle grandi aziende farmaceutiche, che producono e commercializzano le droghe legali. Il caso più emblematico è certamente quello dell’americana Purdue Pharma, di proprietà della famiglia Sackler. Al culmine della propria ascesa, nel 2017, aveva raggiunto un fatturato annuale di 35 miliardi di dollari in particolare grazie alla vendita di oppioidi, tra cui l’OxyContin, destinato da terapia ai malati di cancro in fase terminale. Il forte marketing ha tuttavia fatto esplodere le prescrizioni mediche per ogni tipo di dolore, provocando negli Usa, tra il 1999 e il 2022, circa 700.000 morti per overdose. Inseguita da migliaia di cause penali, nel gennaio 2025 la famiglia Sackler ha concluso un accordo con il tribunale per il pagamento di 7,4 miliardi di dollari di indennizzi alle famiglie delle vittime. Guerra ai narco o guerra ai neri? Fino agli anni Sessanta, il consumo e il commercio di cannabis, coca, oppio e altre piante psicotrope facevano parte delle culture locali, tradizionali, consuetudinarie e ancestrali. Come vino e alcol in Occidente, cannabis, coca, oppio – e funghi psilocibi, peyotl, ayahuasca, betel, iboga, quât, amanita muscaria, et cœtera – sono stati considerati come «aiuti» nella vita. «Cacciatori di preoccupazioni», per dirla con Freud, medicine per il corpo e per l’anima. Nonostante la consapevolezza dei possibili pericoli del consumo di psicotropi, in tutto il mondo le popolazioni si erano adattate e avevano imparato a convivere con le droghe. La proibizione delle droghe de «l’Altro» era iniziata con un editto della Santa Inquisizione nel Messico del 1621, che vietava il peyotl e altre piante magiche. Poi oggetto di decreti imperiali in Cina nei secoli XVIII e XIX – stavolta contro l’oppio – senza grandi conseguenze. Dopo le cosiddette «guerre dell’oppio» (1839-1856), che opponevano le potenze occidentali al Celeste Impero per il controllo del mercato orientale, a cavallo della Prima guerra mondiale, vennero le leggi di proibizione del commercio illegale di alcol (negli Usa) e di oppio (in Cina), con l’eccezione della quota parte per usi farmaceutici. Fino agli anni Settanta, la repressione del consumo e dei consumatori non aveva una posizione prioritaria nelle agende politiche degli Stati. I consumatori problematici venivano guardati con una certa benevolenza, a volte assistiti da associazioni caritatevoli o da relazioni di prossimità. È a partire dalla legge promulgata dal presidente Nixon – il 31 dicembre 1970, seguita subito dalle altre nazioni occidentali – che si abbatte la grande repressione. Perché? Dichiarando la droga come il principale nemico della nazione e dando la caccia a trafficanti e tossici, il governo americano dichiarava guerra sia alle minoranze razziali – neri e ispanici – che alla generazione hippie. Pericolosi per lo spirito WASP, suprematista e virile. Da cinquant’anni la guerra agli stupefacenti ha provocato centinaia di migliaia di morti in tutto il mondo, in America Latina in particolare, in scontri tra poliziotti, militari, trafficanti e bande rivali, senza contare gli innocenti. Molto più delle morti per overdose da ero o altre sostanze. Senza però mettere fine al commercio né ridurre la domanda. Al contrario, il consumo di psicotropi illeciti è esploso negli ultimi decenni, quanto il relativo sanzionamento con pene capitali – come in Cina, Iran, Arabia Saudita, Usa e altrove2 – ed esecuzioni sommarie: nelle Filippine di Duterte o nelle favelas di Rio. Di temibili criminali responsabili di omicidi e atrocità, oltre che di traffico di stupefacenti? Sì, anche, ma costituisce una minoranza dei reclusi. Il resto sono pedoni, lavoratori a rischio in questa economia sotterranea; delinquenti, forse, ma non criminali. Condannati a pene severe, spesso sovradimensionate rispetto all’entità dei reati.3 Qual è il profilo dei condannati per traffico di stupefacenti? Lo studio condotto da Michelle Alexander sulla popolazione carceraria negli Stati Uniti ha concluso che la guerra alla droga è una guerra razziale e sociale. Su 31 milioni di persone detenute negli States dagli anni Ottanta alla prima decade degli anni Duemila gli afroamericani e gli ispanici rappresentano la maggioranza. In Francia, dove i condannati per traffico di droga costituiscono circa il 20% dei detenuti, anche se le statistiche su base etnica sono vietate possiamo fondarci sulle origini geografiche dei prigionieri. In gran parte provengono dalle periferie di Sevran, Aulnay, Nanterre, Champigny, Bagneux, Créteil, per l'Île de France. Per Marsiglia, Grenoble, Tolosa, Lione l’esito è lo stesso: provengono da quartieri fondamentalmente neri e arabi. Chi difende gli indifendibili? Alla luce di queste evidenze plateali, certo in contrasto con tanti fantasmi sul mostro moderno chiamato «narcotraffico», possiamo riesaminare il fenomeno degli attacchi contro l’amministrazione penitenziaria. Appare chiaro che coloro che si scagliano contro i secondini sono solidali coi detenuti. Portatori di un messaggio semplice: «i nostri amici in prigione non sono soli, ci sono persone fuori che li sostengono e cercano di aiutarli».Come spiegare allora il silenzio dei social, di norma attestati contro le violenze di Stato? Perché né i siti dell’ultrasinistra, né i comitati contro le violenze poliziesche, né legali ovvero associazioni a tutela dei diritti dei prigionieri (OIP, LDH) sono intervenuti? Perché i trafficanti sarebbero indifendibili? Perché l’alcool è socialmente ammissibile e le sostanze no?Anche i familiari delle vittime delle violenze di Stato non osano mettere in discussione il pregiudizio della polizia: «già noto negativamente ai servizi di polizia per traffico di stupefacenti». Che giustifica la repressione più brutale, fino all’omicidio. Perché spacciare è vergognoso, indifendibile: «La droga è spazzatura, i trafficanti sono venditori di veleni, senza scrupoli, che intossicano i ragazzi». Dei criminali senza appello, contro i quali si dà carta bianca alle forze di polizia per fermarli a tutti i costi.Difendere i «tossici», gli «spaccia» – soprattutto quando si ribellano e affrontano i poteri istituzionali – sembra ancora una battaglia inconcepibile, tanto la stigmatizzazione e la criminalizzazione hanno imposto un pensiero dominante e non suscettibile di messa in discussione. I solidali che hanno cercato di avviare un movimento a difesa dei diritti dei reclusi hanno osato questa sfida. Sotto un logo che dice molto – DDPF, Difesa dei Diritti dei Prigionieri Francesi –. Come un appello un po’ naïf allo stato di garanzia, al rispetto dei detenuti, ponendo l’accento sul fatto che si tratti di connazionali, di francesi, non di stranieri. Come il Comitato Adama e altri collettivi di tutela contro gli abusi di polizia, chiedono di essere trattati come cittadini francesi, a pieno titolo. Non discriminati, razzializzati, inferiorizzati. Una questione di dignità. Anzitutto. Di rispetto, semplicemente.Azioni chiare, esemplari, riproducibili attorno a tutti gli istituti di pena. Auto-organizzate da gruppi locali. Azioni politiche, diciamolo. Con l’intenzione – come chiarito dal primo comunicato – di creare un movimento. Note [1] Mi permetto di rinviare all’opera collettiva dal mio seminario (2015-2021) all’EHESS: A. Stella e A. Coppel (a cura di), Vivre avec les drogues, Paris, L’Harmattan, 2021 (edizione inglese: Living with Drugs, Londra, ISTE, 2020). [2] Secondo l’associazione Ensemble contre la peine de mort, probabilmente metà dei giustiziati al mondo sono condannati per traffico di droga. [3] M. Alexander, La couleur de la justice. Incarcération de masse et nouvelle ségrégation raciale aux Etats-Unis, Paris, Syllepse, 2017 (prima edizione negli Usa nel 2010). Alessandro Stella è stato membro di Potere operario e poi dell’Autonomia. Rifugiatosi in Francia all’inizio degli anni Ottanta, è oggi direttore di ricerca in Antropologia storica presso il CNRS e insegna all’EHESS di Parigi. Tra i suoi libri: La Révolte des Ciompi (1993); Histoires d’esclaves dans la péninsule ibérique (2000); Amours et désamours à Cadix.
- post-poetica
E' un ponte di barche Proponiamo la seconda poesia di Alessandra Greco. Come per flooded area riportiamo anche l'immagine della poesia per rimanere fedeli all'impostazione della poetessa fiorentina. è un ponte di barche | adnexio | ădhaerēre | l'impalcato | il limo | sopra la terra marna si arriva in mille rivoli in certo grado | tagli scontornati da antiche alluvioni | segnano la riva delle cose | atto scevro di impegno nella postura | sloga muto articolare parlare | né cosa ne avrebbe bisogno | sine die voci già golene alternanze | in stilate consecutive | pre-comprensione che di per sé continua babble di ciottolo | serto | tagliatura | dice l'atto la nudità lo stato l'implicazione zitta nel luogo dove si guarda quel che prolunga e si contiene alle cose il filo d'acqua che passa tra i capelli | particolato plastico dissolto | con triggers nei primi secondi | per vari gradi si cambia e si espande non divenire altro che bugie di piccoli fogli di cartone ben lisci, da un lato coperti di carta marezzata e dall'altro di carta con vari segni e figure, di cui ci serviamo per fare moltissimi giochi se ne andarono senza che la loro voce vedesse | che con la voce dimorano | in ondulazioni di veglia diverse | figurati tremolii di immagini | cadute asfittiche di fiori, cuori, campanelli, ghiande, foglie e due jolly (uno dei quali più colorato dell'altro) Alessandra Greco vive a Firenze. Fra le pubblicazioni più recenti, Stellare nero (Fogli Benway Series, 2023) e la silloge intitolata “__ _ ” (Anterem, 2023). È antologizzata in Continuo. Repertorio di scritture complesse ([dia•foria, , 2023). È fra gli autori di BAU Contenitore di Cultura Contemporanea , n. 19, Viareggio, 2023. Ha scritto NT (Nessun Tempo) (Arcipelago Itaca, 2020) e Del venire avanti nel giorno , Libro Azzurro (Lamantica Edizioni, 2019). Suoi testi sono tradotti in Babel, Stati di alterazione , Antologia plurilingue a cura di Enzo Campi (Bertoni Editore, 2022), e in oomph! – contemporary works in translation / a multilingual anthology , vol. 2 (2018). Ha realizzato performance e letture con attenzione al suono e la sua ricerca si è estesa alla fotografia. Sue scritture e immagini sono apparse in varie riviste e lit-blog.
- konnektor
Le cause della guerra in Congo Roberto Gelini L’articolo che segue pubblicato sul blog di New Left Review Sidecar, analizza il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo. Dietro le elite militari che basano la loro ricchezza sulla sicurezza si trovano le multinazionali che estraggono tantalio, stagno, oro e altri minerali. La Repubblica Democratica del Congo è nuovamente in preda a una violenta escalation. Nel novembre 2021, un'organizzazione nota come M23 ha lanciato una ribellione nelle zone di confine orientali della RDC, la quinta insurrezione di questo tipo sostenuta dal Ruanda negli ultimi trent'anni. Il gruppo ora controlla un'area grande all'incirca quanto il Connecticut. Nel gennaio 2025 ha conquistato le città di Goma e Bukavu, che insieme contano circa tre milioni di abitanti. Il governo congolese ha risposto in modo maldestro, fornendo armi a milizie locali indisciplinate. Il suo esercito regolare ha fallito clamorosamente, nonostante il sostegno delle forze di pace dell'ONU, delle società di sicurezza private e delle truppe straniere. C'è stata una feroce guerra di parole tra il presidente del Congo Felix Tshisekedi e il leader ruandese Paul Kagame – Tshisekedi ha paragonato Kagame a Hitler, Kagame ha bollato Tshisekedi come un “idiota” – oltre a un'immensa quantità di sofferenze umane, con migliaia di morti e milioni di sfollati solo negli ultimi mesi. Mentre ci avviamo verso il quarto decennio del conflitto, è necessario guardare oltre i titoli dei giornali, concentrandosi sui fattori strutturali più profondi in gioco. Di seguito ne esaminerò tre: il desiderio dei paesi vicini, in particolare il Ruanda, di proiettare potere e influenza nella RDC; la paralizzante debolezza dello Stato congolese; e il rapporto tra l'attuale crisi e l'economia mondiale. Ogni volta che il Ruanda ha invaso la RDC ha appoggiato un gruppo armato interno. Ci sono state due incursioni importanti: una nel 1996-1997, in cui l'Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo ha rovesciato il governo di Mobutu Sese Seko, e un'altra nel 1998-2003, in cui il Congolese Rally for Democracy ha preso il controllo di un terzo del paese. A queste sono seguite due ribellioni minori, guidate dal Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo nel 2006-2009 e dall'M23 nel 2012-2013, che sono riuscite a conquistare solo una piccola porzione di territorio nella parte orientale. L'interferenza del Ruanda negli affari congolesi è tanto più notevole se si considera che il Ruanda è 88 volte più piccolo del Congo e la sua popolazione è un ottavo di quella del Congo. Come ha scherzato un ex presidente congolese: “Avete mai visto un rospo ingoiare un elefante?” Le motivazioni del Ruanda non sono chiare e le sue giustificazioni ufficiali spesso non corrispondono alla realtà. È chiaro che considera la proiezione di potere nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo una questione di vitale importanza, persino esistenziale. Ma la minaccia alla sicurezza che la Repubblica Democratica del Congo rappresenta per il Ruanda è esagerata. L'ultima grande invasione del Ruanda risale al 2001, quando i ribelli noti come Forze democratiche di liberazione del Ruanda (FDLR), alcuni dei quali avevano partecipato al genocidio del Ruanda del 1994, lanciarono un'incursione che provocò un migliaio di morti tra le fila dei ribelli. Da allora, le FDLR sono state in grado di effettuare solo piccole incursioni oltre confine; l'ultimo attacco grave è avvenuto nell'ottobre 2019, quando un gruppo separatista avrebbe ucciso quattordici civili. Anche così, il Ruanda cita la “dottrina dell'uno per cento” di Dick Cheney, sostenendo che se c'è anche una minima possibilità di una minaccia, questa deve essere trattata come una certezza assoluta. È disposto a spostare centinaia di migliaia di persone per salvaguardare anche solo alcuni dei suoi stessi cittadini. La sproporzione è parte integrante della sua politica di difesa. L'altro motivo spesso citato per l'intervento ruandese è la protezione della popolazione congolese di lingua kinyarwanda, in particolare la comunità tutsi, che si ritiene rappresenti circa il 15-20% della popolazione in Ruanda e circa l'1% nella Repubblica Democratica del Congo. È certamente vero che la comunità tutsi congolese è stata a lungo vittima di abusi e discriminazioni. Eppure, prima della rinascita dell'M23, non ci sono molte prove di un aumento della violenza anti-Tutsi nell'est del Paese. Né lo Stato ruandese può vantare un record perfetto nella difesa di questa comunità, per non dire altro. Nel 2001, quando i combattenti della popolazione tutsi del Sud Kivu, conosciuta come Banyamulenge, si ribellarono contro una ribellione sostenuta dal Ruanda, Kigali lanciò una violenta repressione contro di loro. Il governo ruandese ha anche represso i rifugiati banyamulenge sul proprio territorio, reprimendo le proteste contro le pessime condizioni di vita nei loro campi. Dal 2016, la principale violenza contro le popolazioni tutsi nella RDC orientale ha preso di mira i banyamulenge, ma il Ruanda ha detto poco su questa situazione fino a poco tempo fa. Le motivazioni del Ruanda possono essere spiegate solo dando uno sguardo più da vicino alla sua cultura politica. Il genocidio del 1994 rimane il fondamento del discorso pubblico nel paese: la legittimità del Fronte patriottico ruandese al potere si basa in gran parte sul suo ruolo nel porre fine al massacro e nel garantire stabilità in seguito, eliminando le libertà civili e ogni traccia di opposizione democratica nel processo. Alcuni membri dell'élite ruandese probabilmente ritengono che i loro interventi nella Repubblica Democratica del Congo rimangano giustificati in nome della sicurezza e della solidarietà etnica. Ma se i principali responsabili delle decisioni, compreso lo stesso Kagame, ne siano veramente convinti o se lo stiano semplicemente usando come mezzo per rafforzare il loro potere interno, è un'altra questione imponderabile. C'è anche la questione dell'economia. Prima che scoppiasse la crisi nel 2021, i legami finanziari tra i regimi del Ruanda e della RDC sembravano essere relativamente forti. Tshisekedi aveva concesso preziose concessioni aurifere a una società vicina al partito al potere in Ruanda; la compagnia aerea nazionale ruandese aveva iniziato a volare verso Kinshasa, la capitale del Congo; e gli imprenditori ruandesi stavano diventando attivi in varie parti dell'economia congolese. Perché Kigali avrebbe dovuto rinunciare a tutto questo lanciando un altro attacco tramite l'M23? Non abbiamo tutte le risposte. Ma un elemento critico sono stati gli interventi militari del 2011 nella Repubblica Democratica del Congo lanciati da Uganda e Burundi. All'epoca, il Ruanda aveva rapporti tesi con entrambi i paesi e si sentiva minacciato. Potrebbe quindi essere stato desideroso di riaffermare la sua influenza regionale. Kigali potrebbe anche essere stata preoccupata dai crescenti tentativi della Repubblica Democratica del Congo di assumere il controllo del proprio settore aurifero. Poiché il Congo non è in grado di governare efficacemente il proprio territorio, i suoi vicini hanno tratto profitto da tali minerali preziosi: Ruanda, Uganda e Burundi hanno tutti beneficiato del massiccio contrabbando di oro congolese attraverso il confine. In effetti, dalla ribellione dell'M23, il valore dei minerali nell'economia del Ruanda è aumentato notevolmente: dal 50% delle esportazioni nel 2021 all'80% nel 2023. Le esportazioni di oro, di gran lunga la maggiore fonte di valuta estera, sono nel frattempo salite da 368 a 885 milioni di dollari. Questo è particolarmente importante per le élite militari ruandesi, poiché le fonderie di stagno e oro del paese sono entrambe in parte di proprietà dell'esercito. Anche il governo congolese è complice nel protrarsi della guerra, anche se in modo molto diverso. Dalla creazione dello Stato Libero del Congo nel 1885, come feudo privato del re belga Leopoldo II, l'apparato amministrativo del paese è stato poco più di un veicolo per l'accumulazione. È stato dominato da società occidentali fino al 1908 e successivamente dal governo belga, che ha gestito la colonia fino al 1960. Per un breve periodo nel decennio successivo, il presidente Mobutu Sese Seko sfruttò gli alti prezzi del rame per promuovere uno sviluppo statalista. Il servizio sanitario pubblico era relativamente buono e l'esercito nazionale era uno dei più forti della regione. Ma a causa dell'eredità del periodo coloniale, il Congo continuò a dipendere quasi interamente dalle materie prime non lavorate per le sue entrate, il che lo rese estremamente vulnerabile agli shock esterni. La crisi petrolifera dell'OPEC del 1974, insieme al crollo dei prezzi del rame e alla prodigalità di Mobutu, fece precipitare l'economia. Ostacolato dal debito, abbandonò il progetto di costruire uno stato e un esercito forti, rivolgendosi invece al favoritismo etnico e alla politica clientelare come modalità di governo. Ridusse drasticamente la spesa pubblica su incoraggiamento del Club di Parigi, della Banca Mondiale e del FMI. Più o meno nello stesso periodo, diversi tentativi di colpo di stato, reali e immaginari, convinsero Mobutu a frammentare le sue agenzie di sicurezza, mettendole l'una contro l'altra e privilegiando la lealtà rispetto alla competenza. In questo modo, la Repubblica Democratica del Congo si è evoluta nella struttura capitalista-affittuaria vuota che vediamo oggi, con le élite politiche e militari che continuano a preferire uno Stato debole a uno forte. Lo Stato congolese spende la maggior parte delle sue entrate semplicemente per sostenersi. La spesa per i salari è compresa tra il 30% e il 40% del bilancio; insieme alle spese operative e al servizio del debito, ciò rappresenta circa il 75% della spesa pubblica, anche se gran parte dell'assistenza sanitaria e delle infrastrutture è finanziata da prestiti o sovvenzioni esteri. Circa la metà delle entrate statali proviene dal settore minerario, dominato dalle grandi multinazionali: Glencore (Svizzera), Ivanhoe (Canada), CMOC Group (Cina), Zijin Mining (Cina) e China Nonferrous Metal Mining (Cina). Anche gran parte del resto dell'economia, in particolare i settori manifatturiero, immobiliare ed edile, è dominato da imprese straniere o da famiglie di origine libanese, indiana o belga che vivono nella Repubblica Democratica del Congo da generazioni. Al di sopra di questa classe imprenditoriale si trova la classe politica, che estrae risorse e distribuisce favori. Nel 2022, quasi un miliardo di dollari è stato stanziato per la sola presidenza: un decimo dell'intero bilancio statale, più della sanità, della giustizia e delle infrastrutture messe insieme. Fin dal governo di Mobutu, questo modello ha dato origine a una borghesia militare nel settore della sicurezza. Anch'essa riceve circa un decimo del bilancio nazionale. Gli ufficiali possono arricchirsi attraverso indennità di rischio e bonus, sottraendo denaro agli stipendi e alle indennità delle truppe, creando racket di protezione locali ed estorcendo denaro alle popolazioni e ai commercianti locali. Gran parte di questa economia è legata al conflitto, il che significa che le élite militari trarranno vantaggio dalla sua continuazione. Sebbene questo strato sia relativamente piccolo, è politicamente importante data la sua influenza nell'inquieto Oriente. Inoltre, sembra sorprendentemente disinteressato a consolidare il controllo dello Stato. Sono pochissimi gli ufficiali militari o i comandanti di gruppi armati che hanno ottenuto posizioni di rilievo nel governo o nelle aziende statali, né l'esercito ha cercato di egemonizzare il settore privato. Eppure, la borghesia militare è riuscita a rimodellare le società locali in linea con i propri interessi finanziari, militarizzando l'economia e collegando capi consuetudinari e imprenditori ai gruppi armati. Il suo investimento in racket ed estorsione, insieme alle sue catene di comando sovrapposte e al privilegio della lealtà personale, ha minato le sue funzioni militari fondamentali – da qui la sua rapida ritirata di fronte all'M23. La sua debolezza è una caratteristica, non un difetto. Spesso ci viene detto che, nella Repubblica Democratica del Congo, il conflitto è alimentato dalle multinazionali che sostengono le milizie, o sono altrimenti complici di esse, per assicurarsi l'accesso ai minerali del paese. La realtà, tuttavia, è più complicata. I minerali sono una parte importante dell'economia di conflitto e sono effettivamente legati alle catene di fornitura internazionali, con tantalio e stagno che entrano nel mercato globale attraverso aziende manifatturiere nel sud-est asiatico e in Asia orientale. Ma sarebbe riduttivo suggerire che questo sia ciò che ha causato la guerra. Le aziende rimangono lontane dalla violenza per diverse transazioni, acquistando generalmente minerali che vengono estratti dalla RDC orientale con picconi e pale e che a un certo punto vengono tassati da gruppi armati. Insieme, il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo forniscono circa il 63% del tantalio, raffinato dalla colombo-tantalite, o coltan in breve, che viene utilizzato nell'elettronica. All'inizio degli anni 2000, un picco nella domanda globale ha portato a enormi profitti nel mercato del coltan in un momento di escalation nella Repubblica Democratica del Congo. Oggi, la più grande miniera di tantalio del mondo a Rubaya è nelle mani dell'M23. Gli investigatori delle Nazioni Unite stimano che i ribelli guadagnino circa 800.000 dollari al mese dalla tassazione del coltan a Rubaya. Tuttavia, sebbene questa sia un'importante fonte di finanziamento per l'M23, la sua importanza per l'industria globale sta diminuendo. Il suo prezzo è molto più basso rispetto all'inizio degli anni 2000. Le miniere sono state chiuse in altre parti del mondo a causa della mancanza di domanda e gran parte del tantalio utilizzato nella produzione può ora essere ottenuto attraverso il riciclaggio. Anche l'economia mineraria regionale è cambiata nell'ultimo decennio. Mentre il tantalio e lo stagno costituivano un tempo la quota maggiore delle esportazioni di minerali dalla RDC orientale e dal Ruanda, ora l'oro ha preso il loro posto. Nel 2023, dall'Uganda, dal Ruanda e dal Burundi sono stati esportati oltre 4 miliardi di dollari di oro, rispetto ai soli 50 milioni di dollari di stagno e ai 102 milioni di dollari di tantalio e altri minerali. Viene esportato principalmente a Dubai, dove le aziende sono state accusate di utilizzarlo per riciclare ingenti somme di denaro provenienti da organizzazioni criminali. Anche in questo caso, tuttavia, i legami causali con il conflitto sono complessi. Se è innegabile che l'economia degli Emirati Arabi Uniti tragga vantaggio dal saccheggio dell'oro congolese e che i suoi leader non siano interessati a promuovere la responsabilità nella catena di approvvigionamento, è meno chiaro se abbiano adottato misure attive per alimentare il conflitto. In effetti, questo boom dell'oro nella regione dei Grandi Laghi in Africa è iniziato intorno al 2014, molto prima della rinascita del M23. Per comprendere i legami tra l'economia globale e il conflitto dobbiamo guardare più indietro nel tempo. Mobutu legalizzò l'estrazione mineraria artigianale nel 1983, incoraggiando decine di migliaia di giovani a prendere picconi e pale e ad entrare direttamente nel commercio globale dei minerali. Mentre l'estrazione mineraria industriale diminuiva sotto il peso della corruzione e della cattiva gestione, intraprendenti uomini d'affari nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo iniziarono a stringere legami commerciali con la Cina sudorientale, insieme alle città portuali in India e Dubai, esportando minerali e importando motociclette, elettronica, tessuti e materiali da costruzione. Gran parte di questo commercio era informale e avveniva sotto il radar dei funzionari governativi predatori, dando vita a circuiti commerciali che i gruppi ribelli e gli eserciti stranieri iniziarono successivamente a sfruttare. I massicci flussi di oro, stagno, tantalio, legname e cacao che giocano nel conflitto attuale sono quindi legati a questo processo più ampio: il declino del progetto statalista, l'ascesa della predazione e il boom dell'estrazione e del commercio informali. La liberalizzazione dell'economia ha raggiunto il suo apice dopo le due grandi guerre del Congo del 1996-2003. La prima vide una coalizione regionale rovesciare Mobutu e insediare Laurent-Désiré Kabila; la seconda iniziò quando Kabila si scontrò con i suoi sostenitori ruandesi, innescando una guerra più lunga e più letale. Questo conflitto si concluse con una cosiddetta “pace liberale”, costruita sulla promessa di una governance democratica e di un libero mercato. La Banca Mondiale contribuì a elaborare una legge mineraria che concedeva ampie esenzioni fiscali ai capitali stranieri, incoraggiandoli a investire in questo settore rischioso ma altamente redditizio. Fino ad allora, le miniere erano state quasi esclusivamente di proprietà dello Stato, che le gestiva in modo molto inefficiente, se non addirittura inesistente. Nel corso del decennio successivo, la maggior parte delle concessioni redditizie furono vendute a società svizzere, canadesi, cinesi e kazake. Di conseguenza, miliardi di dollari furono rubati dalle élite congolesi, spesso con la complicità di società straniere, e nascosti in paradisi fiscali. Nessuna di queste cose doveva essere pianificata da una cabala oscura di élite o dirigenti aziendali. Questo è il bello della struttura di potere neoliberista: in nome dell'efficienza, assegna risorse e disciplina i governi in modo tale da produrre un'enorme prosperità per pochi eletti. Dall'avvento della “pace liberale”, l'economia congolese è cresciuta di quasi dieci volte, sostenuta da investimenti stranieri nel settore minerario, bancario e delle telecomunicazioni, ma non c'è stato un parallelo calo della povertà. Nel 2004 il 91% della popolazione viveva in condizioni di estrema povertà; ora è circa il 79%. Se si tiene conto della crescita demografica, ciò significa che il numero assoluto di persone estremamente povere, quelle che riescono a malapena a mantenersi, è aumentato. Oggi le entrate del paese sono 20 volte inferiori a quelle di Glencore, la più grande società mineraria attiva nel paese. La debolezza della RDC, la sua relegazione ai margini dell'economia globale, ha quindi avvantaggiato le élite da Kinshasa a Kigali, da Shanghai a New York. Un Congo forte cercherebbe di controllare le proprie risorse, aggiungere valore ad esse e utilizzare i ricavi per investire in beni pubblici, dalle infrastrutture alla sanità alla sicurezza. L'effetto sarebbe quello di ridurre i margini di profitto e ridistribuire il potere. Anche se a molti diplomatici e donatori potrebbe non dispiacere a livello individuale, il sistema in cui sono coinvolti – definito da mercati liberi, paradisi fiscali, commercianti di materie prime e società minerarie cowboy – offre una serie di incentivi per mantenere le cose come sono. Questo approccio strutturale aiuta quindi a chiarire le principali caratteristiche della crisi congolese. Le sue origini risiedono in un'élite ruandese intenzionata a proiettare il proprio potere nel paese confinante; un'élite congolese impegnata a frammentare e indebolire lo stato; e un sistema internazionale che sostiene questo status quo traendo profitto dalle risorse del Congo. Un cambiamento significativo è possibile solo attraverso una riforma dello stato congolese che ponga fine al modello corrotto del rentier. Nel breve termine, la pressione esterna potrebbe costringere il Ruanda a ritirare le proprie truppe, soprattutto perché il paese rimane fortemente dipendente dagli aiuti stranieri. Ma una pausa nelle ostilità durerà solo per un certo periodo e i paesi confinanti con la RDC avranno tutte le ragioni per intervenire nuovamente. A lungo termine, solo investendo in beni pubblici, in particolare nella sicurezza, la RDC può sperare di respingere sia i gruppi armati che i profittatori stranieri. Jason K. Stearns è uno scrittore americano che ha lavorato per dieci anni in Congo, di cui tre anni durante la seconda guerra del Congo. Stearnsè autore del libro, Dancing in the Glory of Monsters: The Collapse of the Congo and the Great War of Africa , e del blog, Congo Siasa
- periferie
Leggendo l’ultimo Tronti Una riflessione dopo la lettura del libro postumo di Mario Tronti, Il proprio tempo appreso col pensiero, a cura di Giulia Dettori, Il Saggiatore, 2024 Una premessa è necessaria se ci apprestiamo a leggere uno scritto di Mario Tronti, il più raffinato interprete del pensiero politico del Novecento. Non siamo più nel Novecento, nel secolo del primato della politica, della centralità della fabbrica con dentro il rifiuto del lavoro della classe operaia, degli immensi latifondi con dentro la fame di contadini esasperati e dispersi, dei grandi partiti di massa la cui forza dipendeva da una rigida coesione interna, dal consenso assoluto alle loro ideologie e dall’ubbidienza alle loro gerarchie e, infine, non siamo più nel secolo di una società che esisteva come tale perché forgiata e organizzata dai partiti, dai padroni, dalla religione o dalle istituzioni dello Stato. Questa società è esplosa, disintegrata dall’emergere incontrastato di una cultura del consumo che ha le sue chiavi di lettura nell’individualismo, nella negazione della memoria, nella domanda di libertà, nel presente come unico tempo di vita degno di essere vissuto e nella rivolta come forma conflittuale che non si trasforma mai in rivoluzione o lotta di classe per l’abbattimento del sistema ma per l’appropriazione del presente e delle sue risorse. Il sistema non si abbatte ma si sfrutta è la parola d’ordine dei nuovi soggetti antagonisti. Non ci piace, è legittimo ma è comunque da qui che deve partire un pensiero critico come quello di Tronti che vorrebbe trasformare il mondo. Pur rifiutandolo si deve imparare a conoscerlo e accettare le sue sfide, non fosse altro perché è l’unico mondo in cui il destino ci ha costretto a vivere. Non si cambia nulla e neanche ci si difende rifugiandosi nella propria interiorità, nella libertà del proprio spirito come sceglie di fare invece lo stesso Tronti, perché prima o poi il mondo ci raggiunge e ci costringerà a fare i conti con lui. Tanto vale affiggere la propria interiorità sulle porte della chiesa di Wittenberg per verificare se ha la forza di combattere le forme di vita del proprio tempo. Solo così forse una interiorità fortemente critica del proprio tempo può trasformarsi in una eredità. Se questo è realismo politico, allora partiamo da qui, dalla definizione di realismo politico fatta proprio da Mario Tronti. È un buon inizio, secondo me, per riflettere sul suo ultimo libro uscito postumo, curato da Giulia Dettori, Il proprio tempo appreso col pensiero, Il Saggiatore, 2024: «Realismo politico – scrive Tronti – è lucida analisi dei rapporti di forza in campo, giudizio disincantato sugli interessi in conflitto, calcolo delle possibilità di successo di un’iniziativa, a difesa o all’attacco. Suo luogo di elezione è lo stato di eccezione, dove c’è spinta oggettiva a salire di livello. Ma vale anche per lo stato normale, dove è necessaria una sapienza soggettiva per non rimanere chiusi dentro una situazione bloccata. Può essere dunque sia la presa del Palazzo d’Inverno in uno spazio e tempo che improvvisamente la rendono possibile, sia la cura attenta di un necessario sforzo di lunga durata per far maturare gradualmente le condizioni di un salto di sistema» E seguita: «Agisci efficacemente sul presente se hai una visione di futuro. Mentre ti sporchi le mani con la realtà, devi avere, e coltivare, una riserva di idee per un oltre, per un al di là» (p. 22). Il salto di sistema, il suo superamento, l’andare oltre: obiettivi questi che costituiscono la ricerca ossessiva di un pensatore politico del Novecento che in questo caso però si confronta con una realtà sociale che non è più quella novecentesca. Non solo la coesione sociale rimane un lontano ricordo, ma gli stessi partiti sono stati spazzati via dalla formazione di una miriade di gruppi e di minoranze tra loro culturalmente e territorialmente ostili e il conflitto, come già scritto, esplode oggi non più per vendicare il passato dei vinti o per prefigurare e costruire un futuro per gli ultimi della terra ma per appropriarsi del presente e delle sue pratiche, prima tra tutte quelle di una libertà che non vuole ostacoli e responsabilità e che può agire solo qui e ora. E libertà non vuol dire democrazia, uguaglianza o giustizia sociale. Libertà è libertà, punto e basta. E soprattutto non si apprende con il pensiero: è solo il territorio, la sua occupazione, la sua appropriazione, il suo attraversamento che ci dà la misura della sua potenza. Non la libertà astratta dei diritti, non quella dello spirito, non quella della persona, dunque, ma quella individuale e materiale che si manifesta appunto sul territorio e che non vuole nella sua azione alcun impedimento e alcun rimando al futuro e che proprio per questo si contrappone all’agire politico. Quel realismo politico che Tronti definisce in maniera così lucida e decisa perché non lo applica anche alla società per leggere il mutamento antropologico che negli ultimi decenni l’ha trasformata profondamente? Tronti non lo fa né in questo suo ultimo libro né in quelli precedenti perché forse si rende conto che il suo pensiero tutto piantato nella cultura del Novecento non riesce a leggerla, o, se lo fa, capisce che non riuscirà a redimerla con quelle stesse categorie novecentesche di cui era un insuperabile interprete. Non a caso ha scelto la via dello spirito e della sua libertà. Ma senza una nuova teoria della soggettività e una nuova teoria del conflitto che possano innescare, insieme a un pensiero della decisione, «un radicale cambiamento di orizzonte» non c’è modo di oltrepassare questo «presentismo assoluto», come lo chiama Tronti, non c’è un’alternativa a questo «miserabile», anarchico, volgare e distruttivo presente. Ma la responsabilità non va solo attribuita, come Tronti afferma, al «lento graduale totalizzante processo di imborghesimento dei ceti politici e intellettuali che pure provenivano dalla grande storia del movimento operaio» (p. 27), perché se così fosse si rimarrebbe ancora in quell’ottimismo di una volontà rivoluzionaria che prima o poi tutto travolgerà e tutto trasformerà. E non si tratta neanche e solo di crisi delle forme organizzative del partito e del crollo dei suoi istituti per la rappresentanza, né del «malfunzionamento delle democrazie contemporanee e della loro crisi di autorità», anche se tutto ciò è vero, si tratta di qualcosa di più: di mancanza di una cultura all’altezza dei tempi e che rende insensibile la vecchia cultura a quel mondo della pura contingenza, dell’intensità dei desideri, dell’eccesso di presente che sono le modalità in cui le vite di uomini e donne oggi si danno. A questi comportamenti che fondano una società del consumo, la tradizione politica non sa rispondere, si rifugia nell’autoreferenzialità, trova più comodo accusare di antipolitica quello che si sottrae alle sue briglie e a un mondo di valori precostituiti, che prende corpo fuori della tutela non solo formale della legge e della legalità, che rinnega il passato trasmesso come pura eredità. Questi stessi valori, questa stessa legalità, questo stesso passato che invece la tradizione politica vuole ancora usare come fattori immutabili di coesione e di ordine. Coesione e ordine dettati appunto dalla tradizione che comanda, ad esempio, che la sola contraddizione fondamentale rimanga quella tra rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive e che l’economia e il lavoro siano gli unici contenitori dove possa esplodere la conflittualità sociale. Diventa evidente allora come quei cambiamenti sociali e antropologici non solo vengono sottovalutati nella loro importanza ai fini della nascita di nuove soggettività, ma non si riesce nemmeno a leggerli, né nella loro forza dirompente, né nei linguaggi delle culture che li provocano. La conseguenza più drammatica è che la politica rimane inchiodata là dove, almeno per il momento, il conflitto non c’é più, e che di conseguenza e ancora una volta verrà «bollita e fatta a pezzi». Il fatto è che la politicizzazione del sociale, che é da sempre per la sinistra lo strumento essenziale per esercitare la sua egemonia, passa, ben prima di sognare un altro mondo possibile, attraverso la capacità di tradurre in politica quello che già c’é. E quello che già c’è non è forse disegnato dal consumo e dalle pratiche di libertà che hanno reso anacronistico ogni valore e, dunque, ogni istanza di «dover essere»? Allora a quando una lettura politica del consumo e della libertà senza la quale un ritorno in campo della stessa politica equivale a zero? Massimo Ilardi, già docente di Sociologia Urbana presso la Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, Università di Camerino. È stato direttore delle riviste «Gomorra», «Outlet», «Asfalto magazine». Attualmente è nel collegio docenti del Dottorato di ricerca in Ingegneria dell’Architettura e dell’Urbanistica, Sapienza Università di Roma. Le sue ultime pubblicazioni sono: Il tempo del disincanto (manifestolibri, 2016), Potere del consumo e rivolte sociali. Verso una libertà radicale (DeriveApprodi, prima gestione, 2017), Sinistra. La crisi di una cultura (manifestolibri, 2019), Le due periferie. Il territorio e l’immaginario (DeriveApprodi, prima gestione, 2022).
- periferie
Periferia come nuova centralità Pubblichiamo il primo contributo del comparto <> che inquadra la cornice all’interno della quale si concentrerà l’analisi e la ricerca dei contributi che verranno pubblicati. La e le periferie sembrano assumere una nuova centralità, sono oggetto di contesa all’interno dello spazio urbano e quindi sede di conflitti. Nella fase capitalistica di nuova accumulazione e quindi di trasformazione, i governi che si succedono cercano di consolidare il ruolo dello Stato nonostante sia in profonda crisi. Abbiamo scelto di dedicare un comparto specifico alle periferie nell'area <> perché ci sembra che assumano una nuova centralità. Analizzare questi contesti vuol dire immergersi in un flusso non ancora compiuto di spostamenti: dal centro verso la periferia a causa dell’espulsione di abitanti dal centro della città; dalla periferia verso il centro di migliaia di persone ormai da decenni in fuga da contesti ancora più marginalizzati. Quando parliamo di periferie visualizziamo nella nostra mappa mentale dei territori specifici che non sempre corrispondono alla loro collocazione geografica, ma molto spesso si. Sgomberiamo il campo da fraintendimenti, la periferia è prima di tutto ciò che può essere area di abbandono o area sacrificabile. Abbiamo imparato che la dove c’è sviluppo ci devono essere aree depresse perché il primo non può esistere senza le seconde (Visalli, 2020). Ritornare a parlare in questi termini vuol dire riconoscere nuovamente una gerarchia e le forme del dominio in campo. C’è una guerra interna nella fase di accumulazione (originaria) capitalista (Lazzarato, 2024) in cui ci troviamo che sta riassestando i luoghi in cui abitiamo. L’esito di questa guerra consoliderà o meno queste gerarchie. Quindi periferie anziché periferia, perché le periferie sono quelle della metropoli, quelle abbandonate delle aree interne, quelle sacrificabili dove si possono costruire opere inutili, seppellire tonnellate di rifiuti, seppellire migliaia di morti del mare, asservite alle esercitazioni e alle sperimentazioni militari, dove estrarre terre rare e fonti di energia. Ma all’interno delle periferie stesse esiste una gerarchia e in quanto tali osservabili come interconnesse. Noi ci concentreremo soprattutto sulle periferie della metropoli occidentali – concedendoci anche delle incursioni <> - dove è in corso una trasformazione, come è troppo presto dirlo, l’intenzione è quella di anticiparla. Questi luoghi per troppo tempo abbandonati a se stessi dove i ricchi nascondono quello che non vogliono vedere, oggi, sono al centro della cronaca dei principali notiziari locali e nazionali. Se la periferia per certi versi è un luogo statico perché la mobilità sociale per chi nasce e cresce in questi luoghi è rara, bisogna immaginarla anche come luogo di contesa e, quindi, di conflitti tra e internamente agli abitanti marginalizzati, chi sarà costretto a vivere in questi luoghi, il business del narcotraffico e lo Stato o quel che rimane di esso. Le governance di questi territori introdotta dai vari governi del paese è andata dall’ignorare le crescenti disuguaglianze in seno alle città o a costruire programmi di integrazione e di intervento che nel tempo hanno mantenuto invariata la dipendenza strutturale di questi luoghi dalle zone della valorizzazione e dallo Stato, consolidandola. Oggi ci ritroviamo un governo di estrema destra che utilizza il tema della sicurezza e dell’individuazione del nemico interno come espediente narrativo-mediatico per applicare sulle periferie decreti speciali che contribuiscono alla stessa logica. Sono decreti calati dall’alto, emergenziali e puntivi (Wacquant, 2022). Lo scopo è consolidare il dominio dello Stato sul territorio ma è lo Stato stesso ad essere in crisi, le sue agenzie, i suoi istituti sanitari, educativi, le forme di partecipazione e di decisione, il processo elettorale. Per questo motivo non può che esprimersi nella maniera più autoritaria, punitiva e securitaria incarnata dalle derive a destra delle democrazie occidentali. Le profonde fratture interne alla composizione sociale di classe, di genere e di razza se non ignorate ma agite possono essere terreno di ricomposizione per verticalizzare un conflitto tutto schiacciato verso il basso e in linea orizzontale all’interno delle periferie. Su questo terreno si sperimentano diverse esperienze, alcune embrionali alcune consolidate, di organizzazione dei territori. Luoghi deterritorializzati (Magnaghi, 2000) , all’interno dei quali prima di tutto ci sembrano fondamentali i tentativi di ricostruirne un’identità, di recuperare capacità politica a partire da quello che già c’è per costruire una trasformazione radicale e non subire quella che consolida le forme del dominio in campo. Partiremo analizzando i territori coinvolti dal dl Caivano e dal dl emergenze (dl Caivano bis) attraverso contributi di chi vi abita e li attraversa. Per approfondire Lazzarato M., Guerra civile mondiale? , DeriveApprodi, Bologna, 2024 Magnaghi A., Il progetto locale. Verso la conoscenza di luogo , Bollati Boringhieri, Roma, 2000 Visalli A., Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare , Meltemi, Milano, 2020 Wacquant L., Bourdieu va in città. Una sfida per la teoria urbana , Edizioni Ets, Pisa, 2022 Alessia Pontoriero è un’attivista di Roma. Ha svolto la sua attività politica a partire dai collettivi studenteschi e da dieci anni si occupa delle attività e dei progetti collettivi nella borgata del Quarticciolo di Roma, dove vive. Studia i territori e i processi sociali urbani legati alle periferie. È dottore di ricerca in Scienze Sociali Applicate conseguito all’Università di Roma La Sapienza e ha lavorato presso il Dicea. Si occupa anche di una libreria a Centocelle. Per «ahida» cura il comparto «periferie».
- preprint/reprint
Lampi di femminismo Il testo che segue è tratto dal libro Senza collare. Vita complicata di una donna alla ricerca della sua liberazione pubblicato da Savelli, collana «Il pane e le rose», nel novembre del 1977. L’autrice è Camilla. La storia che racconta è ambientata nell’agosto del 1976. Camilla scrive a un’altra donna raccontando le sue giornate, ciò che la tocca nel corpo e nella mente, nella memoria e nel presente, nel bel mezzo della fine del suo consunto rapporto con un marito preso a simbolo del potere e insieme della miseria del genere maschile. Lo stralcio proposto è quello di apertura della narrazione. Camilla è alle prese con una riunione di «autocoscienza» con il suo piccolo gruppo femminista. Il linguaggio utilizzato è semplice, diretto, spontaneo, a tratti elementare e schematico, eppure crediamo riesca a narrare aspetti fondamentali del femminismo negli anni della sua esplosione e massificazione all’interno dei sommovimenti rivoluzionari del decennio Settanta. «Ci scazziamo: bisogna parlarne o è meglio tacere e offrire al pubblico una faccia serena, forte, compatta? Non si getterà merda sul movimento parlando delle proprie incertezze e contraddizioni? Non mi getterò merda addosso parlando del mio privato? Dicendo che alcune di noi sono lesbiche e parlando di separatismo non allontaneremo le “altre” donne? Che significato hanno, allora, la “presa di coscienza” e la “messa in discussione”? Meglio tacere: sono ancora una volta condizionata al silenzio. No, meglio raccontare e raccontarsi, magari con un po’ di ironia. Al diavolo tutte le possibili strumentalizzazioni commercialpornopersonalcontro consuperdevianti». Cara Lilli, sono qui sulla terrazza della radio, arroventata dal sole. Appena mi sono accorta di potermi gestire un po’ di spazi e di tempi miei (mia figlia è in campagna) ho deciso di scriverti un diario di quello che succede mentre non ci sei, un po’ per tenerti al corrente, un po’ per continuare un confronto con te, un po’ perché mi diverto. Un diario circostanziato, documentato, fantasticato, allegro e incazzato. Voglio partire dal vissuto, dal vivente, o almeno, dal vivibile. Prima di tutto mi auguro che il Portogallo sia bello e le tue passeggiate in Algarve con Othelo proficue. Ieri io e Pina ti abbiamo mandato i mortacci più sentiti perché ci hai abbandonate nell’incasinamento più totale. Ma di questo parleremo dopo. Ogni tanto qualche sopravvissuto all’estate e al 20 giugno si affaccia alla porta della terrazza, strizza gli occhi per vedere chi c’è e se ne torna nelle ombre interne. Io mi sono quasi denudata. Ho arrotolato i calzoni fino alle cosce, ho slacciato la camicia e mi lascio travolgere dal languore, dal casino, dalla raferazione estiva, dagli odori e dalle voci che salgono dal mercato di Campo de’ Fiori. Mi sento quasi una escrescenza della terrazza, un sasso, un pezzo di cielo, (l’altra metà?!), che vorrei abbracciare tutto, dissolvendomici. Sono una parte di un tutto universale. Guardo i tetti di Roma e penso a quante donne in questo momento staranno pulendo i cessi di casa loro, o le cucine; ad alcune finestre ci sono le lenzuola stese al sole. Io ho la mia penna in bocca e medito su come cominciare degnamente questa mia opera prima. La mia creatività è un buco nero. Accidenti! L’ho detto! Ecco da dove comincia la nostra castrazione. Ho detto buco nero come dato negativo; siamo tutte un buco nero, la cui creatività deve essere rivendicata, esaltata, nobilitata. W I BUCHI NERI. La mia creatività sarà un dolce, fertile, misterioso, ricco, variegato buco nero. Il vissuto, abbiamo detto: allora comincio da ieri sera, domenica, perché siamo riuscite, dopo tanto tempo, a fare il piccolo gruppo. Eravamo io, Fina, Serena e Marina. Ci sono sempre un po’ di reticenze quando si cerca di far partire un piccolo gruppo, così abbiamo parlato prima della radio (il nostro centro vitale, la nostra ragione d’essere), poi abbiamo cazzeggiato. In questi preliminari e in genere nella prassi quotidiana, emergono spesso le «differenze» fra «noi» e le «altre», mentre, in teoria, sosteniamo di essere tutte uguali, tutte vittime, tutte ugualmente oppresse. Ci escono battute di una cattiveria e di un sadismo del tutto «maschili».«Porcoddio, finiamola di pensare che siamo in un’isola felice di donne tutte uguali, e che il solo fatto di essere donne ci nobiliti automaticamente. Diciamocelo: ci sono donne stronze e donne non stronze», dice Marina. Iniziamo una breve discussione su questo, ma, anche se ci dispiace porre questa discriminante, riconosciamo alla fine che anche alle donne capita, talvolta, di essere stronze. La discussione era sorta perché una collega di Marina, cattolica (l’anno scorso è stata a Lourdes per una parente), contraria all’aborto e incinta, sapendola femminista e «democratica», si è rivolta a lei per sapere dove andare ad abortire. Il tutto ribadendo il suo orrore e la sua ostilità per l’aborto. Marina ci chiede dunque consiglio sulle persone più adatte dalle quali mandarla e un terzetto unanime ha risposto di mandarla a Lourdes. Ci ridiamo sopra, poi ci battiamo il petto in un mea culpa, perché tutto ciò è «poco femminista», e parliamo dell’aborto e di quello che significa per noi. (Grumi di sangue rappreso, angoscia, le gambe che tremano, il sapore-odore dolciastro dell’anestesia, precipitare all’indietro, la morte, il vuoto, incomprensibili spiegazioni del perché). Una violenza inaudita che però a volte evita altre violenze. Non aveva poi tutti i torti la collega cattolica di chiederlo, rifiutandolo. Dopo, tutte abbiamo sentito l’esigenza di parlare della sessualità. Sesso, lesbismo, orgasmo, masturbazione, condizionamenti oppure liberazione? PINA: Non so per voi, ma per me la sessualità è una cosa totale, generale, investe tutto. Non so se sono chiara. Non è una cosa che riguarda gli organi genitali e basta. Comprende tutto il corpo e anche la mente. Io vivo la mia sessualità facendo una passeggiata, chiacchierando, guardando un film, tenendo qualcuno per mano. La vivo più come dolcezza e amicizia che come rapporto sessuale; perciò la vivo raramente con gli uomini, che sono in gran parte, diciamo grandissima parte, dei figli di mignotta. Scusate compagne, non per dir male delle mignotte, ma in questo momento, non mi viene in mente niente di più adatto. Loro scopano, poi chiudono il circuito fino alla prossima volta. Tutti i rapporti che possono avere con noi non contano, sono marginali rispetto agli altri loro interessi; praticamente non esistono. Io poi, dopo il mio aborto, non sopporto più la penetrazione, ho paura di rimanere incinta, sento male alla vagina, mi viene mal di stomaco, mi succedono le peggio cose. Peppe, poveraccio, a volte è dolce, sa che non posso prendere la pillola e dice che ci sta attento lui. Io però sto male lo stesso e lui che, come tutti gli uomini, si identifica col suo cazzo, sentendosi rifiutato nel cazzo, si sente rifiutato tutto. Mi pianta certi musi che non finiscono più, si incazza; a volte ho l’impressione che mi odi e mi oppone un rifiuto totale. Proprio non ne vuol sapere. Se lo tocco io, diventa un pezzo di ghiaccio. L’altro giorno eravamo andati a letto dopo mangiato e ho cominciato a accarezzarlo. Sembra che andasse tutto bene. Un’ottima occasione per recuperare. Cazzo, mi chiamano al telefono. Vado a rispondere perché era una cosa urgente e vi giuro, compagne, che non ci sono stata più di due minuti. Beh, quando sono tornata si era addormentato. Era lì che russava. Io mi sono incazzata da morire. Mi sono sdraiata vicino a lui e ho cominciato a masturbarmi come una pazza. Poi ho pianto ed è tutto il giorno che sto male, anzi, questa sera quasi non volevo venire. Non so bene perché l’ho fatto: se per fargli rabbia, pensando che si svegliasse, per fargli vedere che posso essere autonoma sessualmente, o se l’ho fatto per me, perché mi andava. Lui ha continuato a dormire tranquillamente. O non si è accorto di niente o ha finto bene. Io, comunque, mi masturbo spesso, perché mi piace, perché mi conosco meglio di tutti gli altri, perché mi esaurisco in me stessa, senza avere tutti i problemi che vengono fuori quando si hanno rapporti con gli altri. Il lato negativo che riconosco nella masturbazione, almeno per me, è che la sento un po’ masochisticamente, come consapevolezza della mia inadeguatezza. Insomma, ho paura di non essere all’altezza di un rapporto con gli altri, ho paura di essere rifiutata e questo con la masturbazione non succede. Ho fatto anche un’esperienza omosessuale e mi sono trovata molto bene. Forse è un altro modo di esaurirmi in me stessa, uno specchio, ma non so. So soltanto che non mi sono mai sentita così «completa» e senza tensioni. Poi si sono ricreati i ruoli, come nel rapporto di coppia tradizionale; ho scoperto che facevo spesso «il maschio» della situazione, che opprimevo, stabilivo, ordinavo, e allora mi sono detta che non ne valeva la pena. SERENA: Non sono d’accordo col rifiuto della penetrazione e del maschio per quanto riguarda la sessualità. Posso rifiutarlo in altri campi, ma nel campo specifico non me la sento. Certe formule di rifiuto mi ricordano molto la mia infanzia, quando mia madre mi diceva che tutti gli uomini sono dei porci e che vogliono tutti la stessa cosa. («Perché, che altro vogliono?» l’ha interrotta Marina polemicamente, «Quando non la vogliono è perché hanno paura della fica dentata»). O le suore a scuola che mi dicevano: «Guai a toccarsi o a farsi toccare», perché ci sarebbero venute malattie innominabili, saremmo diventate cieche, o delle poco di buono e avremmo subìto punizioni eterne. Oppure le compagne di classe al liceo che mi consigliavano di fare «tutt » ma non «quello», perché finché una era vergine, aveva la patente. Mi ricordo ancora la frase: «Quando un uscio è aperto non si può più controllare quanta gente ci passa». Io, quindi, il sesso col maschio l’ho vissuto come liberazione da tutti questi condizionamenti e lo sento in modo positivo. Il mio uomo del momento non è che sia la fine del mondo, anzi diciamo pure che è un po'’stronzo, un impasto di zen, filosofie orientali e marxismo, però a me piace lo stesso scopare; anzi, vi dirò di più, mi piace anche essere sodomizzata. È ugualmente bello e non mi pone problemi di contraccettivi. Per quanto riguarda la masturbazione io non la pratico. Perché preferisco scopare con gli altri che da sola, dato che, come adulta, ho la possibilità di una vita sociale «normale». Penso che sia giusto che la pratichino i bambini, perché li aiuta a conoscere meglio il proprio corpo, ad avere fiducia in loro stessi, a superare remore e condizionamenti, a vivere il sesso in modo diverso da come l’ho vissuto io: ma in una persona adulta mi sembra un limite, più che una maggiore libertà di espressione. Sarà una forma di narcisismo, ma io ho bisogno dell’apprezzamento e del riconoscimento dell’altro e nell’altro. Avendo bisogno di «riconoscimenti», il maschio me ne dà di più, perché non sono ancora riuscita a rinunciare ai parametri secondo i quali il maschio vale di più e quindi il suo apprezzamento è più gratificante. E rapporto con una donna mi metterebbe in uno stato di insicurezza pazzesco, senza contare che sono convinta anch’io che i ruoli oppressore-oppresso all’interno di una coppia non si cancellano facilmente, anche fra donne. MARINA: Io mi sono accorta soltanto dopo mesi che per me la penetrazione era violenza. Non lo avevo capito quando Roberto mi entrava dentro dicendo «voglio spaccarti in due, infilzarti come uno spiedino, entrarti dentro tutto intero», in una specie di parto alla rovescia. La violenza di Roberto era anche ad altri livelli, ma a livello sessuale era più evidente. A un certo punto ho cominciato a vivere anch’io l’orgasmo come violenza che si faceva su di me, come appropriazione, come ulteriore schiavizzazione. Roberto era convinto che siccome mi scopava e mi faceva godere, poteva anche permettersi qualunque sopraffazione. Effettivamente, finché ci sono aspetti piacevoli in qualcosa, accetti con maggior tolleranza anche quelli spiacevoli. Quando gli aspetti spiacevoli erano diventati troppi e non riuscivo più a vivere bene nemmeno quelli piacevoli, sono diventata frigida, un pezzo di marmo. Mi sentivo rifiutata a troppi livelli per godermi il sesso. Mi sentivo brutta e avevo paura che Roberto scopasse con me soltanto per farmi piacere. Ho sempre creduto di essere brutta, fin da piccola, perché sono nera, ho i peli e sono bassa. Insomma, il mio corpo non corrisponde per niente ai canoni che ci vogliono imporre. A me sarebbe piaciuto essere Marilyn Monroe e mi ritrovavo senza petto, con le gambe storte e tutto il resto. Credevo di aver superato, crescendo, questi complessi, invece Roberto me li aveva fatti rivenire fuori tutti. Allora, frigidità. È vero, io sono completamente d’accordo che «la frigidità è una resistenza contro la sessualità come violenza». L’ho sperimentato fino in fondo. La frigidità non è un rifiuto masochistico del piacere, ma semplicemente il rifiuto di un piacere, perché è collegato a mille altri dispiaceri. Tutto qua. Roberto, poi, è il fallocrate in perenne erezione. Si considera bellissimo e dice che a lui le donne «la fica gliela sbattono in faccia». Io ero semplicemente una delle tante. Adesso non me ne frega più niente, le cose sono cambiate, ho una mia autonomia: però, fino a un anno fa, dipendevo psicologicamente da lui in modo totale. Mi chiedeva di spogliarmi in bagno, mentre lui guardava dal buco della serratura e quello stronzo si eccitava così. Io seduta sulla tazza del cesso che mimavo le spogliarelliste del Volturno e mi sentivo come una deficiente; non capivo perché lo facevo, ma lo facevo lo stesso. Riempiva la casa di pornoromanzi e io mi ci eccitavo sopra. Solo da poco riesco a vedere tutta la brutalità e la violenza fine a se stessa di quel tipo di sessualità; allora mi stava bene. C’aveva pure un bel cazzo di plastica bianco; insomma, tutti i sussidi elettrovisivi. E io facevo la casalinga: di giorno, mentre lui era a lavorare, stavo a casa a pulire, poi la spesa, la cucina, il figlio da allattare, portare al parco e la sera dovevo, secondo lui, essere una specie di odalisca, misteriosa, esotica, affascinante, truccata, che non appena lui metteva la chiave nella serratura, doveva mollare tutto e improvvisare una bella danza del ventre. Non dico niente di nuovo. Era il classico matrimonio borghese, col classico maschio borghese, «aperto» a sinistra. Poi c’erano altre donne, perché, mi diceva che una donna che si riduce «così», non può interessare nessuno. La morale di questi maschietti è che quando ci sono difficoltà e le cose non vanno, non si deve perdere tempo ad aggiustare i cocci, anzi, è meglio prendere il largo finché non si aggiustano da soli. E se non si aggiustano, si butta via il tutto e si compra una casa nuova. Io sono stata l’oggetto totale e mi sono subita tutta la mancanza di rispetto che implica questo ruolo: disinteresse per quello che facevo, dicevo o pensavo; per tutto quello che succedeva a casa. Una volta, quando io dormivo già nella stanza del bambino, s’è portato una donna a letto. Il bambino è andato la mattina a salutare il padre ed è corso da me a dire: «Mamma, c’è una bionda nel letto di papà». Io li ho sbattuti fuori tutti e due, ma non l’ho fatto per gelosia; l’ho fatto perché quello stronzo mi lascia già così pochi spazi, che non mi può togliere anche quelli che mi sono creata a casa mia. Per dirvene un’altra che aiuta a definire il tipo, una volta, tempo fa, mettendo a posto le sue camicie, mi sono accorta che il cazzo di plastica non c’era più. Era già il periodo in cui si scopava poco, quindi non lo usavamo da un bel po’. Gli ho chiesto dov’era. «Non c’è più?» mi fa con la tipica tattica maschile di rispondere a una domanda con un'altra domanda: «E dove lo hai messo?». «Dove l’hai messo te lo domando io», faccio. «E io che ne so? L’avrai messo tu da qualche parte, magari per nasconderlo e adesso te ne sei dimenticata. Sarà una tua rimozione inconscia. Vedrai che prima o poi salterà fuori». Questa frase è stata l’unica verità che mi ha detto. Ho accettato la sua spiegazione di tipo para-psicoanalitico e la cosa è finita lì. Dopo qualche mese, il giorno di Natale, stavo per andare a prendere Antonello da mia madre e mi trovo un bel pacchetto natalizio per terra, carino, ben confezionato, con slitte e renne. Credo che le renne fossero allusive a corna, vista la finezza di chi mi aveva mandato il regalo. Sopra c’era un cartoncino, indirizzato alla famiglia P. Guardo meglio. Il pacco aveva un’aria casareccia, la carta doveva essere un avanzo dei regali dell’anno precedente. Penso subito a una bomba, ai fasci, a qualcosa di politico. Roberto è conosciuto nel quartiere. Citofono alla portiera per sapere se qualcuno ha portato un pacco. Non ha visto nessuno, ma aggiunge che chiunque per entrare sarebbe dovuto passare sul suo cadavere; giura che è impossibile che ci sia un pacco e vuole venire su a vedere. È molto compresa del suo ruolo di artificiere. Anche lei sa che Roberto ha già avuto grane con i fasci. Scruta il pacco da lontano con occhio di falco, ci gira intorno. Poi si china ad annusarlo e auscultarlo e mi guarda scuotendo la testa. Alla fine, sulla paura ha prevalso per tutte e due la curiosità. Ruvidamente decide di passare all’azione. Abbiamo indugiato fin troppo. Si rimbocca le maniche e comincia a disfare, cautamente, il pacco. Sulla parte opposta del cartoncino era scritto «... ma il tuo è migliore...». Guardo di nuovo il pacco, ormai aperto. Una custodia di plastica, di quelle in cui di solito si mettono le orchidee, lasciava vedere qualcosa di lungo e cilindrico avvolto in velina bianca; quella delle scarpe o dei regali raffinati. Cazzo, era il cazzo di ritorno! Certe sagome sono inconfondibili. Era sicuramente Lui. Riguardo: «... ma il tuo è migliore...». Io non sono d’accordo, ma l’allusione è chiara. Mi fiondo sulla portiera che l’aveva già preso in mano e lo soppesava guardandolo perplessa. Glielo strappo e dico con voce esagitata: «È... è meglio che lo apra mio marito, non si sa mai. Potrebbe essere pericoloso. Lo ributto nella scatola, lo incarto di nuovo. Appena la portiera se ne è andata diffidente e perplessa ho aperto ed era proprio Lui. Anche i cazzi di plastica hanno le loro caratteristiche. Il mio aveva un neo proprio a metà che lo rendeva inconfondibile. Stronzo, penso; l’avevo nascosto e me ne ero dimenticata, per una mia rimozione inconscia! Vaffanculo. Non c’è più niente di sacro! Il Nostro cazzo nelle mani e nella fica di un’altra! E con che solerzia mi aveva aiutata a cercarlo. Io arrampicata sulla scala che lo cercavo nell’armadio in alto e lui che mi diceva dove dovevo guardare. Una bella presa per il culo, non c’è che dire! Esco sbattendo la porta, per smaltire la rabbia e mi imbatto nella portiera che mi guarda interrogativa. «Ha aperto?». «Era una bara». Butto là la prima cosa che mi viene in mente. «Una bara?!» fa lei con l’occhio rotondo per lo stupore. «Sì, una bara» rispondo io strafottente, «proprio una bara... sa di quelle in legno con dentro uno scheletro». «Uno scheletro?» L’occhio è sempre più rotondo. L’eccitazione e la curiosità la fanno saltellare di qua e di là. «Sì... il tuo è migliore allude probabilmente al Destino di mio marito e a quello dello scheletro. Che vuole, uno scherzo di cattivo gusto... Con la gente che gira al giorno d’oggi... Lei poi sa che mio marito ha già avuto minacce...». Abbasso gli occhi come sopraffatta dalla preoccupazione. «Anzi, volevo dirle... ecco, non ne parli con mio marito. Probabilmente è solo uno scherzo e mi sembra inutile preoccuparlo». «Certo, certo... Stia tranquilla... Io sono una tomba... cioè, volevo dire...». L’ho lasciata a meditare sulla sua gaffe e ho passeggiato pensando al che fare. Non mi è venuto in mente niente di abbastanza violento, se non di metterglielo in culo dritto dritto e fino in fondo, sussurrandogli che l’avevo ritrovato. Avevo pensato di non parlargliene neppure, ma non ho resistito. Che volete, ho sempre la mania di volere capire e chiarire, anche se non ci riesco mai. La sera, ho preparato la tavola e ho messo il cazzo dritto davanti al suo piatto, legato con un fiocco azzurro. «Secondo te, in linea teorica, è possibile che un cazzo di plastica metta le ali, sparisca e ritorni autonomamente il giorno di Natale?». «Tornato? Come» fa lui con aria finto-ottusa di chi vuol guadagnar tempo per trovare una balla plausibile. «Io non ne so niente. Sarà qualche scherzo. E poi perché dovrebbe essere proprio il nostro. Magari qualcuno ci ha voluto fare un regalo e l’ha comprato...». Si accorge anche lui che non regge, perché la voce gli si spegne mentre parla. Mi guarda in tralice per vedere se ho abboccato. Continuiamo per una mezz’ora. Gli dico che mi feriscono molto di più le bugie e l’equivoco che non il sapere che aveva un’altra. Tanto più che ci ero abituata. Niente da fare. È rimasto arroccato sul fatto che non ne sapeva niente e a un certo punto mi ha fatto anche pena, perché raccontava le peggio stronzate, le più implausibili pur di non dire la verità. Verità che ho saputo per caso qualche mese dopo. Vi risparmio i particolari, ma vi assicuro che non era molto edificante. Beh, è stata un po’ la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ho cominciato a prendere le distanze, a uscire, a trovare qualcosa da fare che non fosse soltanto il ragazzino, la casa e la scopata. Lilli mi è stata molto vicina. Poi è venuto il femminismo e Roberto sono riuscita finalmente a mandarlo affanculo. Appena mandato affanculo, scopre che mi ama e che senza di me non può stare. Tu Camilla ne sai qualcosa. Prima scopavamo ogni morte di papa; adesso è arrivato al colmo di infilarsi nel mio letto la mattina, per «sentire il mio calore e il mio odore» e di masturbarsi lì, da solo, come uno stronzo. Adesso, aboliti i rapporti umani e di amicizia con i maschi, abolito il rapporto sessuale, non è rimasto più niente. Abbiamo proprio due concezioni della vita opposte. Per me sono tutti fascisti, perché non sanno cos’è la collaborazione, ma conoscono soltanto o la prevaricazione o la sudditanza. Conoscono soltanto il «prendere» e non il dare, non «l’amore», ma il sesso nel modo più bieco e restrittivo. Io non ho ancora vissuto un rapporto lesbico, perché non sono mai andata a letto con una donna, ma mi sento lesbica, perché non scambierei una passeggiata, un film o un pranzo con un’amica col maschio più fico di Roma. Io con i maschi sono stata soltanto male. Il fatto è che siamo così condizionate, che se non soffriamo, siamo convinte di non amare sul serio; è perciò, forse, che a Serena piace prenderselo in culo. Guardavo le compagne che parlavano e mi piacevano tutte in un modo o nell’altro. Pina per la sua bionda, lattea fragilità: Marina per quei suoi riccioli neri da zingara, gli occhi stupendi, intensi, nerissimi, per il fatto che è piccola, scattante, per la sua robusta stretta di mano. È lei che mi è piaciuta di più nel collettivo, appena l’ho vista. È stata una attrazione istintiva e mi ha stupito che si sentisse brutta. E Serena, per la sua foga nel combattere contro i mulini a vento e per il suo amore-odio per il partito, il sindacato e il giornale. Abbiamo filosofeggiato un po’ su come il cattolicesimo ci ha inculcato la concezione dell’amore-passione sessuale, come qualcosa che è peccato e che quindi deve essere punito, appunto con la sofferenza. IO: Sarò una stronza, ma ho una visione della coppia un po’ alla Carosello. Vedo due allegri, saltellanti, sorridenti, con molta gioia di stare assieme, perennemente abbracciati. Vedo anche solidarietà quando c’è qualcosa che non va, aiuto, appoggio, ma l’ideale è essere allegri. In realtà questa situazione ottimale non l’ho mai trovata, eppure insisto col mio inguaribile fantasioso ottimismo. Andando indietro nel tempo, mi sono sempre sentita in qualche modo infelice nei miei rapporti sentimentali. Non riuscivano ad appagarmi, ma li cercavo. Dai tredici anni in poi, la mia vita è stata un perenne rapporto sentimentale insoddisfacente. Anche per me la sessualità comprende tanti livelli diversi, mentre col maschio è quasi sempre la scopata e basta. Scopata triste, poi, perché magari una non la vorrebbe fare, ma ci tiene all’amicizia o al rapporto intellettuale e sa che spesso quello passa attraverso la scopata, altrimenti il maschio si sente rifiutato e molla tutto. Così assieme al cervello, e all’amicizia, ti devi prendere anche il cazzo, sennò non vale. È un’offerta speciale, o tutto in blocco o si perde l’affare. Gli amici che non vogliono scopare io li conto sulle dita di una mano. Allora ci incastriamo in questi rapporti affettivi che si rinchiudono e si esauriscono in se stessi, eliminando o riducendo «l’esterno». O almeno, io mi sono sempre incastrata, perché evidentemente, il maschio mi dà delle sicurezze. Io ho rifiutato a lungo il sesso, per tutti i tabù che mi sono portata dietro, figuriamoci l’orgasmo! Ho vissuto male «il femminile», cioè le mestruazioni, per esempio, o il sesso, in cui, per me il maschio si prendeva un suo piacere e la donna no, ma lo subiva e non capivo bene perché. Da piccola avevo interiorizzato che bisognava sposarsi e avere dei figli, perché questo era il destino ottimale di una donna; sapevo che per avere tutto questo bisognava passare attraverso quella cosa turpe, misteriosa e inevitabile che era il sesso. L’ho sempre negato, quindi. A me nessun uomo mi avrebbe toccata; mio marito, l’unico autorizzato, avrebbe dovuto superare immani difficoltà, che io avrei messo sulla sua strada. Fantasticavo di tute inaccessibili con chiusura lampo e lucchetto, del quale avrei ingoiato la chiave. Questo atteggiamento era unito al desiderio di piacere, a una civetteria che mi dicevano fosse innata, ma che invece mi avevano insegnato. Ai maschi piacevo; non ho mai trovato nessuno che io volessi e che mi dicesse di no. Venivano a grappoli («quella è bona e anche un po’ mignotta, poi la mignottella allegra, non quella problematica»), e si trovavano di fronte a un muro e allora se ne andavano, oppure, dopo lunghe fatiche e argomentazioni, mi convincevano a scopare, ma lo facevo, così visibilmente «tanto per gradire», che un paio di maschi sono rimasti nell’impotenza più totale. Anche io, come Marina ho rifiutato a lungo l’orgasmo, perché lo sentivo come cedimento e come appropriazione da parte del maschio. Adesso riesco ad averlo, ma continua a sembrarmi troppo spesso un non-essere me stessa. Allora, quando il maschio mi interessa veramente, preferisco essere io a prendere l’iniziativa. Voglio essere vincente: voglio accarezzarlo, succhiarlo, ingoiarlo, appropriarmi del cazzo che si è appropriato di me e non dare niente in cambio. Sono io, caro compagno, che per una volta ti posseggo! Io sono favorevole ai pompini. Prendermelo in culo non mi piace; non ho mai provato, non lo so, ma non mi piace il concetto. Il pompino invece è psicologicamente soddisfacente, oltre a essere contraccettivamente valido. E vi spiego perché. L’uomo deve essere forte, temperante, dignitoso, silenzioso, deve comandare e non essere comandato, essere attivo e non passivo. Su questa ruolizzazione è basata la nostra oppressione sessuale Quindi vedo tutto ciò che può sconvolgere queste ruolizzazioni come qualcosa di positivo. La scopata «normale», è quasi più un bisogno corporale che affettivo per il maschio. Arriva, scopa, si rilassa, fuma una sigaretta e se ne riparte. È riuscito a riconstatare in poco tempo, con poca fatica e con sicurezza, che può facilmente tornare alla Madre quando vuole. Si riappropria della sua matrice e delle sue origini in cinque minuti; riacquista forza e certezza. «Lì ero, lì sono e lì tornerò», in un rispecchiamento ciclico. Una volta un compagno mi ha detto che agli uomini piace la fica perché da lì seno usciti. Lo trovo molto vero. La scopata è il rito di riapprcpriazione, è la sfida al Padre, allaltro Uomo che potrebbe essere al suo posto in quel momento, ma che non c’è, perché Lui è stato scelto, e quindi è Privilegiato. Che possiamo fare per non essere oggetto di riappropriazione, noi che non abbiamo niente di cui vogliamo veramente riappropriarci, perché ci hanno negate, sottovalutate ed espropriate così bene, che spesso non sentiamo nemmeno l’esigenza di riappropriarci di noi stesse? Si può, ovviamente, evitare la scopata e ogni rapporto col maschio, ma per chi non ci riesce, secondo me, il pompino è l’ideale perché dice tante cose: «Il tuo pene non serve alla riproduzione perché io non voglio figli, e neanche per il piacere, perché quando mi penetri non sento niente. Non serve per trovare in me tua Madre, perché io ti chiudo la porta in faccia e non ti lascio entrare. Questo mondo oscuro e senza fondo che ti sbigottisce e ti attrae è mio e soltanto mio. Tu, con quel tuo inutile e ridicolo battacchio non avrai più campane da suonare. Se nessuna te lo invidia più, puoi andare a seppellirti. Se vuoi ti dono la mia bocca, ugualmente umida e calda, che però non è riservata a te, perché tu entri col pane, la carne, l’acqua, la frutta; vieni come loro succhiato, bevuto, deglutito. Così tu mi restituisci il latte che io, Madre, ti ho dato. Sei il mio biberon tiepido e ti voglio vuotare fino all’ultima goccia. Posso consentirti di entrare un attimo in me, ma solo per poter sentire sul cazzo il mio sapore di donna, mescolato al tuo. Non sei tu ad appropriarti di me, non mi schiacci, non mi semini; sono io che ti prendo, ti sento tremare, ti gestisco. Sei passivo, cadi nell’irrazionale, che tanto detesti e che rimuovi, perché «femminile», urli, ti rubo il tuo potere. Sei stato «mio». Ne sono così convinta che sono arrivata a forme di espressione direi quasi sublimi in questo campo. Una volta ho fatto un pompino subacqueo in apnea, dando dei numeri a Maiorca. La fine del mondo! Ho vissuto fino in fondo l’eros come tanatos: stavamo per annegare tutti e due. Un’altra volta ricordo un pompino al miele di castagno dei frati di Camaldoli, delizioso. Così ho concluso la mia orazione. Le compagne mi sono state a sentire a bocca aperta; dopo qualche secondo di silenzio, Marina mi ha mandata affanculo. Ha detto che la mia è pura e semplice idolatria del cazzo; è instaurare una dipendenza edipica dal maschio. Immaginarselo come un biberon, vuol dire rendersi piccoli e dipendenti di fronte a un adulto che ti mette qualcosa in bocca e ti obbliga a succhiare. È il voler regredire a quando erano gli altri a darti tutto», a pensare a te e tu ricevevi, senza dover pensare a niente. Ho ammesso che quelle fantasie mi erano venute guardando mia figlia succhiare il biberon la mattina, ma ho negato che si trattasse di idolatria, perché idolatrare vuol dire adorare da lontano, vuol dire «non toccare». Io, al contrario, mi sento attiva e cerco una riappropriazione, seppure per procura fallica. Pina è intervenuta dicendo che lei un’analisi così approfondita sul pompino non l’aveva mai fatta e che non aveva niente in contrario a farli, però non li sente come una cosa sua, ma piuttosto come una cosa fatta per far piacere al partner. Tant’è vero che agli uomini i pompini piacciono particolarmente. Non li sentono come espropriazione, ma come un altro servizio reso a loro. Anche la parola «pompinara», gli uomini la usano con disprezzo maggiore di «puttana», proprio perché considerano il pompino uno dei servizi più sgradevoli. Io ho ribattuto che, secondo me, sono così suscettibili su «pompini e pompinare», proprio perché si sentono coinvolti ed espropriati; e più una cosa ti coinvolge, più hai bisogno, se senti il coinvolgimento come espropriazione, di minimizzarla, di dire che non conta niente, che non ti interessa e anzi che, al limite è disgustosa. Molti uomini hanno questo atteggiamento con le mogli, hanno la mania di parlar male del matrimonio, anche se poi tutto sommato sono contenti; o della donna con cui stanno, perché, minimizzando l’Altra, loro acquistano maggior autonomia e valore. Marina ha detto che io nel sesso non cerco di appropriarmi di me stessa, ma «dell’amore del proprietario del cazzo», cioè di quello che per gli altri, e anche per me, rimane un valore. E finché cercherò di appropriarmi del maschio non avrò mai né forza, né indipendenza. né libertà. La discussione è diventata un po’ un casino, perché parlavamo tutte insieme, poi è ripresa con un certo ordine. SERENA: Voi tutte avete parlato di sessualità come tenerezza. Io invece, sento il fatto di viverla come tenerezza, quasi come una deviazione dalla «spinta» naturale, che, secondo me, è volta alla soddisfazione sessuale diretta. La tenerezza, l’affettività generalizzata le sento anch’io come bisogni, ma le sento come bisogni molto «femminili», cioè indotti da una società maschile repressiva, che non vuole che la donna scopi, ma che impari a sublimare in affettività generalizzata e generica. Io voglio tenerezza e affetto, ma non sottovalutiamo il valore della semplice scopata, care compagne. Non mistifichiamo anche quella aggiungendo orpelli che, comunque, sappiamo che non riusciremo mai ad avere; anzi, direi meglio, non demistifichiamola! Io vedo in questo atteggiamento una punta di cattolicesimo. A voi la scopata non basta, perché continuate a considerarla una cosa «sconveniente» che non si giustifica in se stessa. Io ho avuto una sola storia importante con un compagno sposato e vi assicuro che non si reggeva su altro che sulla scopata. Aveva una moglie «comprensiva» che gli diceva: «Scopa, caro, scopa pure; capisco che un uomo geniale come te non può esaurirsi in un solo rapporto. Ricordati, però, che quando vuoi, qui ci sono sempre io». Lui completamente scisso fra me e la moglie. Dopo qualche mese di passione travolgente con me, ha deciso di tornare con la moglie, e fin qui tutto bene; solo che invece di affrontare chiaramente le cose, ci ha impiantato sopra un mistero gotico. «Ti amo, ma ti debbo lasciare», diceva sciogliendosi in lacrime. «Perché? Che è successo?», chiedevo io angosciata. «Non chiedermi niente, non posso dirtelo, ma tieni sempre a mente queste mie parole (attimo di sospensione)... ti amo da morire». E non ci siamo più visti. Vi ho raccontato tutta la storia per dirvi che lui era certamente uno stronzo, scorretto e incapace di affrontare le cose, però ho scopato bene lo stesso e poi lo devo ringraziare, perché è stata quella storia di merda con lui che mi ha aperto gli occhi al femminismo. Adesso non ho più vere e proprie storie, però, se mi capita, i maschi me li scopo, perché no? IO: Non sono d’accordo. Per me la scopata non ha significato se non c’è anche qualcos’altro. Forse dobbiamo capirci su cosa intendiamo dire quando parliamo di «scopata significativa» o di «scopata insignificante», quando diciamo «mi è piaciuto, non mi è piaciuto». Io scopo e magari ho anche l’orgasmo, ma può non piacermi lo stesso. La vivo meccanicamente, mi lascia con la bocca amara e un senso di vuoto, Mi è «piaciuta», ma mi sembra ugualmente inutile. Sarà che quando ho chiuso il matrimonio con Gianni mi sono buttata per cazzi, è ovvio che c’è sempre la discriminante politica; se non sono cazzi rossi niente da fare. Serena dice che rossi o bianchi sono tutti più o meno uguali. L’unica differenza è che i bianchi ti aprono le porte, ti aiutano a scendere dalla macchina, si prodigano, insomma, in mille modi. Ti considerano una minorata bisognosa di aiuto e te lo forniscono loro. I cazzi rossi ti considerano ugualmente una minorata e ti lasciano cuocere nel tuo brodo, perché loro «devono occuparsi delle loro contraddizioni». Ma, diciamo che Serena ama il paradosso. Dicevo, mi sono buttata e ho accumulato la quantità a discapito della qualità, e nessuno mi ha mai coinvolta, nemmeno in progetti per l’indomani. Con orrore e vergogna, a un certo punto mi sono anche accorta che preferivo gli «uomini di successo», quindi i più prevaricatori, arrivisti, padroni. Una rivalsa? Non lo so. Forse ho problemi col Potere. Mi devono essere venuti stando con Gianni, che si presenta come il classico uomo di potere, citato nelle antologie. Per un po’ ho subito da lui quasi tutto quello che ha ritenuto di infliggermi, quando stavamo insieme. Come diceva Marina, quando una si fa oggetto, se la prende in culo. Bisogna provarlo, per sapere cosa vuol dire essere svilita quotidianamente, subire quella violenza che non si risolve puramente semplicemente in pugni e schiaffi, ma che è data dal fatto che è Lui che decide cosa farai tu la sera, con chi uscirai e dové andrai. (Se non vai sei la solita scassacazzo che vuole rovinare la serata agli altri e lo fa solo per fare dispetto). È lui che decide quanti soldi si spendono e come, Lui che stabilisce il ritmo di vita, gli orari, le amicizie, Lui che deciderà quando scopare e come. Nel mio caso specifico, poi, la cosa era particolarmente tragica, perché io sono una a diurna» per forza di cose e lui un notturno per eccellenza; allora si scopava tardi, alle tre di notte, dopo la cena con gli amici, il cinema e non so cosa altro, quasi che non si sapesse più che fare a quel punto per non dormire, mentre io crollavo irritata e mezza addormentata e dopo quattro ore mi sarei dovuta alzare, mentre lui sarebbe rimasto a letto fino a mezzogiorno. Avrei dovuto abolire il lavoro e ogni altro interesse. La sessualità concentrata sul cazzo e sulla fica, dove tutto si svolgeva educatamente e con perizia, come il compitino fatto da uno dei bravi della classe, che condensa in poco tempo due o tre idee fondamentali. Poi di nuovo il silenzio. Io mi alzavo, la mattina, lui dormiva, tornavo da scuola, lui era appena uscito. Gli uomini poi, e generalizzo perché è una pretesa che ho trovato in molti, sono talmente convinti del potere taumaturgico del loro cazzo, che usano il sesso strumentalmente, per calmare gli animi dopo una lite, per ricucire un rapporto in crisi, per sollevare le depressioni, per farsi passare il mal di testa o di schiena, per attivare la circolazione, per stare meglio «dopo». Gli attribuiscono un potere a parte, che trascende la loro volontà. Dopo l’idea in sé, hanno scoperto il cazzo in sé». Per loro, essere un cazzo, perde la connotazione negativa. Il cazzo ha una sua esistenza razionale, autonoma, ma anche irrazionale, emotiva, impulsiva (ecco dov’è la loro irrazionalità!), quindi non colgono alcuna contraddizione, per esempio, nel fatto di non aver voglia di parlare e di avere un rapporto a livello razionale, ma di metterti con grande disponibilità il cazzo in mano. Te lo offrono su di un piatto d’argento, come la testa di San Giovanni. La parte viene accarezzata, vezzeggiata, palpita, vive, risponde e partecipa, mentre il tutto se ne sta lì, in silenzio, magari col muso a rimuginare su presunti torti subiti; «torti», che in genere sono stati sussulti di vitalità e di autonomia da parte nostra e recepiti subito come un’offesa alla loro immagine. Pero è ugualmente gratificato, perché essere «un cazzo», appunto, un dato positivo. Io cerco di fare un viaggio faticoso verso la totalità, e mi riesce inaccettabile questo smembramento. Non riesco ad accettare in un rapporto «stabile», che non si abbia voglia di giocare, di scherzare, di parlarsi, amarsi, costruire qualcosa insieme, ma solo di scopare. Quando mi sono messa ad andare per cazzi, volevo, forse, cercare di capire cosa aveva provato Gianni scopando con quella del piano di sotto, con la moglie paraplegica di un suo amico, con una sua zia, con la professoressa di tedesco, e via cazzeggiando. Volevo essere come lui, entrare nel suo ordine di idee e vedere quanto fosse gratificante la scopata emancipatoria. Sono stata soltanto male e adesso sento il bisogno di sfoltire drasticamente. Voglio scopare solo quando sono veramente io a deciderlo. Tornando a Gianni, mi diceva sempre e mi dice tuttora «io ti amo e potremmo stare tanto bene insieme», ma alla parola «amore» secondo me, bisogna dare dei contenuti. Non ha nessun valore dire «ti amo e voglio scopare con te, ma non mi interessa quello che pensi e fai, ma voglio essere libero di fare qualunque cosa, ma voglio essere io a decidere, voglio avere altre donne e tu mi devi essere fedele, altrimenti mi precipiti in un mare di insicurezze, eccetera». Dico: «No grazie, del tuo amore faccio volentieri a meno!». Verbalmente Gianni mi ha sempre amato tanto, ma quando la figlia aveva tre mesi mi ha comunicato che aveva bisogno di ritrovare se stesso, di abbandonare un ambiente di merda e condizionante, di scrivere un libro e che quindi si sarebbe trasferito nella «ville lumiere», l’ombelico del mondo, Parigi. Sapevo bene che era una fuga da una crisi in atto fra noi, che Gianni non si sentiva di discutere e che, anzi, negava. Se ne è andato (come rifiutargli una possibilità di realizzazione?!), lasciandomi addosso tutto il suo amore, sua figlia e ogni responsabilità. Poi è tomato, perché ha deciso che si sarebbe realizzato mettendo in piedi la radio e probabilmente si stuferà presto anche di quella. Mi domando: in tutte queste sue decisioni, in che modo io sono entrata, cosa c’entrava il fatto di amarmi? Siamo tutte concordi nel dire che la sessualità ha per i maschi un suo posto preciso e limitato nel quadro generale dei rapporti sociali. Loro trovano una gratificazione narcisistica in quello che sono, mentre noi ci amiamo poco, non riusciamo a trovare un’identità o la troviamo spesso soltanto in una storia sentimentale, piuttosto che nel lavoro o in altri interessi, anche perché i lavori che ci prospettano sono sempre quelli più noiosi, sottopagati e che perpetuano i nostri ruoli «femminili».Siamo anche concordi nel dire che quando abbiamo cominciato il lavoro alla radio e le cose fra noi compagne andavano bene, eravamo anche riuscite a ridimensionare il rapporto col maschio. Più il nostro «esterno» e debole, più abbiamo bisogno di identificarci con il maschio.
- fascismi
Il nuovo fascismo [2] Pubblichiamo la seconda parte dell’intervento tenuto da Mikkel Bolt Rasmussen durante la presentazione del suo ultimo libro Fasciocapitalismo , pubblicato da Edizioni Malamente con una prefazione di Elia Rosati lo scorso autunno. La presentazione si è tenuta il 14 marzo nella facoltà di Lettere dell’università La Sapienza, come iniziativa di formazione in vista del corteo del 25 aprile di Roma est. Il contributo dell’autore sviluppa la tesi espressa nel libro anche alla luce della rielezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti, avvenuta a novembre 2024, e gli eventi che ne sono seguiti. Dal fascismo al tardo fascismo L’enorme quantità di ordini esecutivi emessi da Donald Trump all’inizio del suo secondo mandato presidenziale rappresenta un tentativo evidente di spostare la lotta di classe. È così che funziona il fascismo: di fronte alla richiesta rivoluzionaria espressa dalle proteste per l’uccisione di George Floyd (ovvero che il capitalismo razziale non può esistere senza la polizia) Trump ha risposto con una contro-richiesta altrettanto radicale: il mantenimento della supremazia bianca. Nel primo mese del suo secondo mandato, Trump ha varato un’ondata di ordini esecutivi che aprono la strada a deportazioni di massa e guerre commerciali, affidando a Elon Musk e alla sua task force DOGE l’attacco alla macchina amministrativa federale per tagliare budget e licenziare personale. Il piano è chiaramente quello di sovvertire il funzionamento ordinario dello Stato: trasformando la politica in un gioco per adulti, un’operazione terribilmente seria e una farsa. Non diversamente da quanto accaduto il 6 gennaio 2021, quando lo sciamano QAnon e migliaia di sostenitori di Trump hanno preso d’assalto Capitol Hill. Siamo in un limbo in cui la politica è ridotta a immagine: lo spettacolo di un colpo di Stato fascista. Il 6 gennaio è stato più una performance che un’insurrezione. Anche il progetto DOGE segue lo stesso schema: in parte spettacolo, in parte tentativo di sovversione istituzionale. Se nel 2021 i manifestanti indossavano i costumi di Braveheart, nel 2025 l’avanguardia si presenta come un gruppo di giovani uomini sorridenti con profili LinkedIn e curriculum.[...] Lo strano amalgama di accelerazionismo fascista online, think tank conservatori e cultura delle startup che Trump sta dirigendo mira a demolire quello che percepiscono come un apparato statale sequestrato da una sinistra impegnata in idee “degenerate” di giustizia sociale e uguaglianza. I politici tardo-fascisti fomentano il conflitto. Una parte significativa della popolazione sostiene ormai la dissoluzione del simulacro democratico e applaude alla violenza razzista e all’aumento del controllo statale. La democrazia, intesa come governo del popolo e autodeterminazione collettiva, si è trasformata in identificazione del popolo con il leader: una caricatura grottesca della <> di Rousseau. La contraddizione costitutiva della democrazia capitalista trova oggi una nuova forma, in cui il popolo, soggetto e oggetto della sovranità, esercita la propria libertà sottomettendosi a un leader grottesco. Il nuovo fascismo, naturalmente, si distingue da quello novecentesco in diversi aspetti. Anzitutto, rifiuta esplicitamente il termine <>. L’Olocausto e la Seconda guerra mondiale hanno tracciato un confine simbolico che rende oggi impensabile l’auto-definizione fascista, almeno nella maggior parte dei contesti politici. [...] Al suo posto proliferano autodefinizioni che mascherano le continuità con i fascismi storici: alt-right, patrioti, value warrior, populisti, nazionalisti. Enzo Traverso ha analizzato con finezza il passaggio dal fascismo storico ai partiti post-fascisti contemporanei, che rifiutano esplicitamente qualsiasi legame con il fascismo o, più ambiguamente, lo evocano in modo allusivo, come fanno Marine Le Pen o Giorgia Meloni. Ma, come osserva Traverso, non si possono comprendere questi fenomeni politici senza confrontarli con il fascismo del Novecento. Il post-fascismo è una forma ibrida: non si oppone alla democrazia come i fascismi tra le due guerre, ma pretende di salvarla. Non si manifesta in movimenti con milizie armate, ma in partiti che partecipano regolarmente alle elezioni. Tuttavia, sul piano ideologico, restano costanti alcuni elementi: nazionalismo, razzismo, xenofobia, culto di un leader forte. Ancora oggi questi ingredienti alimentano un discorso violento che individua un nemico esterno da neutralizzare. Il prefisso post- utilizzato da Traverso descrive efficacemente il carattere disarticolato del nuovo fascismo: meno coerente ideologicamente dei suoi predecessori, non presenta una visione del mondo strutturata come il nazismo. Trump, Orban, Le Pen o Åkesson non sembrano animati da un progetto totalitario sistematico. Il post-fascismo si presenta come una forma più aperta e adattiva, capace di inserirsi nei meccanismi della democrazia rappresentativa. Questi leader non parlano più di <> o di <>, ma si limitano a evocare temi nazionalisti, moralismo reazionario, protezionismo e sovranismo. Trump è di nuovo un caso emblematico. Un agente immobiliare e personaggio televisivo diventato presidente degli Stati Uniti: sgradevole, maleducato anche per gli standard politici statunitensi, commenta freneticamente ogni evento tramite i social, contraddicendosi e mentendo continuamente, spesso senza conoscere affatto ciò di cui parla. Non incarna un’ideologia politica coerente come Mussolini o Hitler, e, sebbene si dica che tenga una copia del Mein Kampf sul comodino, non sembra possedere alcuna conoscenza storica del fascismo europeo né tantomeno cercare di ricostruirlo consapevolmente. Il fascismo di Trump appare meno come un'ideologia coerente e più come un’accozzaglia di battute razziste, ignoranza e comportamenti misogini filtrati attraverso una cultura dell'intrattenimento che eccelle nel kitsch, nell'insensibilità, nell'eccesso e nel ridicolo. Ma è importante ricordare che il fascismo è da sempre caratterizzato come un'ideologia instabile, lo erano anche i vari fascismi del periodo tra le due guerre. Come ideologia politica, il fascismo non ha la stessa consistenza del socialismo, del liberalismo e del conservatorismo, ma è una macchina di polarità che unisce degli elementi apparentemente opposti, proponendosi contemporaneamente come reazionario e moderno. La contraddizione non è quindi niente di nuovo, ma al contrario una caratteristica costitutiva. Adorno definiva il fascismo come <>. Trump e i fascisti del tardo capitalismo non fanno che portare questa caratteristica alle estreme conseguenze. Questa apparente incoerenza non deve però indurci a pensare che siamo di fronte a qualcosa di diverso; quello che vediamo non è un’anomalia, ma l’essenza del fascismo: un’ideologia incoerente che si alimenta di rappresentazioni già circolanti, rielaborandole per produrre uno slittamento ideologico funzionale all’accumulazione del capitale e alla costruzione di capri espiatori. Incapace di affrontare le cause profonde della crisi, cioè l’economia del denaro, il fascismo non può fare altro che fomentare ulteriori conflitti. Trump, come gli altri leader del fascismo capitalista (Bolsonaro, Orban o Inger Støjberg), appare come una parodia del leader fascista, ma al tempo stesso ha dispiegato forze paramilitari nelle strade, esprime dichiarazioni xenofobe, e sta potenziando una già brutale forza di polizia di frontiera, capace di rintracciare e arrestare i migranti su una scala senza precedenti. [...] Controrivoluzione Nonostante tutto questo, le rivolte continuano. La vecchia talpa di Marx è riemersa e sta scavando. Proprio per questo il capitale sta mobilitando i settori più reazionari della grande e piccola borghesia. Negli Stati Uniti, Trump è un mezzo per questo spostamento, dove parti della classe capitalista americana e della classe media bianca reazionaria formano un'alleanza per ostacolare la trasformazione radicale che i vari movimenti di protesta insieme potenzia rappresentano. Per una classe capitalista divisa e costretta a cambiare strategia per fermare le <> Trump è un male necessario. La bizzarra personalità che Trump ha espresso nei reality TV si è dimostrata ideale per collegare il movimento alt-right, l'accelerazionismo fascista e i think tank conservatori con la piccola borghesia in un ultranazionalismo finanziato da ampi settori del capitale statunitense, come le big tech o le aziende che forniscono il complesso militare statale. Nel suo testo del 1940 La controrivoluzione fascista , il comunista tedesco Karl Korsch citava lo scrittore italiano Ignazio Silone: <>. La funzione del fascismo nel capitalismo in crisi è quella di bloccare e far deragliare una potenziale rivoluzione socio-politica. Il fascismo è reazionario, è un tentativo di sostituire lo smantellamento rivoluzionario del capitalismo. È, come scrisse Walter Benjamin, amico di Korsch, una pseudo-rivoluzione, una rivoluzione contro la rivoluzione, che prende il posto di una rivoluzione mancante: <>. Il progetto MAGA di Trump è una controrivoluzione per preservare un'accumulazione di capitale che appare indebolita e impedire l'emergere di una vera alternativa. La resistenza negli Stati Uniti non è mancata: dopo la crisi finanziaria abbiamo avuto le proteste studentesche in California nel 2009, il movimento Occupy nel 2011 e Black Lives Matter nel 2013-2014, la rivolta di George Floyd nel 2020 e la lotta in corso per difendere la foresta di Atlanta. Insieme, rappresentano la sfida più completa all'ordine dominante negli Stati Uniti dalla fine degli anni Sessanta. E a differenza di quel periodo, le proteste si svolgono sullo sfondo di un prolungato rallentamento economico. La crisi finanziaria ha messo a nudo un <> di quello che viene definito in modo fuorviante come neoliberismo che durava da quarant’anni. Questo lungo atterraggio di fortuna fornisce il contesto per il nuovo fascismo. Il sogno della borghesia di creare plusvalore senza lavoro è fallito, e ora è necessario affidare la <> ai fascisti, nella speranza che possano far fermare la fine dell'economia monetaria. La risposta del capitale alla decolonizzazione e alla resistenza dei lavoratori negli anni Sessanta è stata quella di ridurre i costi di produzione, ma ciò ha creato un'economia mondiale instabile con una concorrenza feroce, che sposta costantemente la produzione alla ricerca di salari più bassi. Il risultato è stato una sovrapproduzione e un calo dei salari, che fino al 2007- 2008 sono stati nascosti da una circolazione sfrenata di denaro e da bolle creditizie in crescita esponenziale, agevolate dalle istituzioni economiche statali per coprire il calo della domanda. Quando le bolle sono scoppiate, le contraddizioni dell'economia globale sono diventate improvvisamente evidenti. È questo lento deroute, che è diventato improvvisamente concreto con la crisi finanziaria, il contesto in cui Trump si sta muovendo. Trump è stato l'unico politico che ha affrontato concretamente l’erosione dell'economia, rivelandola nelle sue campagne elettorali. In questo modo, Trump è stato una ribellione contro il consenso politico negli Stati Uniti: Hillary Clinton, Bill Clinton e Kamala Harris rappresentavano la convinzione che fosse possibile andare avanti ancora per un po', lui invece ha riconosciuto la crisi. Trump riconosce la crisi, ma contemporaneamente elimina la lotta di classe e la sostituisce con una narrazione ideologica della vera "America". In questo modo, diventa una rivolta contro la rivolta che sta arrivando. Trump divide le <>: i bianchi americani contro i <>, aumentando la retorica razzista e la violenza che l’accompagna. Come scrivono Korsch e Benjamin, una controrivoluzione fascista è sempre conservatrice del capitale. Essa crea un’immagine di una comunità minacciata forze esterne sovversive che deve essere protetta. Il fascismo ha quindi come effetto un cambiamento in cui i problemi politico-economici <> sono "colpa" di qualcuno, in cui gli sviluppi economici strutturali sono percepiti come il risultato delle azioni o della presenza di gruppi specifici. Nel caso di Trump, ovviamente, la colpa ricade sui messicani, i canadesi, gli afroamericani, i cinesi, gli antifascisti e gli esponenti della sinistra woke.[...] Nella Germania nazista degli anni '30 i nemici erano gli ebrei, ma anche i sinti, i comunisti e altri <> che minacciavano la razza ariana. Il punto è che il fascismo sostituisce sempre la lotta di classe con l'esclusione razziale. Le contraddizioni dell'economia capitalista vengono trasferite su una figura concreta che viene a incarnare la crisi. Il dominio astratto del capitale viene tradotto nella lotta contro i nemici stranieri. I rapporti di produzione capitalistici e gli antagonismi di classe vengono così mutati in una pseudo-resistenza che assume la forma dell'esclusione dello straniero, in Europa oggi soprattutto dei musulmani e delle persone provenienti dall'Africa e dal Medio Oriente, negli Stati Uniti degli afroamericani e dei latinos. Nuova normalità Il fascismo non è qualcosa di radicalmente diverso dalla democrazia borghese. Il fascismo non viene dall'esterno, ma nasce come soluzione di emergenza all'interno del capitalismo in una situazione di crisi economica, implosione politica e minacciato da una resistenza che nega il capitale. Questo è uno dei punti cardine dell'analisi di Benjamin e Korsch sul fascismo come controrivoluzione: mantenere i rapporti di produzione capitalistici, ma sospendendo le regole politico-giuridiche e usando la polizia per terrorizzare le <>. Il fascismo è in questo modo <>. Come ha detto Korsch in una critica a Marx: <>. Oggi il fascismo è la nuova normalità. Note [1] Sul rebranding del fascismo cfr: Paul Gilroy, Agonistic Belonging: The Banality of Good, the “Alt Right” and the Need for Sympathy, Open Cultural Studies, no. 3, 2019. [2] Enzo Traverso, Les nouveaux visages du fascisme: Conversation avec Régis Meyran, Textuel, Paris 2017. Trad. It. I nuovi volti del fascismo, traduzione di Gianfranco Morosato, Ombrecorte, Bologna 2017. [3] Theodor W. Adorno, Aspekte des neuen Rechtsradikalismus. Ein Vortrag, 1967. Trad. It Aspetti del nuovo radicalismo di Destra, traduzione di Silvia Rodeschini, Marsilio, Venezia 2020. [4] Karl Korsch, The Fascist Counter-Revolution, Living Marxism, Volume 5, Numero 2, 1940 pp. 29-37. [5] Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936. Trad. It. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, traduzione di Enrico Filippini, Einaudi, Torino 1966. [6] Moishe Postone, Anti-Semitism and National Socialism: Notes on the German Reaction to “Holocaust”, New German Critique, no. 1, 1980. [7] Karl Korsch, op.cit. Mikkel Bolt Rasmussen insegna presso il dipartimento di Arte e studi culturali dell’università di Copenaghen, è autore di molti saggi, tradotti in italiano La controrivoluzione di Trump (Agenzia X, 2019) e Dopo il grande rifiuto (Agenzia X, 2021).
- konnektor
Gli Stati Uniti e il crollo costituzionale [1] Roberto Gelini Trump e la sua cerchia di fedelissimi stanno mettendo in discussione le basi della Costituzione Americana che ha tenuto salda la società americana. Myrdal nel 1944 affermava che “il credo americano” si basava sulla convinzione che gli Stati Uniti garantissero la libertà per tutti. Fino ad oggi, l’unica cosa che accomunava Repubblicani e Democratici era il rispetto di questo patto per lo meno nella sua narrativa e in chiave antisovietica. Per decenni è stata anche la chiave che ha visto gli Stati Uniti egemoni su scala mondiale come difensori della democrazia e quindi della libertà. Aziz Rana ci fa riflettere su un nodo cruciale: Trump non sta cambiando una Costituzione uguale a se stessa dal 1787 ma sta, invece, ripristinando quelle condizioni illiberali insite nella Costituzione stessa e superate con la giurisprudenza dopo la seconda guerra mondiale. Non sarà che chiunque abbia basato le sue sicurezze sulla Costituzione americana forse ha fatto un errore di valutazione? Pubblichiamo questo interessante e corposo contributo del professore dell’Università di Boston in due puntate uscito per Sidecar il blog di New Left Review Per gli esperti di diritto costituzionale, il ritorno al potere di Trump è stato un'esperienza vertiginosa. La sistematica violazione delle procedure legali e delle norme costituzionali di lunga data è andata avanti più velocemente di quanto si possa tenere il passo, con il risultato di oltre un centinaio di cause legali e non solo. Trump ha emesso una marea di ordini esecutivi che violano esplicitamente la legge del Congresso e il testo scritto della Costituzione, su tutto, dalla negazione della cittadinanza per diritto di nascita, alla repressione degli sforzi di inclusione basati sulla razza, sul genere e sull'orientamento sessuale, fino alla distruzione di agenzie governative autorizzate dalla legge. Allo stesso tempo, Elon Musk si è vantato di perseguire un “acquisizione aziendale” del governo federale, con l'obiettivo – attraverso licenziamenti di massa, la vendita di beni del governo (comprese “443 proprietà federali”, potenzialmente insieme a innumerevoli opere d'arte pubblica) e lo smantellamento di servizi vitali – di privatizzare “tutto ciò che può essere ragionevolmente privatizzato”: il tutto in violazione dei divieti costituzionali e del Congresso che vietano ai privati cittadini, non confermati dal Senato, di svolgere il lavoro di alti funzionari governativi. Questi sviluppi hanno portato alcuni commentatori a tracciare analogie tra l'esperienza americana e quella della Russia post-sovietica negli anni '90. Quel periodo ha comportato la privatizzazione quasi completa dello stato russo e una massiccia redistribuzione della ricchezza nelle mani di un piccolo numero di cleptocrati, esenti da qualsiasi sanzione tranne quella imposta dalla loro rivalità reciproca. Ma forse esiste un legame più profondo con la storia russa: il progetto costituzionale statunitense nel XX secolo è stato forgiato e ha acquisito significato grazie al suo antagonismo con l'Unione Sovietica. I termini fondamentali americani, che collegano il liberalismo razziale a uno stato sociale limitato, si sono consolidati nel corso di tre decenni critici, dal New Deal degli anni Trenta alla Seconda Guerra Mondiale, alla Guerra Fredda e alla rivoluzione dei diritti civili degli anni Sessanta. Oggi l'Unione Sovietica è scomparsa da tempo. E ora Trump (un miliardario eletto), Musk (un miliardario non eletto e molto più ricco) e una piccola cerchia di fedelissimi stanno perseguendo il crollo di quel modello costituzionale americano concorrente. Non è chiaro cosa comporterà ma altera fondamentalmente il terreno su cui opera la sinistra statunitense e richiederà un tipo di politica di opposizione che il paese non vede dagli anni in cui è salito al potere Franklin D. Roosevelt. Per capire cosa sta accadendo, è necessario comprendere il contenuto dell' ordine costituzionale statunitense. Questo include una serie di componenti ideologiche e istituzionali, in linea con ciò che il sociologo svedese Gunnar Myrdal nel 1944 ha notoriamente definito il “credo americano”, l'idea che gli Stati Uniti rappresentassero la promessa di pari libertà per tutti. In un periodo di rivalità globale con l'Unione Sovietica per la decolonizzazione del mondo, le élite nazionali si sono esplicitamente schierate a favore di questo quadro costituzionale basato su un credo. I suoi elementi costitutivi comprendevano una lettura della Costituzione come impegnata nel costante miglioramento della disuguaglianza razziale basata sui principi della non discriminazione; una visione antitotalitaria delle libertà civili e dei diritti di parola; una difesa del capitalismo di mercato, parzialmente coperta da uno stato sociale e regolamentare costituzionalmente radicato; un abbraccio dei controlli e degli equilibri istituzionali, con i tribunali federali, in particolare la Corte Suprema, come arbitro finale della legge; e un impegno per la supremazia globale degli Stati Uniti organizzata attraverso un forte potere presidenziale. Questa iterazione del costituzionalismo americano aveva un volto sia interno che internazionale. A livello nazionale, ha creato una serie di pratiche istituzionali e culturali condivise. Repubblicani e democratici si consideravano i custodi congiunti di un progetto egemonico americano contro l'Unione Sovietica. I funzionari potevano brindare ai loro avversari elettorali al di là delle divisioni partitiche, perché al di là delle loro differenze interne, sia i politici che i giudici avevano attinto a piene mani dall'eccezionalismo americano. Qualunque fosse l'esito delle elezioni, entrambe le parti erano legate, soprattutto, da una comune narrativa nazionale. Questa narrativa, rafforzata dalla sofferenza e dalla vittoria durante la Seconda Guerra Mondiale e messa alla prova dalla continua rivalità con i sovietici, si basava sulla genialità dei fondatori della costituzione, sulla qualità quasi ideale delle istituzioni americane e sul progresso interno della società americana. A livello internazionale, questa narrativa ha anche permesso agli Stati Uniti di proiettare la propria autorità sulla scena globale, diffondendo la mitologia secondo cui il loro impegno costituzionale per la libertà e l'uguaglianza erano interessi condivisi da tutti nel mondo. Il risultato è stato un ordine americano del dopoguerra caratterizzato da due elementi interconnessi: l'attenzione alla legalità basata sulle regole e la continua defezione americana da tali regole, che si tratti del Vietnam o di Gaza oggi. Le élite nazionali vedevano le istituzioni multilaterali create dagli Stati Uniti come espressione dei valori costituzionali americani e quindi come fondamentali da sostenere. Ma ritenevano anche che la sicurezza globale richiedesse che gli Stati Uniti fungessero da sostegno internazionale. In effetti, questo ha creato un continuo gioco di equilibrio tra la promozione dello stato di diritto e la sua disobbedienza attraverso azioni e interventi militari, segreti e palesi. Le violazioni che ne derivavano venivano giustificate come necessarie per preservare la stabilità collettiva, senza curarsi del fatto che le cose sembravano molto diverse per coloro che si trovavano nel mirino, specialmente nel mondo precedentemente colonizzato. Il fatto che un distinto ordine costituzionale statunitense del ventesimo secolo sia emerso in parallelo con l'Unione Sovietica viene spesso omesso, grazie in parte alle caratteristiche peculiari associate alle istituzioni americane e alla sua narrativa nazionale. Tanto per cominciare, la Costituzione degli Stati Uniti è nota per essere forse la più difficile da modificare al mondo. Le modifiche costituzionali non avvengono in genere attraverso alterazioni formali del documento del 1787, e tanto meno attraverso la sua sostituzione totale, ma attraverso cambiamenti nelle interpretazioni giudiziarie del testo esistente, insieme all'attuazione di atti legislativi storici che stabiliscono nuove condizioni per la vita collettiva. Infatti, l'ordine attuale è stato consolidato attraverso l'approvazione di leggi chiave della metà del secolo – il Social Security Act, il National Labor Relations Act, il Civil Rights Act, il Voting Rights Act, il Medicare Act – in concomitanza con le sentenze della Corte Suprema che ne hanno confermato la costituzionalità. Insieme, il Congresso e i tribunali hanno rotto sostanzialmente con il precedente ordine razziale ed economico (quello del 1787 ndt). Eppure, ciò significava che non c'era una Costituzione del XX secolo riscritta, separata da una precedente. Allo stesso tempo, sentimento comune era che questi cambiamenti giuridici rappresentavano la realizzazione di un'essenza nazionale intrinsecamente liberale. In verità, il consolidamento di questo ordine era stato un prodotto contingente degli sviluppi nazionali e globali della metà del XX secolo che divergevano notevolmente dalle strutture consolidate di supremazia esplicita dei coloni bianchi negli Stati Uniti. Ma questa realtà non si adattava alla narrativa nazionale emergente, che presentava gli Stati Uniti come impegnati, sin dalla loro fondazione, nei principi egualitari della Dichiarazione di Indipendenza, e quindi su un percorso ineluttabile verso questo nuovo modello. Durante i suoi primi due mesi di ritorno in carica, Trump ha esercitato una pressione esistenziale su ogni elemento di questo patto del ventesimo secolo. Mentre i suoi attacchi alla “diversità, equità e inclusione” (DEI) utilizzano il linguaggio ufficiale dell'antidiscriminazione, i suoi ordini esecutivi e le minacce del Dipartimento di Giustizia vanno oltre la semplice presentazione delle maggioranze bianche come i veri gruppi bisognosi di protezione. Rifiutano la premessa liberale della Guerra Fredda dell'inclusione razziale come pietra angolare costituzionale. Questo rifiuto della presenza non bianca è ciò che è in gioco culturalmente e legalmente quando alti funzionari neri vengono licenziati, università e aziende vengono attaccate per i loro sforzi di effettiva de-segregazione e persino i siti web del governo vengono ripuliti dai riferimenti a donne e minoranze razziali. Dagli anni Sessanta, il liberalismo razziale è stato forse la componente centrale che ha legittimato la vita costituzionale americana. Per molti americani, bianchi e non bianchi, lo sradicamento legale della segregazione è stata la prova definitiva della promessa egualitaria di fondo del Paese. Sentenze come quella della causa Brown contro il Board of Education, che nel 1954 dichiarò che il principio “separati ma uguali” era intrinsecamente iniquo, convinsero sia le élite che l'opinione pubblica che le istituzioni statunitensi, in primis la Corte Suprema, potevano guidare la barca verso il progresso. All'estero, questi stessi cambiamenti furono utilizzati per sottolineare la differenza tra l'egemonia americana e il vecchio dominio razziale europeo, e quindi la validità della leadership statunitense su un mondo in gran parte non bianco. L'attacco di Trump all'USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale creata per contrastare l'influenza dell'Unione Sovietica nel mondo ndt) è significativo in questo contesto, perché l'agenzia era un'istituzione fondamentale della Guerra Fredda, fondata nel 1961, che collegava la storia interna americana del progresso razziale a una storia globale di prosperità materiale per tutti guidata dagli Stati Uniti. La sua distruzione, insieme alla minaccia di ritiro dagli organismi multilaterali che gli stessi Stati Uniti hanno istituito, è una sfida diretta al volto globale del progetto costituzionale americano. Tutto ciò rende chiaro che non è solo il liberalismo razziale ad essere sotto attacco. I funzionari di Trump stanno scatenando il potere presidenziale in modi che sfruttano le tensioni interne dell'ordine per far crollare le disposizioni costituzionali fondamentali. Lo possiamo vedere con gli sforzi di Trump di trattenere fondi, rimuovere autorizzazioni di sicurezza, vietare discorsi “pro-diversità” o deportare e potenzialmente perseguire individui per protesta. Naturalmente, lo stesso ordine della metà del XX secolo è sempre stato caratterizzato da tattiche maccartiste e dal mancato rispetto di ideali inclusivi, sia attraverso l'internamento dei giapponesi che attraverso le violazioni dei diritti durante la “guerra al terrorismo”. Eppure, dopo la fine della paura rossa degli anni '50, il maccartismo, come progetto per alimentare la paura generalizzata, fu trattato dalle élite politiche come essenzialmente “antiamericano” e incostituzionale. Tali pratiche repressive non sono mai scomparse, ma erano tipicamente limitate a gruppi sfavoriti relativamente contenuti, come i neri radicali o i critici arabi e musulmani della politica estera statunitense (in particolare quelli di origine palestinese). In questo modo, il sostegno di Biden alla repressione delle proteste contro la guerra a Gaza era in linea con questa storia movimentata del periodo post-Red Scare. Al contrario, l'amministrazione Trump, aiutata dalle disposizioni di sicurezza inattive dell'era McCarthy e persino del 1790, ha iniziato a utilizzare l'attivismo legato alla Palestina per perseguire una repressione radicale della libertà di parola dei non cittadini. Inoltre, sta trattando quell'attivismo, così come i programmi di studio dei campus e le pratiche istituzionali relative al “DEI”, come pretesti per un attacco senza precedenti all'autogoverno interno e alla libertà accademica delle università. Questo assalto fa parte di un attacco emergente alla più ampia vita organizzativa del centro e della sinistra americana, che ora prende di mira gli studi legali allineati ai democratici e che potrebbe presto includere gruppi della società civile e piattaforme di raccolta fondi. L'uso del potere presidenziale unilaterale da parte dei funzionari di Trump per smantellare lo stato amministrativo, potenzialmente insieme alle principali conquiste del welfare sociale della metà del XX secolo, funziona in modo simile. Spinge verso l'instabilità nel rapporto costituzionale stabilito tra capitalismo e regolamentazione, potere presidenziale e potere giudiziario, in modi che rendono sempre più impossibile il mantenimento del vecchio ordine. La politica costituzionale americana ha sempre mostrato un dualismo classico. Il patto della metà del secolo era definito sia da una Corte Suprema imperiale che da una presidenza imperiale. In effetti, l'impegno condiviso dell'élite per il dominio globale americano significava che i tribunali si sottomettevano al presidente in materia di sicurezza nazionale, consentendo ai presidenti di godere di un'autorità notevolmente coercitiva all'estero o al confine e di operare in ambito estero come legislatori quasi incontrollati. Tale deferenza era il prodotto di una serie di decisioni giudiziarie risalenti alla seconda guerra mondiale e alla guerra fredda, in cui i giudici si astennero in gran parte dall'interrogare le pratiche di sicurezza, come le deportazioni comuniste o l'inizio della guerra del Vietnam. Ciò non significava che i tribunali non controllassero mai l'azione esecutiva negli affari esteri, ma significava che quei momenti di costrizione operavano in un contesto di permissivismo generale. Questa deferenza “là fuori” si combinava con l'esercizio da parte dei tribunali di ampi controlli su questioni considerate interne, al punto che la magistratura federale fungeva effettivamente da organo decisionale le cui decisioni finali nei confronti degli altri rami del governo venivano accettate senza discutere. Questo equilibrio persisteva perché sia i tribunali che i presidenti accettavano in gran parte quella divisione di base tra estero e interno. Ma man mano che la magistratura federale statunitense diventava sempre più conservatrice, il rapporto tra presidenza e magistratura assumeva una nuova dimensione. I tribunali nazionali iniziarono a utilizzare l'ampia autorità politica per ridurre la regolamentazione economica, e lo fecero ampliando il potere presidenziale anche a livello nazionale. Per decenni, gli avvocati conservatori hanno sviluppato argomentazioni legali sul perché le agenzie create per legge rappresentassero una minaccia per un “esecutivo unitario”, ovvero l'autorità interna del presidente di decidere cosa accade all'interno del ramo esecutivo, indipendentemente dalle direttive legislative. Le recenti decisioni dei tribunali potrebbero non aver smantellato le agenzie istituite. Ma hanno fatto due cose contemporaneamente: hanno dato ai giudici più autorità sui processi e sulle decisioni delle agenzie, minando i risultati normativi di lunga data. E hanno messo in discussione la possibilità che una legislazione in stile New Deal possa limitare il potere presidenziale unilaterale sulla funzione pubblica. In effetti, la giurisprudenza conservatrice stava minando silenziosamente le fondamenta dello stato amministrativo della metà del secolo, dando ai giudici di destra un maggiore potere di indebolire le agenzie e ai futuri presidenti di destra un maggiore potere di fare lo stesso. E così, proprio come in altri ambiti, gli ordini esecutivi di Trump, che smantellano unilateralmente le istituzioni federali a prescindere dalla legge del Congresso o dalle ingiunzioni dei tribunali, sfruttano le instabilità presenti nel sistema costituzionale. Come quelli intorno a Trump ben sanno, una volta che le agenzie vengono chiuse, il personale licenziato e gli edifici venduti, sarà estremamente difficile ricostituire il precedente quadro amministrativo. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da attacchi giudiziari conservatori di poco conto alle agenzie federali, aiutati dall'applicazione frammentaria delle teorie del potere esecutivo. Ora, Trump e il suo team stanno correndo con quelle teorie, applicando la mazza di un presidente imperiale senza freni – familiare dagli interventi all'estero – al funzionamento di routine della politica interna. Questo è l'autoritarismo globale che arriva a casa. Aziz Rana è professore di diritto alla Boston College Law School. I suoi studi si concentrano sul diritto costituzionale americano e sullo sviluppo politico. In particolare, analizza come le mutevoli nozioni di razza, cittadinanza e impero abbiano plasmato l'identità giuridica e politica fin dalla sua fondazione. Nel libro The Two Faces of American Freedom (Harvard University Press), colloca l'esperienza americana all'interno della storia globale del colonialismo, esaminando il rapporto intrecciato nella pratica costituzionale americana tra le interpretazioni interne della libertà e i progetti esterni di potere ed espansione. Il libro di prossima uscita, The Constitutional Bind: How Americans Came to Idolize a Document that Fails Them (University of Chicago Press, 2024), esplora l'emergere moderno della venerazione costituzionale nel XX secolo, soprattutto sullo sfondo della crescente autorità globale americana, e come tale venerazione abbia influenzato i confini della politica popolare.












