top of page

137 risultati trovati con una ricerca vuota

  • selfie da zemrude

    # 4 Cronache del Boomernauta ed. Mimesis: letture in attesa delle pubblicazioni a puntate settimanali del libro di Giorgio Griziotti Nei primi giorni di novembre 2025 cominceranno su AhidaOnline | Selfie da Zemrude le pubblicazioni a puntate settimanali del libro di Giorgio Griziotti – (per gentile concessione di) ed. Mimesis - Cronache del Boomernauta. Questo è l'ultimo dei quattro inviti a seguire la pubblicazione ,con letture significative del libroin oggetto. Buon ascolto. Hanno collaborato: Giorgio Griziotti (autore del libro), Martino Saccani (illustratore), Franco Oriolo (consulente musicale), Jason Mc Gimsey (consulente creativo), Giuliano Spagnul (Consulente mo(n)di del fantastico), Tiziana Saccani (revisore testi). Letture: Corrado Gambi (attore/regista teatrale). Musica: Tonnelata Humana composta, prodotta ed eseguita da Gaspare Sammartano -  ⁠ https://sammartano.bandcamp.com/⁠  . Coordinamento editoriale: Maurizio 'gibo' Gibertini https://www.ahidaonline.com/podcast/episode/293d71d4/4-cronache-del-boomernauta-ed-mimesis-letture-in-attesa-delle-pubblicazioni-a-puntate-settimanali-del-libro-di-giorgio-griziotti

  • fascismi

    # 2 I nuovi fascismi e la riconfigurazione della controrivoluzione globale   Il presente testo è stato originariamente redatto come materiale per il workshop del collettivo <>, tenutosi nel marzo 2025 presso il Sitio de Memoria Providencia di Antofagasta (Cile) e intitolato Guerra, crisi e fascismi. La versione qui proposta, pubblicata originariamente sul sito del collettivo, include alcune modifiche apportate successivamente, alla luce delle discussioni e delle interazioni avute con i partecipanti e i collaboratori. Attraverso la lettura di diversi autori, il testo propone un’analisi articolata sul fenomeno del fascismo. Come sottolineano gli autori stessi, alcuni passaggi e fasi di tale riflessione risultano complessi e sfaccettati, una caratteristica dovuta alla natura stessa dell'oggetto di indagine, sempre più camaleontico e sfuggente. Nonostante ciò, gli autori riconoscono la necessità di approfondire l’analisi delle nuove forme di fascismo facendo chiarezza su come esse rappresentino oggi uno degli strumenti principali attraverso cui il capitale tenta di salvarsi dalla crisi da esso stesso generata. Pubblichiamo il testo a puntate per gentile concessione del collettivo <> e della redazioni di Ill Will  dove è apparso l’articolo proposto. Di seguito la seconda puntata. Al seguente link è possibile leggere il primo testo. I fascismi nell'era del dominio totale del capitale.  Se il primo fascismo ha assunto la forma di un movimento di massa di carattere nazionalista e statalista, inerente a una particolare forma di razzismo biologico, che aveva come obiettivo la distruzione del proletariato e dei settori dissidenti, lo ha fatto perché è emerso in una fase particolare dello sviluppo del capitalismo che ha portato alla definizione di tali caratteristiche in base alle sue esigenze: il passaggio dal dominio formale a quello reale. Cioè il superamento delle forme di produzione precapitalistiche mantenute fino ad allora intatte, solo formalmente in possesso del capitale, fondando su di esse un nuovo modo di produzione specificamente capitalistico. Il passaggio a un nuovo regime di accumulazione caratterizzato dal dominio reale del lavoro sotto il capitale segna quello che per alcuni è una rottura nella periodizzazione della storia del capitale che possiamo collocare durante i decenni delle guerre mondiali, è a partire da questo frangente che assistiamo a una progressiva e incompiuta trasformazione della totalità sociale a immagine e somiglianza del capitale. Lo sviluppo e l'approfondimento in corso del dominio del capitale hanno, tra le altre cose, come caratteristiche determinanti, la decomposizione del proletariato e la decentralizzazione del lavoro, in stretta relazione con il rallentamento dell'accumulazione capitalistica su scala globale, il processo di deindustrializzazione delle principali economie mondiali e la generalizzazione della crisi ecologica.  Se dobbiamo riflettere sui termini con cui si esprime il capitalismo nella sua fase attuale, un nuovo fascismo teorico non sarebbe necessariamente sviluppista , poiché i processi di modernizzazione tardiva guidati dai fascismi e dal socialismo di Stato hanno già avuto luogo in diverse parti del mondo. L'emigrazione dalle campagne alle città che ha alimentato l'ultima grande ondata di industrializzazione (1950-1973), —fornendo una fonte importante e costante di manodopera a basso costo—, ciò non può essere ripetuto, poiché la diminuzione della massa e del valore del lavoro, attraverso l'espulsione dei lavoratori disoccupati dalle città durante il declino dell'industria nazionale, non si è tradotta in un ritorno alla campagna, ma in un aumento tendenziale e in una stagnazione della popolazione marginale diventata superflua alla produzione. È stata proprio questa ondata di industrializzazione a cancellare il posto che occupava il lavoro agricolo nella società capitalista, ancora prominente nel mondo durante la prima metà del secolo scorso.  Lo sviluppo tecnico-produttivo del capitalismo durante la sua fase di dominio reale ha comportato il progressivo smantellamento delle industrie nazionali dei paesi già industrializzati e il loro trasferimento nei paesi del Sud del mondo, in un processo denominato deindustrializzazione, nonché la riduzione della massa dei lavoratori e la loro sostituzione con le macchine in diversi settori della produzione, di pari passo con i progressi richiesti dalla tecnicizzazione capitalistica automatizzata. Nel caso delle industrie non delocalizzabili e necessarie, invece, la manodopera più economica è stata fornita dalle migrazioni di massa. Tutto ciò ha alterato in modo irreversibile la composizione organica del capitale (il rapporto tra capitale costante e capitale variabile). Non avendo dove trasferirsi al di fuori delle città, la massa dei lavoratori sfollati dall'industria è entrata a far parte di una popolazione in surplus rispetto ai meccanismi del capitale, sotto forma di disoccupati cronici e lavoratori sottoccupati, che non guadagnano abbastanza per sopravvivere. Il declino dell'industria nazionale ha portato a una crescita del settore dei servizi a basso salario, mentre il perfezionamento tecnico-produttivo ha aumentato la massa di merci a livello globale a scapito della quantità di forza lavoro necessaria per la loro produzione. «Il risultato generale è che l'accumulo di ricchezza si produce insieme a un accumulo di povertà». Contrariamente agli anni d'oro del capitalismo che seguirono la seconda guerra mondiale, caratterizzati da un alto tasso di occupazione, una spesa pubblica significativa e un rapido processo di industrializzazione, che a loro volta permisero la "conquista democratica" di alti salari e benefici lavorativi, la caratteristica centrale dello sviluppo capitalistico oggi è il processo di deindustrializzazione. Un processo che ha luogo nell'attuale crisi strutturale del capitale che, come abbiamo già anticipato, ha come fenomeni derivati la perdita dell'egemonia storica della lotta dei lavoratori dell'industria manifatturiera, come sezione del proletariato, e con essa la crisi dell'affermazione positiva del lavoro. Un aspetto da considerare nella deindustrializzazione è lo scarso interesse delle potenze a rafforzare la ricerca nel campo della meccanica e dell'industria, essendo questi settori legati a istituzioni specifiche —o a gruppi specifici, come la cosiddetta "classe vettorialista", secondo MacKenzie Wark.  Questo "disinteresse" per un programma di industrializzazione ha avuto conseguenze, come ad esempio, la crescita del settore dei servizi e del welfare (dopo la sua recente privatizzazione) rispetto a quello agricolo e industriale. Da un lato, le aziende di fast food, spedizioni e trasporti traggono vantaggio dall'instabilità lavorativa e dal declino dell'industria nazionale, riducendo al minimo indispensabile la massa e il valore del lavoro vivo, mentre dall'altro lato la massa di lavoratrici migranti e razzializzate risponde alla crescente domanda di lavoro socialmente riproduttivo, occupandosi dei servizi di pulizia, della cura dei bambini, degli anziani, dei malati e del lavoro sessuale, sostituendo la "donna nativa" integrata nel lavoro produttivo. Nel frattempo, lo sviluppo di politiche di liberalizzazione economica, inizialmente applicate durante la dittatura di Pinochet in Cile e successivamente estese a gran parte del mondo, ha facilitato la riduzione dell'industria nazionale e della spesa pubblica, in Europa e negli Stati Uniti, a partire dalla metà degli anni Settanta. Ciò ha permesso il trasferimento di fabbriche di settori specifici, come la microelettronica, verso paesi con manodopera a basso costo —rispetto a quella dei paesi industrializzati—, dove poche fabbriche impiegano una grande massa di lavoratori per soddisfare il consumo globale di tali tecnologie.  Tutto ciò, sebbene sia stato la fonte della rapida crescita di alcuni paesi asiatici come la Cina - tra gli anni Ottanta e l'inizio di questo secolo - ha generato, in questi paesi,  l’accelerazione del processo di automazione del lavoro negli ultimi due decenni, il che ha portato ad effetti simili a quelli dei paesi post- industrializzati dell'Occidente. Ciò significa la diffusione in tutto il mondo della tendenza crescente alla produzione di popolazione in eccedenza, che è precaria al punto da raggiungere la povertà, la riduzione degli "aiuti statali", l'aumento dei prezzi delle merci e l'instabilità lavorativa, causando una crisi generale della riproduzione sociale.  I principali paesi capitalisti hanno registrato un calo senza precedenti dei livelli di occupazione industriale. Negli ultimi trent'anni, l'occupazione nel settore manifatturiero è diminuita del 50% in percentuale rispetto all'occupazione totale in questi paesi. Anche paesi di recente "industrializzazione" come la Corea del Sud e Taiwan hanno visto diminuire i loro livelli relativi di occupazione industriale negli ultimi due decenni. Allo stesso tempo, il numero di lavoratori dei servizi sottopagati e di abitanti delle baraccopoli che lavorano nel settore informale è aumentato, rappresentando l'unica opzione rimasta per coloro che sono diventati superflui per le esigenze delle industrie in declino. Ma il cambiamento principale, generato dall'espansione del dominio totale della macchina capitalista, è avvenuto a livello psicologico e antropologico. Un cambiamento radicale nell'essere umano, nella sua concezione come tale, nel suo posto nel mondo e nel suo rapporto con l'ambiente, sia umano che ecosistemico a livello di biosfera. La saturazione di stimoli informativi e l'accelerazione dei ritmi di vita impediscono di elaborare la realtà al punto da renderla incomprensibile; la crisi capitalista che si esprime nell'attuale collasso della civiltà ha travolto la   nostra psiche, configurando un «crollo patologico dell'organismo psicosociale». Questo crollo ha prodotto un soggetto nostalgico, che non solo rimpiange l'estetica, i valori e le tradizioni del passato, ma, soprattutto, desidera il controllo sulla propria vita, sulla propria capacità di reazione, sulla propria produzione psichica e sulla propria riproduzione sociale. Il costante stato "psicotico" in cui è coinvolto lo porta ad essere profondamente disorientato, separato dal presente, da ciò che accade. Da qui deriva la differenza più evidente tra il fascismo originario e i nuovi fascismi. La potenza giovanile del fascismo italiano, che si credeva in grado di dominare tutto attraverso la guerra, è stata sostituita da un soggetto senile e impotente, in profonda crisi di panico per il declino della società capitalista, per il quale lui come individuo era incapace di agire. La guerra e i processi di sterminio selettivo furono "colpi di coda", un tentativo disperato di uscire dalla crisi capitalista e psicosociale dell'umanità, dove il soggetto delega le sue decisioni a uomini decisi che incarnano la forma stereotipata dell'uomo finanziariamente di successo e capace di tutto. Qualcuno che incarna il suo malessere, che lo spinge verso una via d'uscita. Ma tale percezione è falsa, l'unica via d'uscita che verrà loro offerta è una psicosi maggiore, un atto di suicidio-omicidio collettivo a cui sembriamo assistere tutti. Il capitalismo non può invertire il suo sviluppo, l'unica cosa che gli resta è accelerare o tentare invano di rallentarlo.  L'energia giovanile di cui godeva è soppressa dall'iperstimolazione semiotica. Incapace di elaborare i flussi informativi della rete, il corpo organico è stanco e depresso, sottomesso al ritmo accelerato dell'infosfera e degli automatismi finanziari, che finiscono per provocare un'impotenza politico-sessuale nell'agire sulle proprie vite e sulle aree che le modellano.  Caratterizzare il nuovo movimento reazionario come nostalgico (che in precedenti occasioni abbiamo inserito all'interno di un soggetto necrofilo) è fondamentale per comprendere il suo funzionamento e la logica (o la mancanza di logica) alla base delle sue azioni. È a partire da questo aspetto centrale della psiche reazionaria che possiamo spiegare la ricomparsa, se pur distorta, delle forme tipiche del fascismo classico, o addirittura pre capitaliste nel presente. Con ciò non intendiamo dire che siano tornate in sé, né che siano solo una loro imitazione. Si tratta di una sorta di ossimoro, un misto tra il passato reificato e la novità rappresentata dall’affinamento della tecnica volta a generare qualcosa di più. I saluti fascisti, i costumi del Ku Klux Klan nelle marce anti-immigrati, il disprezzo per le donne, il culto di Pinochet, sono una replica distorta delle forme reazionarie del passato, sono il desiderio nostalgico dell'uomo bianco di tornare a godere delle «epoche straordinarie di licenziosità sessuale, di violente scene orgiastiche di ipermascolinità non repressa».  Lasciare che le cose "seguano il loro corso" è la catastrofe.  In questo senso, personaggi come Donald Trump o Benjamin Netanyahu incarnano quasi perfettamente la logica suicida del capitale, la sua tendenza oggettiva, nella sua attuale fase storica, a creare le condizioni per la propria autodistruzione. Il movimento reazionario globale è l'espressione politicamente organizzata dell'impotenza e della psicosi autodistruttiva di un ampio segmento della popolazione. In altre parole, ciò che chiamiamo movimento reazionario di nuovo tipo non è altro che la mobilitazione e la politicizzazione delle passioni distruttive che risiedono nel carattere inconscio e intrinseco della società capitalista e che si nutrono della delusione per il presente e, soprattutto, del fallimento dei progetti di riconfigurazione radicale del mondo.  È il sottoprodotto di decenni di sparatorie scolastiche, complottismo, epidemia di droga, precarietà lavorativa e declino demografico della "razza" bianca occidentale. Come direbbe Franco Bifo Berardi: «Le aspettative fallite di un individualismo frustrato non generano una rinascita della solidarietà, ma una nostalgia disperata e una rabbiosa volontà di annientamento». Per questo motivo, le politiche razziali di "ingegneria demografica" ( iper-razzismo nei termini della NRx), l'espansione territoriale, il ripristino dell'ordine etero-patriarcale e il riarmo militare sono abbracciati con tale entusiasmo da settori sempre più ampi della popolazione, le cui soggettività sono state bombardate dall'eccitazione autoflagellante dell'alternativa fascista alla crisi.  Per questo motivo, queste politiche non sono un capriccio arbitrario, ma hanno un fondamento: la crisi e il modo di rispondere ad essa senza riconoscerla appieno. L'espansionismo militare di Netanyahu e la spirale omicida-suicida che si è estesa in tutto il Medio Oriente; così come le pretese annessionistiche di Trump e la disputa tra Russia e NATO per l'Ucraina, possono essere intesi come parte di una corsa imperialista alle risorse naturali e ai territori strategici. Le numerose risorse che saranno disponibili grazie allo scioglimento dei ghiacciai rappresentano un'opportunità per le principali potenze mondiali di risolvere la crisi energetica e finanziare lo sviluppo tecnico- produttivo, almeno per un primo momento. Il dominio delle regioni della Siberia, della Groenlandia e dell'Artico è una necessità di sicurezza nazionale, come ha affermato lo stesso Donald Trump per giustificare la sua intenzione di annettere il Canada e la Groenlandia. Lo stesso vale per il Medio Oriente, il Golfo del Messico, il Canale di Panama, l'Ucraina e il Sud del mondo. Questo perché il capitalismo intende sopravvivere alla crisi ecologica attraverso l'intensificazione della distruzione della natura, la moltiplicazione e l'intensificazione delle guerre e l'impossibilità di selezionare la riproduzione della vita.  Il recente intervento degli Stati Uniti nella situazione mediorientale, a quasi due anni dall'inizio del genocidio a Gaza, esemplifica molto bene le caratteristiche di questa epoca. Nell'incontro tra Trump e il suo omologo israeliano è stato annunciato il piano per il trasferimento totale della popolazione palestinese da Gaza. Ciò è stato giustificato come una sorta di gesto umanitario, poiché, secondo Trump, chi vorrebbe vivere in una "zona di demolizione"? Al suo posto, gli Stati Uniti costruirebbero quello che sembra essere un enorme centro turistico, denominato da Trump "Riviera del Medio Oriente".  Nessun altro evento recente descrive in modo così preciso l'assurdo comportamento del capitalismo di fronte alla propria crisi strutturale. L'incapacità del capitale di assorbire il lavoro vivo nella produzione – una situazione generata dal capitale stesso e dal suo sviluppo contraddittorio – lo ha portato a provocare importanti processi di svalutazione – attraverso guerre, catastrofi naturali e genocidi – nel tentativo di ripristinare le condizioni per la produzione di valore. In questo caso particolare, al bombardamento e allo sfollamento forzato della popolazione palestinese seguirebbe un'enorme ricostruzione che, secondo Trump, genererebbe lo sviluppo economico della regione e fornirebbe «un numero illimitato di posti di lavoro». Ma tale tentativo di sovvertire la crisi è inutile, poiché questa non ha origine da una mancanza di lavoro. Piuttosto, lo sviluppo del capitalismo rende oggi impossibile la centralità sociale che il lavoro aveva avuto in passato.  Sono stati molti i tentativi di separare il capitalismo dalla guerra, dal genocidio e dal fascismo, come se questi esistessero indipendentemente dal modello di produzione dominante o come se fosse impossibile che si ripetessero, dato che sono stati superati grazie allo sviluppo del capitalismo stesso. La finzione di un capitalismo pacificato, alla fine della storia, delle guerre e degli antagonismi, è una narrazione che ha fatto il suo tempo: lo stesso Francis Fukuyama che l'ha pensata a metà degli anni Novanta ha ritrattato qualche tempo fa.  L'aspetto più perverso del genocidio a Gaza è che seppellisce nel profondo qualsiasi tentativo di separare il capitalismo dall'enorme quantità di cadaveri su cui poggia. Le catastrofi mondiali sono il risultato delle contraddizioni del metabolismo sociale del capitale... La Palestina mostra il capitalismo per quello che è. La legge del valore non è mai stata interrotta in due anni di genocidio: la vendita di generi alimentari a prezzi gonfiati (a Natale del 2024 un pollo costava 40 euro), il proseguimento del commercio sessuale e del lavoro informale ci insegnano una cruda verità, il capitalismo è in grado di funzionare fino alla fine dei giorni. Nemmeno le fantasie apocalittiche sono ormai un rifugio dall'avanzata necrotica della macchina capitalista.  3.2 Le reazioni fasciste alla crisi del capitale.  Il fascismo entra in gioco a causa del ricorrente fallimento dei burocrati e dei tecnocrati nel regolamentare e invertire l'intensificarsi della crisi strutturale capitalista. Ma questa alternativa alla crisi è fittizia, poiché la soluzione fascista preferita è l'accelerazione delle tendenze (auto)distruttive del capitale. Si abbraccia la crisi, la si accelera fragorosamente, invece di evitarla o, come minimo, gestire il crollo e ottenere un "atterraggio morbido". Se la crisi non può essere risolta, bisognerà acuirla: questa è la logica suicida-omicida del fascismo.  La sopravvivenza del sistema significherebbe la morte di un importante settore della popolazione umana (e non umana, poiché include diverse forme di vita della biosfera che vengono subordinate al regime antropocentrico e antropogenico) e, per quella rimanente, aumentare la precarietà delle attuali condizioni di sopravvivenza. Ma questo non ha importanza agli occhi del soggetto reazionario. La violenza autodistruttiva è preferibile al fatalismo depressivo causato dalla crisi.  Si tratta di riorganizzare il dominio borghese che è in pericolo attraverso il vecchio metodo di trasformare la rabbia sociale contro la società in rabbia all'interno della società, la guerra sociale in guerra interborghese, la rabbia proletaria in delegazioni e negoziazioni all'interno dello Stato, la messa in discussione dell'intera società nella messa in discussione di una forma particolare di dominio, la lotta contro il capitalismo nella lotta contro una frazione borghese e a favore di un'altra. La minaccia dell'altro è cruciale per la costruzione di questa finzione. Inoltre, la costruzione strategica e soggettiva e l’individuazione di un altro , come strumento ereditato dal colonialismo, è vitale per instillare l'urgenza della proprietà privata, della sicurezza, dell'ordine e di un io omogeneo che si contrapponga a questo altro , diventato nemico, esacerbando l’ostilità. È necessario un altro su cui ricada la responsabilità della crisi capitalista e delle sue diverse espressioni (economica, ecologica ed eteronormativa, tra le altre), un nemico che è necessario sia sterminato o almeno allontanato, al fine di ristabilire l'ordine sociale. Nel caso attuale, quell'altro è la popolazione in eccesso per il capitale, un settore relativamente o totalmente escluso dai circuiti produttivi ufficiali e che sopravvive grazie agli "aiuti" statali e all'economia "informale". Questa crescente popolazione in eccesso è composta principalmente da immigrati, rifugiati, disoccupati cronici, lavoratori precari, lavoratori sessuali e settori che, a causa della criminalizzazione della loro esistenza e delle loro pratiche, rappresentano un rifiuto dell'identità del "lavoratore dignitoso", ovvero il lumpenproletariado come "il rovescio oscuro dell'affermazione della classe operaia”. Non sorprende che l'avanzata dei movimenti reazionari sia strettamente legata alla proliferazione dei discorsi malthusiani che sostengono la riduzione della popolazione mondiale sulla base di filtri razziali e di classe. Così come tematiche femministe e di genere vengono sfruttate da parte di settori reazionari (sia a sinistra che a destra dello spettro politico) in campagne islamofobe e anti- migranti. L’esistenza e l'aumento di questa popolazione razzializzata e in eccesso per il capitale viene vista come un pericolo per le donne e, in particolare, per il progresso politico-legale in materia di genere.  La demonizzazione dell'uomo razzializzato è duplice: da un lato è responsabile della disoccupazione dei lavoratori nazionali e dall'altro rappresenta una cultura misogina e inferiore. Indipendentemente dalle sue specificità, questa narrativa, o meglio questo mito originario della crisi, che designa i suoi responsabili in termini identitari concreti, serve da giustificazione ideologica e persino legale per la persecuzione, la repressione e lo sterminio selettivo di alcuni settori della società, come già avvenne per il fascismo in passato. Nel frattempo, la dimensione ecologica della crisi capitalista e la proliferazione della guerra in tutti i territori portano a un enorme aumento degli spostamenti umani, che non farà altro che moltiplicare la popolazione in eccesso per il capitale e la sua precarietà. Le politiche razziali per affrontare questa migrazione in Europa, negli Stati Uniti e in parte del Sud America, sembrano puntare alla replica della strategia trumpista: chiusura delle frontiere, creazione di carceri per migranti privi di documenti e espulsione massiccia verso altri territori.  In relazione alla crisi ecologica, i discorsi neomalthusiani sono portati all'estremo, collegando il degrado dell'ambiente naturale, la scarsità di risorse e la distruzione della "comunità nazionale" con la sovrappopolazione del pianeta e la migrazione di massa che ne deriva. Di ciò viene ritenuto responsabile un settore della popolazione mondiale specificamente non bianco, proveniente da paesi non sviluppati, come ad esempio dall'America centrale, dal Sudamerica e dal Medio Oriente. A loro viene anche attribuita la responsabilità di aver provocato intenzionalmente i grandi incendi che hanno colpito molte parti del mondo (Brasile, Grecia e Cile), come parte di una cospirazione internazionale di un'élite progressista e globalista. Viene così soppressa qualsiasi critica strutturale al capitalismo e alla sua logica predatoria. Il gruppo radicale greco Antithesi riconosce una relazione tra l'ascesa del cosiddetto post-fascismo e la crisi ecologica, e identifica l'esistenza di un ecofascismo o "fascismo verde" contemporaneo: «Questo tipo di ambientalismo non attacca lo sfruttamento capitalista della natura, ma sposta la questione verso la difesa del "suolo nativo" e del paesaggio, nonché della cultura e dello stile di vita nazionali "tradizionali”».  Possiamo identificare così un'alternativa reazionaria diversa dall'accelerazione tecno-ottimista della crisi del capitale, in quanto questa propone invece un rallentamento tecno-economico del capitalismo e dell'incremento demografico. Questa alternativa caratterizzata dal rallentamento della crisi può essere collegata all'adozione di politiche isolazioniste, alla chiusura delle frontiere e al rifiuto relativo o totale della tecnologia (o di certi tipi di tecnologia), per abbracciare invece l'autogestione, la rinascita della vita rurale, il recupero di forme precapitalistiche di organizzazione, la purezza dell'ambiente naturale e la composizione razzialmente omogenea della comunità nazionale. Una forma "sofisticata" di un progetto reazionario di decelerazione e autogestione della crisi capitalistica che può essere esemplificato in un ibrido tra una concezione fascista e nazionalista delle tesi sulla decrescita e la formazione di uno Stato autoritario e corporativista che consenta l'attuazione sistematica di un'ingegneria demografica per la riduzione e l'espulsione della popolazione non bianca, a favore della "violenta restaurazione dell'unità del circuito di riproduzione del capitale sociale nazionale". Alla luce di quanto spiegato, riteniamo quantomeno discutibile l'assenza reale di una minaccia al capitalismo. Anche se non c'è un nuovo soggetto o momento rivoluzionario, il capitalismo continua ad essere minacciato. Solo che ora questa minaccia è data esclusivamente da sé stesso; il capitalismo, come ben credeva Marx, sta distruggendo i propri presupposti di esistenza. Possiamo riconoscere la minaccia in due processi interconnessi derivanti dalla tendenza del capitale alla propria espansione ininterrotta e illimitata: la crisi del lavoro come forma di mediazione sociale e la crisi ecologica planetaria.  Seguendo la formula schupertiana per la reinvenzione capitalista, alla distruzione non è seguita la creatività, non c'è una nuova grande riconfigurazione del capitalismo che gli permetta di superare la crisi, ma – come già detto – solo diverse forme di gestione o accelerazione del suo collasso. Ed è qui che hanno luogo i nuovi fascismi. Pensare al fascismo dal punto di vista della crisi terminale del capitale ci permette di pensare a due forme o momenti possibili di fascismo: uno "decelerante" e uno accelerazionista, per fare una distinzione momentanea.  La guerra civile globale e il fascismo neoliberista.  In Il capitalismo odia tutti, Maurizio Lazzarato caratterizza il fascismo di Mussolini, contestualizzandolo nell'epoca delle guerre totali di carattere industriale, in cui il fascismo era una delle modalità organizzative della controrivoluzione globale. Lo differenzia dai nuovi fascismi, è che sono contestuali al presente e, quindi, determinati dal periodo delle guerre civili globali; cioè la forma specifica della guerra nel capitalismo contemporaneo o, in altre parole, una guerra specificamente capitalista. È una guerra non dichiarata, senza un esterno e al di sopra di qualsiasi confine politico riconoscibile, che si esprime in modo ininterrotto con diversi gradi di intensità e forme in tutto il mondo. La concezione di Lazzarato contiene molte verità, ma sfuggono alcuni aspetti essenziali che tratteremo in parte.  In altre parole, la guerra civile globale è l'integrazione dei dispositivi bellici, psicologici ed economici del capitalismo avanzato in un'unica forma di guerra contro la popolazione che comprende contemporaneamente sia zone di scontro diretto - temporaneo o permanente - sia forme diffuse di violenza muta, di apparente assenza di scontro, ovvero l'esistenza di un falso ordine sociale. Ma che in realtà nasconde la coercizione impersonale del corpo sociale da parte della macchina capitalista; è la sperimentazione di una violenza diffusa nella costruzione delle città, è la routine incessante dell'esistenza salariata per tutta la durata di una vita.  Nei momenti di scontro, si esprime come una "controrivoluzione preventiva”, un riordino violento della società di classe attraverso il quale vengono represse le forme di vita non redditizie, non produttive, che esistono come scarti. Cioè, le popolazioni razzializzate e subalterne, senza che da esse emerga una minaccia formale e unificata al capitale, ma con l'unico obiettivo di "sottomissione degli esseri umani e non umani alla produzione di valore” . È la risposta al problema della gestione della popolazione in eccesso prodotta dalla tendenza intrinseca del capitale. Si tratta di una risposta che si traduce in incarcerazione, emarginazione nei ghetti, disciplina da parte della polizia e, infine, nello sterminio di questa popolazione diventata superflua in processi apertamente genocidi a causa della sua esistenza ridondante, come avviene oggi in Palestina.  Il concetto di nemico interno o esterno delle forme classiche di guerra diventa inutile per descrivere una guerra in cui non c'è un fuori, così come non c'è nemmeno il capitale. Anche nelle sue forme di confronto diretto, essa non si riduce a un semplice scontro tra eserciti provenienti da un territorio e Stati specifici. Questa guerra civile diventata globale, continua proprio dove è stata data per assente, per provvisoriamente contenuta. È guerra in quanto presuppone l'impossibilità di conciliazione, di coesistenza, il capitale comprende solo una forma di esistenza: la sua. Ed è globale in quanto è possibile a partire dalla forma universalizzante del capitalismo nella sua fase di dominio totale.  Lo sviluppo del capitalismo comporta, come abbiamo già lasciato intendere, un perfezionamento e un riadattamento dei meccanismi bellici inerenti al capitalismo. Ciò che prima si esprimeva specificamente come guerra industriale tra Stati-nazione, ora  si esprime principalmente come guerra civile globale, nel senso che questa costituisce l'altra faccia del processo di globalizzazione del mercato nel capitalismo contemporaneo. La guerra civile globale e il progetto cosmopolita del neoliberismo sono un'unità indissolubile, poiché si rendono reciprocamente possibili.  La presunta imminenza di una nuova guerra mondiale offre un contesto ideale per la comparsa di questi fascismi di nuovo tipo. Tale affermazione non può essere ridotta a un'esagerazione quando la guerra si estende a tutti i territori del pianeta. Le principali potenze europee riducono i fondi per gli "aiuti esterni" e aumentano la spesa militare, mentre Zelensky, seguito da Ursula von der Leyen, propone il riarmo europeo, e l'Unione Europea inizia a raccomandare ai cittadini di essere preparati a qualsiasi eventualità, consigliando di tenere a portata di mano un kit di sopravvivenza. Nel frattempo, in Medio Oriente, Israele porta la guerra a tutte le sue frontiere, mentre continua il bombardamento di Gaza e il conflitto con l’Iran spinge le potenze alleate di entrambi i paesi verso un possibile intervento. La diffusione di questo clima bellicista è stata in gran parte promossa dal governo di Trump, che nel giro di poche settimane ha avviato una guerra tariffaria con tutto il mondo (compresa un’isola abitata da pinguini), con l’apparente intento di trascinare i mercati verso il collasso. Tuttavia, la proliferazione delle forme della guerra civile globale non significa l'inesistenza di guerre tra Stati-nazione, ma, al contrario, pone la simultaneità tra diverse forme di guerra che sono comprese in un'unica unità: la grande macchina da guerra del capitalismo globalizzato. Nella guerra civile globale si completa l'ibridazione delle diverse aree del sapere umano. Scienziati, giornalisti, operai e ingegneri lavorano per l'inventiva e lo sviluppo della macchina da guerra nelle sue diverse espressioni, attraverso il perfezionamento e l'applicazione delle modalità di cooperazione produttiva sviluppate durante le guerre totali e la guerra fredda, che mescolano la casa con il laboratorio e la fabbrica.  La particolarità della forma storica della guerra attuale è il ruolo sempre più importante del privato rispetto allo Stato, dove il suo "monopolio" della violenza si dissolve tra diversi attori: organizzazioni paramilitari, mafie, agenzie di sicurezza private e gruppi di mercenari. Così, se ci sarà una nuova guerra mondiale come è stato tanto previsto, la sua principale novità sarà che la forma organizzativa dello Stato-nazione, caratterizzata dal possesso di un territorio chiaramente delimitato e di un governo efficace, passerà ufficialmente in secondo piano per essere sostituita dall'amministrazione corporativa dello Stato, dove la delimitazione del suo territorio non è chiusa, ma espansiva, e il suo governo è di proprietà di monopoli multinazionali. L'equivalenza simbolica tra Donald Trump ed Elon Musk in ogni apparizione pubblica risponde a questo fenomeno che, come altri hanno già sottolineato, sembra essere «una tendenza intrinseca dell'accelerazione tecnologica nel contesto della crisi del capitalismo tardivo». La guerra civile globale come forma specifica di guerra contemporanea può essere spiegata a partire da una "controrivoluzione permanente", in quanto inversione della teoria trotskista della rivoluzione. Sulla stessa linea, Nick Land, teorico della NRx e cofondatore del collettivo Cybernetic Culture Research Unit ( CCRU), ha descritto nel 2016 il fascismo come  (...) la normalizzazione dei poteri bellici in uno Stato moderno, ovvero: una mobilitazione sociale sostenuta sotto una direzione centrale. Di conseguenza, implica, oltre alla centralizzazione dell'autorità politica in un consiglio di guerra permanente, un'isteria tribale dell'identità sociale e una notevole dose di pragmatismo economico. La guerra civile globale è forte dell'insegnamento tratto dalla seconda guerra mondiale e dal fascismo storico. Fu proprio con la comparsa del fascismo che si espresse per la prima volta la modalità bellica da cui deriverebbe la forma contemporanea della guerra, ovvero: guerra civile globale. Più di un secolo fa, l'anarchico Luigi Fabbri descrisse lucidamente il fascismo come la continuazione della Prima Guerra Mondiale, una ricollocazione e riorganizzazione da parte delle classi dominanti nazionali della macchina bellica all'interno dei rispettivi confini, contro un nemico che detestavano più delle nazioni vicine: il proletariato. Nel frattempo, oggi la giustificazione delle politiche fasciste dipende dal permanere di quello stato di guerra, ciò che serve quindi è una guerra che non finisca mai.  La Guerra Fredda sembrava esserlo, ma non lo era del tutto. La Guerra al Terrorismo è una scommessa migliore. Per quanto riguarda la loro interminabilità, se non la loro intensità morale, le «guerre» contro la povertà, la droga e altre condizioni sociali resilienti sono ancora più allettanti. Condurre guerre moderne, con le loro conseguenze metaforiche, è la funzione dello Stato fascista. Vincere occasionalmente, e per caso, è solo una sfortuna. Questa lezione sembra essere stata imparata a fondo §  L’analisi di Maurizio Lazzarato sulla metamorfosi del fascismo storico porta a caratterizzare questi nuovi fascismi come neoliberali o nazional-liberali, un postulato condiviso da altri autori come Sergio Villalobos-Ruminott e Rodrigo Karmy. Tali movimenti «(...) trovano nel neoliberismo la loro forma economico-gestazionale», affermando le categorie centrali del neoliberismo: proprietà privata, mercato, concorrenza, libertà individuali (di consumare, vendere e acquistare), ecc. In assenza di un movimento rivoluzionario organizzato, il ruolo repressivo e persecutorio di questi fascismi si rivolge alle soggettività dissidenti dell’ordine etero-patriarcale e a quelle vite che mettono “a rischio” la composizione razzialmente omogenea della nazione — si pensi, ad esempio, all’islamofobia e all’espulsione massiccia dei migranti. Questi fascismi non negano il liberalismo né si propongono come un’alternativa terzista. Mancano di una critica “anticapitalista”, anche solo discorsiva, e del carattere rivoluzionario-conservatore tipico dei fascismi storici e delle loro continuazioni del dopoguerra, come ad esempio la nouvelle droite . Al contrario, essi riconoscono e abbracciano l’origine violenta e controrivoluzionaria attraverso cui il neoliberismo si è storicamente impiantato nel Sud del mondo, tramite dittature civili-militari pianificate, finanziate e sostenute dall’Occidente, in particolare dagli Stati Uniti.  La proliferazione della gestione fascista neoliberista nel mondo è il prodotto della crisi stessa del neoliberismo: una sorta di risposta automatica che emerge da una soggettività reazionaria costruita sui quarant’anni di politiche neoliberiste basate sull’individualismo atomizzante. Come osserva Lazzarato, «la micropolitica del credito ha creato le condizioni per una micropolitica fascista». Questo fascismo neoliberale è in grado di promuovere, formalmente o meno, il consolidamento di una “dittatura liberale” che, per garantire il funzionamento dei mercati, l’accelerazione dello sviluppo tecnologico e la difesa della proprietà privata, smantella le strutture giuridiche democratiche e progressiste che ne ostacolano l’espansione. Partendo da Lazzarato e dagli autori che indagano il fascismo contemporaneo, è possibile riconoscere un’eredità diretta nelle attuali destre radicali di Europa, Russia, Stati Uniti, Sudamerica, e nelle diverse forme con cui la controrivoluzione si è manifestata nella prima metà del XX secolo, in particolare sotto forma di fascismo. Pur tra sfumature differenti, si può individuare una linea radicale che, negli ultimi due decenni, ha saputo adattare in modo efficiente le pratiche dei movimenti fascisti all’interno delle democrazie, senza rinunciare all’uso della violenza politica e dei disordini pubblici come dimostrazione di potere e pressione sugli oppositori. Uno dei principali argomenti per negare che queste nuove destre radicali siano fasciste riguarda l’abbandono del partito-milizia come forma di organizzazione, la partecipazione ai meccanismi della democrazia, l’autodefinizione come qualcosa di diverso dal fascismo e, soprattutto, il grado di violenza politica, che alcuni ritengono debba essere comparabile a quello della Germania nazista per poter essere definito fascismo. Tali critiche si fondano su una separazione arbitraria tra fascismo e democrazia, e sull’idea del fascismo come “male supremo”, la caricatura di un mostro antidemocratico e dittatoriale responsabile di crimini senza precedenti. Ciò nasconde, in realtà, l’incapacità di riconoscere il carattere storicamente mutevole del fascismo e le sue origini negli Stati coloniali: ammetterlo significherebbe infatti riconoscere l’inattuabilità del progetto politico basato sulla difesa della democrazia e dello Stato, entro il quale persistono i nuovi fascismi, così come la guerra civile globale, paradigma dell’attuale fase del capitalismo. È sulla base della guerra civile globale che si possono comprendere alcuni aspetti dell’attuale gestione statale e la proliferazione delle nuove destre radicali che, pur non organizzandosi in un grande partito-milizia nazionale, incitano e finanziano settori legati all’economia informale e illegale, nonché gruppi armati che operano al di fuori dell’ordine democratico seguendo gli interessi dei partiti di riferimento. L’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Trump nel 2021 e la presenza di organizzazioni paramilitari come il movimento Boogaloo durante la repressione del movimento Black Lives Matter ne sono esempi frequentemente citati. In Cile, un caso emblematico è stato la dichiarazione di guerra alla popolazione da parte del recentemente “canonizzato” Sebastián Piñera nell ottobre 2019, che fu presa alla lettera dai settori reazionari collaboratori della repressione statale: gruppi di estrema destra vestiti con uniformi militari, giubbotti antiproiettile, simboli pinochetisti e armati di armi da fuoco o strumenti improvvisati, in chiara imitazione di organizzazioni simili viste negli Stati Uniti. Tali episodi sono continuati durante la repressione della rivolta con il sostegno di settori della “sinistra” poi salita al governo. Nel 2022, durante le proteste studentesche e dei lavoratori del maggio, le forze dell’ordine furono supportate da gruppi armati apparentemente legati alla mafia, culminate con l’omicidio della giornalista Francisca Sandoval, colpita alla testa da un proiettile durante una marcia in occasione della Festa internazionale dei lavoratori. Nel 2024, in occasione del 51° anniversario del colpo di Stato militare, una contro-manifestazione protetta dai carabinieri venne pugnalato a morte Alonso Verdejo. Il governo di Gabriel Boric valutò con orgoglio l’efficacia delle misure repressive. Questi eventi mostrano come, anche in contesti democratici, il fascismo liberale possa cristallizzare istituzionalmente pratiche persecutorie all’interno del discorso progressista. Al di là della definizione di destra radicale ed estrema destra come fascista, l’esistenza di nuovi fascismi all’interno del quadro democratico — e la loro assimilazione da parte delle destre o dell’apparato statale, indipendentemente da chi governi  — consente di superare la falsa dicotomia tra liberalismo e fascismo, tra dittatura e democrazia, rivelando il ruolo centrale di guerra e fascismo come «forze politiche ed economiche necessarie alla conversione dell’accumulazione di capitale». Attraverso Lazzarato, Villalobos-Ruminott e Karmy, è possibile comprende come l’avanzata delle destre radicali guidate da Trump, Milei e Meloni rappresenti una mutazione del fascismo storico verso un autoritarismo neoliberista con tratti bellicisti. Tuttavia, limitarsi a leggere questi fenomeni solo attraverso il prisma del neoliberismo sarebbe riduttivo: i nuovi fascismi mostrano un panorama più variegato e ideologicamente confuso. Essi non vanno dunque descritti semplicemente come continuazione della gestione neoliberista o della partecipazione alla democrazia rappresentativa, ma come l’emergere di espressioni post-neoliberiste ancora parzialmente inesplorate. Continua nella prossima puntata...

  • konnektor

    Corbyn permetterà ai sionisti di sabotarlo nuovamente? Marita Marttio L’attuale genocidio perpetrato da Israele, con la complicità degli Stati Uniti, e dell’Unione Europea contro il popolo palestinese ha cancellato per sempre la volgare definizione di antisemitismo dell’IHRA e ha svelato in modo irreversibile gli scopi coloniali, fascisti e imperialisti che essa e i suoi paladini perseguivano. La sinistra britannica ed europea ne ha preso coscienza. Questo articolo è stato originariamente pubblicato su « The Electronic Intifada »  ed è riprodotto qui con il consenso esplicito del suo editore. «Sono antisionista, lo sono sempre stata» ha affermato la giovane parlamentare inglese. Ho visto la folla tirare un sospiro di sollievo collettivo ed esplodere in una spontanea ovazione e applaudire Zarah Sultana, 31 anni, ex deputata laburista e ora parlamentare indipendente alla Camera dei Comuni. «Chiunque visiti la Cisgiordania occupata, chiunque abbia visto il genocidio in atto a Gaza», ha continuato, «chiunque capisca cosa sia il colonialismo, si riconoscerà anche antisionista». Il pubblico si era riunito in una affollata Rebel Tent durante il festival musicale Beautiful Days, tenutosi il mese scorso nel Devon, nel sud-ovest dell’Inghilterra. Sultana stava dialogando con il giornalista Matt Kennard,  che gli ha chiesto la sua opinione sul sionismo come ideologia. La sua risposta ha elettrizzato il pubblico e scatenato una tempesta nel suo movimento politico nascente. Kennard gli ha anche chiesto del confuso confine tra antisionismo e antisemitismo durante il periodo in cui Jeremy Corbyn  era alla guida del Partito Laburista. Sultana non si è trattenuta. «Una delle cose su cui dobbiamo essere sinceri è su alcuni degli errori commessi durante il periodo di Corbyn. E l’adozione della [definizione di antisemitismo] dell’IHRA è stato uno di questi. Confondere antisemitismo e antisionismo è stato un errore». 1. La definizione di antisemitismo  dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) è un documento anti-palestinese, che affonda le sue radici in un progetto finanziato dall’agenzia di intelligence israeliana Mossad . Per quasi un decennio è stato un’arma nelle mani di Israele e della sua lobby per reprimere e criminalizzare  la solidarietà con la Palestina in tutto il mondo. Il Partito Laburista guidato da Corbyn ha adottato il documento , causando un danno enorme  tra i suoi sostenitori. Molti di loro sono stati espulsi dal partito su richiesta della lobby israeliana. Alla fine, anche Corbyn è stato espulso,  sospeso come deputato laburista nel 2020 e privato della possibilità di poter tornare nel partito.  Nella sua conversazione con Kennard, Sultana ha implicitamente criticato il team di Corbyn per la sua debolezzza nel difendere il loro progetto politico  – e il movimento popolare che lo sosteneva – di fronte a quelle che ha definito «le calunnie diffuse» dai grandi media. «Le cose non sarebbero dovute andare come sono andate», ha sostenuto, «ci sarebbe dovuta essere una forte reazione quando la classe politica, i media [...] hanno attaccato il progetto di Corbyn, ci sarebbe dovuta essere una reazione più decisa». «Dobbiamo imparare la lezione», ha detto senza mezzi termini. «Dobbiamo lottare e non cedere di un millimetro a questi bastardi». Il pubblico è impazzito. 2. Il corbynismo, il movimento di sinistra che ha portato Corbyn alla guida del Partito Laburista, in difficoltà dalla sua sospensione come deputato laburista nel 2020, ha auspicato un approccio più combattivo. Intervenire al Beautiful Festival sembrava una mossa calcolata da parte di Sultana, che aveva già espresso opinioni simili nell’intervista con Oliver Eagleton,  pubblicata lo stesso giorno su «Sidecar», il blog della «New Left Review». «Dobbiamo costruire sui punti di forza del corbynismo, la sua energia, la sua attrattiva nei confronti delle masse e il suo audace programma político, e dobbiamo anche riconoscerne i limiti. Il corbynismo ha capitolato davanti alla definizione di antisemitismo dell’IHRA», ha detto la giovane parlamentare a Eagleton. «Quando è stato attaccato dallo Stato e dai media, il corbynismo avrebbe dovuto contrattaccare, riconoscendo che si trattava dei nostri nemici di classe. Ma, invece, si è spaventato e si è mostrato troppo conciliante, è stato un grave errore [...]. Non si può cedere di un millimetro a queste persone». Ma è stato al Rebel Tent che Sultana si è dichiarata esplicitamente antisionista per la prima volta. Più tardi, quello stesso giorno, ha ripetuto il suo commento su Twitter/X. 3. In risposta a un giornalista del quotidiano di destra «The Telegraph», Sultana ha scritto: «Le calunnie non funzioneranno questa volta. Lo dico forte e chiaro: sono antisionista. Pubblicatelo». In linea con la sua posizione secondo cui i grandi media britannici sono nemici di classe, Sultana, secondo quanto riportato dal quotidiano ,  aveva inizialmente rifiutato ogni commento. Insieme ad altri media dell’establishment,  «The Telegraph»  ha pubblicato attacchi contro Sultana, compresi quelli provenienti da gruppi di pressione israeliani come il Board of Deputies of British Jews.  «Definire il riconoscimento della definizione di antisemitismo dell’IHRA come una “capitolazione” è un grave insulto», ha dichiarato Andrew Gilbert, vicepresidente del Board of Deputies of British Jews, a «The Telegraph». Your Party? L’aumento dell’attenzione dei media nazionali nei confronti dell’ormai parlamentare indipendente è dovuto al ruolo svolto da Sultana, insieme a Corbyn, nella creazione di un nuovo partito di sinistra. L’iniziativa è già stata però compromessa da divisioni interne. A luglio, Sultana, sospesa dal Partito Laburista  un anno prima, ha rinunciato a essere riammessa nell’attuale partito di governo in Gran Bretagna. Era stata sospesa dopo essersi opposta alle politiche di austerità del primo ministro Keir Starmer. A differenza di altri ribelli, che alla fine sono stati riammessi come deputati laburisti, la sospensione di Sultana è stata mantenuta,  a causa del suo aperto sostegno alla Palestina, secondo quanto da lei stessa affermato. 4. Il 3 luglio, Sultana ha dichiarato di aver lasciato il Partito Laburista per aiutare Corbyn a fondare il nuovo partito della sinistra. È evidente che i negoziati dietro le quinte erano in corso da tempo. «Jeremy Corbyn e io co-dirigeremo la fondazione di un nuovo partito, insieme ad altri parlamentari indipendenti, attivisti e militanti di tutto il paese», ha scritto su Twitter/X. «Unitevi a noi. È giunto il momento». Ma, secondo fonti vicine a Corbyn, l’ex leader laburista non era contento di quello che considerava un lancio prematuro dell’iniziativa da parte di Sultana, né del riferimento a «co-dirigere» qualcosa. 5. Fughe di notizie e riunioni informative, apparentemente provenienti dalla fazione di Corbyn, sono arrivate alla stampa di destra. «I messaggi di testo mostrano che il team di Corbyn si è opposto al nuovo partito pochi minuti dopo il suo lancio», ha proclamato  «The Times» di Londra. Diversi esponenti della sinistra hanno espresso scetticismo sulla notizia, consapevoli dello sforzo che i media stanno compiendo da un decennio per dividere il movimento corbynista. Ma «The Electronic Intifada» ritiene che l’informazione fosse in gran parte corretta. E il giornale ha fornito le prove: screenshot di un gruppo WhatsApp di influenti attivisti di sinistra ed ex collaboratori di Corbyn, che avevano lavorato in segreto per creare il nuovo partito all’interno di una piccola organizzazione chiamata Collective.  Altri esponenti della sinistra appartenenti a un secondo gruppo informale vicino a Corbyn e al suo team, chiamato Organizing Committe, avevano proposto una co-leadership con Sultana, che avrebbe dato vita alla prossima generazione di leader. Alle prossime elezioni generali, che si terranno nel Regno Unito probabilmente nel 2029, Corbyn avrà 80 anni. Sultana ne avrà 35. I suoi sostenitori sostengono che lei rappresenterebbe per la sinistra un nuovo inizio. Indecisione Alcuni militanti e gruppi di sinistra vorrebbero anche che Corbyn scegliesse un successore a causa dei dubbi sul suo stile di leadership, o meglio sulla sua mancanza. Noto per la sua indecisione, Corbyn spesso tende ad evitare il confronto pubblico e preferisce agire attraverso intermediari e assistenti. Frequentemente si nasconde invece di assumere una posizione controversa. Questa settimana ho chiesto a Corbyn un’intervista per il Podcast di «The Electronic Intifada» per discutere di quelle che, secondo lui, dovrebbero essere le politiche del nuovo partito nei confronti della Palestina e di quale dovrebbe essere il modo migliore per combattere le calunnie antisemite. Corbyn ha letto diversi messaggi WhatsApp sull’argomento, ma non ha risposto all’invito. Ho inviato un terzo invito al suo responsabile della comunicazione, Oly Durose, che ha risposto che «Jeremy non è disponibile a concedere interviste in questo momento». Non ha fornito alcuna motivazione né proposto date alternative. Sembra che non sia mai il momento giusto. Corbyn ha concesso la sua ultima intervista a «The Electronic Intifada »   nell’estate del 2015, quando si è candidato per la prima volta alla presidenza del Partito Laburista. Tuttavia, dopo la sua vittoria, è arrivato un nuovo team di addetti stampa. Molti dei vecchi sostenitori  di Corbyn mi hanno detto di essere stati frustrati per i cinque anni di evasività sulla creazione o meno di un nuovo partito, affermando che avrebbe potuto crearlo quando è stato espulso per la prima volta come deputato laburista nel 2020, il che gli avrebbe probabilmente permesso di conquistare diversi seggi nelle elezioni del 2024. 6. Corbyn si è mostrato riluttante a rompere definitivamente con il Partito Laburista o a guidare un nuovo partito in prima persona. Ma non sembra nemmeno volere che qualcun altro lo faccia. Durante le trattative segrete, Collective, che di fatto è la fazione di Corbyn, si è opposta in generale a una leadership congiunta con Sultana. Poco dopo che Sultana ha annunciato che avrebbe «co-guidato» la nuova iniziativa con Corbyn, la potente ex capo di gabinetto dell’ex segretario, Karie Murphy,  ha epurato il gruppo WhatsApp di Collective. Tra gli eliminati c’erano l’attivista contro la guerra ed ex leader del partito Respect, Salma Yaqoob, e Andrew Feinstein,  ex deputato sudafricano e candidato indipendente, che si è candidato contro Keir Starmer nella sua stessa circoscrizione alle elezioni generali britanniche dello scorso anno. Entrambi sono considerati sostenitori della co-direzione come forma organizzativa del nuovo partito. Secondo «The Times», Corbyn «si è infuriato per il post di Sultana» in cui annunciava il nuovo partito e le ha chiesto senza successo di cancellarlo. Ne è seguito un silenzio imbarazzante. Per diverse settimane, il team di Corbyn ha fatto finta che Sultana non avesse mai fatto la sua importante dichiarazione. A parte un post ambiguo  in cui si congratulava con Sultana per aver lasciato il Partito Laburista e affermava «un vero cambiamento è alle porte», Corbyn non ha detto nulla al riguardo in pubblico e non ha mai confermato la creazione di un nuovo partito. Tre settimane dopo l’annuncio della giovane deputata, Corbyn ha ceduto. Si è unito all’iniziativa di Sultana e ha pubblicato una dichiarazione congiunta con lei in cui annunciava il progetto Your Party. 7. Your Party è l’iniziativa per la creazione del nuovo partito, il cui nome sarà scelto in occasione di una conferenza fondativa che si terrà  in autunno, probabilmente  a novembre. Non è chiaro chi sia responsabile dell’organizzazione della conferenza. Max Shanly,  un ex organizzatore giovanile di sinistra del Partito Laburista (che è stato personalmente oggetto di diffamazioni   per «antisemitismo» durante il periodo di Corbyn) ha avvertito di «una sorta di colpo di stato nel gruppo di lavoro responsabile della conferenza fondativa di Your Party». 8. Il lancio di un link a un modulo online , che chiedeva ai sostenitori di inviare i loro nomi, indirizzi e-mail e codici postali per rimanere aggiornati sui preparativi della conferenza, ha ottenuto una risposta massiccia, come dimostra il fatto che Your Party conta già più di  800.000 registrazioni verificate via e-mail . Resta da vedere quanti di questi sostenitori aderiranno effettivamente al partito, ma anche se solo la metà lo facesse, sarebbe il più grande partito politico della Gran Bretagna.  E anche prima che il partito venga lanciato ufficialmente, ci sono segnali incoraggianti per i suoi sostenitori. Un recente sondaggio ha rivelato  che un elettore laburista su tre nel 2024 prenderebbe in considerazione la possibilità di votare per un partito guidato da Corbyn-Sultana. Calunnie antisemite Molti sostenitori di Corbyn sono frustrati dal suo rifiuto di difendersi dalle calunnie di «antisemitismo di sinistra», che hanno distrutto la sua leadership alla guida del Partito Laburista tra il 2015 e il 2020. Come riportato per anni da  «The Electronic Intifada» e come ho documentato nel mio libro Weaponising Anti-Semitism: How the Israel Lobby Brought Down Jeremy Corbyn  (2023), Corbyn e il suo team, invece di combattere le diffamazioni  , hanno spesso fatto concessioni a questa campagna diffamatoria . In pratica, molti dei sostenitori più fedeli di Corbyn sono stati epurati dal Partito Laburista, comprese figure di alto profilo come Ken Livingstone, Jackie Walker  e Chris Williamson.  Questo, in ultima analisi, ha giocato un ruolo importante nella caduta di Corbyn  come leader laburista. Feinstein è stato inflessibile nel sostenere che il nuovo partito non deve commettere lo stesso errore. Egli afferma che «è incredibilmente importante per noi, che partecipiamo al nuovo partito emergente, contrastare qualsiasi tentativo di utilizzare l’antisemitismo come arma, denunciandolo per quello che è: una tattica vergognosa di persone con posizioni politiche di destra e di estrema destra».  9. Nel 2023 Feinstein ha parlato alla presentazione del mio libro. Lo ha definito «una denuncia dettagliata, accurata e incredibilmente importante di come l’establishment e i suoi media siano capaci di mentire e diffamare », affermando: «Credo sinceramente che, se Nelson Mandela fosse vivo oggi e fosse membro del Partito Laburista di Keir Starmer, verrebbe espulso per le sue opinioni su Israele e sulla lotta al razzismo». 10. I commenti di Sultana al Rebel Tent del Beautiful Festival hanno elettrizzato il pubblico, proprio perché il movimento di massa che si era formato attorno a Corbyn nel 2015 si era disperso, senza una direzione e senza una casa politica negli ultimi cinque anni. Alcuni critici di Corbyn appartenenti alla sinistra sostengono che egli abbia sprecato questi anni nella vana speranza di essere riammesso nel Partito Laburista. Cosa che non aveva alcuna possibilità di realizzarsi sotto la guida di Starmer, il quale durante la campagna per la leadership del Partito Laburista nel 2020 aveva dichiarati di essere un sostenitore  del «sionismo senza riserve», oltre ad aver goduto del sostegno finanziario di lobbisti filoisraeliani come Trevor Chinn  e Gary Lubner  (quest’ultimo ha anche beneficiato dell’apartheid sudafricano).  Corbyn ha aspettato fino all’ultimo minuto per annunciare la sua candidatura indipendente  nel maggio 2024, presentandosi alla rielezione per il suo seggio parlamentare contro il candidato laburista. Ha esitato per un altro anno sulla creazione di un nuovo partito, nonostante i segnali incoraggianti  delle elezioni generali del 2024, che indicavano che molti elettori volevano un’alternativa di sinistra e filopalestinese. Feinstein è arrivato second o  nella circoscrizione di Starmer, e altri quattro nuovi candidati indipendenti (oltre a Corbyn) hanno ribaltato le maggioranze laburiste, conquistando seggi con programmi che invocavano la fine della partecipazione britannica  al genocidio di Gaza. Molti altri hanno conseguito buoni risultati. Tuttavia, se il chiaro antisionismo di Sultana ha deliziato i potenziali nuovi attivisti del partito, lo stesso Corbyn non si è mostrato altrettanto contento. In un’intervista con «Middle East Eye», l’intervistatore, Imran Mulla, ha chiesto a Corbyn cosa ne pensasse delle critiche di Sultana. 11. «Penso che non fosse davvero necessario che lei tirasse fuori tutto questo nell’intervista, ma è quello che Sultana ha deciso di fare», ha risposto. Ha poi tergiversato, giustificando le sue concessioni e dicendo di essere stato sottoposto «a forti pressioni per adottare la definizione dell’IHRA» da parte di alcuni dei suoi più stretti collaboratori e che «fu fatto in modo corretto». Non ha commentato le sue opinioni sul sionismo. In un articolo  pubblicato nel 2018 « The Guardian», Corbyn aveva affermato che esistevano sionisti «onorevoli» e che era «errato» descrivere il sionismo come una forma di razzismo. Secondo le informazioni disponibili, l’articolo era stato scritto dall’influente consigliere di Corbyn, James Schneider, che sembra avesse promosso gran parte dell’approccio disastroso  dell’ex leader sulla questione. Dopo la pubblicazione dell’articolo, l’ex autore dei discorsi di Corbyn, Alex Nunns, ha contattato «The Electronic Intifada» per negare che Schneider avesse scritto la bozza iniziale dell’articolo, affermando  invece che Schneider aveva solo dato «minimi suggerimenti editoriali» alla bozza. Corbyn è stato oggetto di critiche su Internet da parte di alcuni dei suoi stessi sostenitori per la sua apparente debolezza su questo tema e per non aver difeso Sultana quando la lobby israeliana l’ha attaccata per «antisemitismo». E non solo su Internet. In una manifestazione tenutasi a Londra la scorsa settimana, una nota attivista palestinese e sostenitrice di Your Party ha chiesto a Corbyn la sua opinione sul sionismo. In un incontro,  poi diventato virale in rete, Anika Zahir (nota come Ani Says ai suoi 126.000 follower sui social media) ha chiesto a Corbyn: «Si dichiarerà antisionista, come Zarah Sultana?». 12. Corbyn ha mostrato chiaramente il suo disappunto. Ha eluso la questione e ha risposto che era lì «per parlare a favore del popolo palestinese [...]. Mi dispiace, ma questo è il motivo per cui sono qui oggi. Grazie mille». Si è alzato e se n’è andato. Anche il suo responsabile della comunicazione, Oly Durose, ha cercato di zittire Zahir, dicendo che «non avrebbero concesso altre interviste». Corbyn ha persino chiesto con rabbia a Zahir di «spegnere la telecamera, per favore», cosa che lei ha fatto. La scena – la  maggior parte è stata pubblicata per la prima volta su Internet  dal ricercatore antisionista David Miller  – ha scatenato polemiche su X. Alcuni sostenitori di Corbyn hanno affermato che era ingiusto, dati i suoi anni di lavoro a favore della solidarietà con la Palestina, mentre i critici hanno affermato che avrebbe dovuto essere in grado di rispondere a una semplice domanda. Tra i difensori di Corbyn c’era il deputato indipendente (e sostenitore di Your Party) Adnan Hussein, che paradossalmente ha accusato Zahir di praticare la «caccia alle streghe». Il giorno dopo, sembrava aver rilanciato la sfida, accusandola esplicitamente  di «azioni estremamente malvagie contro un uomo buono». Zahir ha risposto sui social media  che le reazioni negative che stava affrontando includevano commenti islamofobi. Un utente di X  ha persino affermato falsamente che fosse la moglie di David Miller. «Lui non è un dio» In una dichiarazione rilasciata a «The Electronic Intifada», Zahir ha affermato di aver sostenuto Corbyn per anni e di essersi persino impegnata a sostenerlo votando per corrispondenza alle elezioni generali del 2017, nonostante all’epoca vivesse all’estero. Ha detto di seguire il suo attivismo a favore della Palestina dal 2010. «Sono un’espatriata in un Paese completamente diverso, dove sono isolata dalla politica britannica, ma non appena ho sentito parlare di Jeremy Corbyn, mi sono precipitata a compilare i moduli e a votare», ha affermato. Tuttavia, ha detto che l’incontro della settimana scorsa l’aveva lasciata delusa: «Mi sento come se fossi appena uscita da una setta». Zahir ha commentato che trascorreva tutto il suo tempo libero con attivisti «apertamente antisionisti che vedeva lavorare senza sosta». «Non è una questione personale, volevo semplicemente sapere quale sarebbe stata la posizione del nuovo partito rispetto al sionismo», ha detto la giornalista a «The Electronic Intifada». Secondo Zahir, è stato un errore mettere Corbyn su un piedistallo e affidarsi ad altri politici per rispondere alle domande poste dagli attivisti. «Ho fatto a un politico una domanda fondamentale», ha detto. «Improvvisamente, non pretendiamo più responsabilità. Non è così che falliscono le rivoluzioni? Da quando non chiediamo più ai leader di assumersi le loro responsabilità? Tutti gli esseri umani possono sbagliare». «Lui non è un dio», ha aggiunto Zahir. Il gruppo di Corbyn Oly Durose, attuale responsabile della comunicazione del team di Corbyn, è un ex candidato parlamentare laburista, sostenuto  nel 2019 da David Lammy , attuale ministro degli Esteri  britannico. Durose non è affatto l’unico reduce del Partito Laburista che continua a essere vicino a Corbyn. James Schneider, lo stratega che, secondo le informazioni disponibili, ha scritto l’articolo del «Guardian» del 2018 in cui affermava che era «errato» definire il sionismo come razzismo, è un altro. Da quanto ne sappiamo, Schneider è stato scelto  per partecipare all’organizzazione della conferenza fondativa del nuovo partito. Si dice che faccia parte di quel comitato anche Karie Murphy, la persona che, come abbiamo detto, ha espulso Feinstein e altri membri dal gruppo WhatsApp di Collective. Schneider, d’altra parte, è stato messo in discussione da alcuni attivisti per l’esistenza di un possibile conflitto di interessi legato al fatto che sua moglie, Sophie Nazemi,  è la direttrice della comunicazione del Partito Laburista. Da parte sua, anche il passato di Murphy in materia di diffamazioni antisemite non è proprio brillante. Come ho dimostrato in Weaponising Anti-Semitism: How the Israel Lobby Brought Down Jeremy Corbyn, Murphy (come Corbyn) si è opposta a «parte» della definizione dell’IHRA (gli infami «esempi», realmente diffamatori, che consideravano «antisemitismo» l’affermazione che Israele è uno Stato razzista). Per un certo periodo, Murphy ha sostenuto Chris Williamson,  l’ex deputato di sinistra che ha fedelmente appoggiato Corbyn, ma che è stato sacrificato prima delle elezioni del 2019. «Ritirata totale» Chris Williamson, dal canto suo, ha scritto nel suo libro Ten Years Hard Labour (2022) che Murphy è entrata in «modalità ritiro totale», insieme al resto della squadra di Corbyn, e alla fine non si è opposta al piano di «indagare su di lui» e sospenderlo  per la sua affermazione del tutto corretta secondo cui il Partito Laburista sotto la guida di Corbyn aveva ceduto su questa questione. L’anno successivo, Murphy si è vantata pubblicamente  di quanti «antisemiti» aveva contribuito a espellere dal Partito Laburista. Quali erano i suoi esempi di tale «antisemitismo»? Jackie Walker  e Ken Livingstone,  entrambi sospesi per aver fatto dichiarazioni antisioniste. Se Corbyn vuole davvero unire il suo movimento dietro un nuovo partito, deve ammettere gli errori commessi in passato. Non combattere le calunnie antisemite rivolte contro di lui e i suoi sostenitori ha avuto effetti disastrosi per il movimento di sinistra. Ciò accadrà di nuovo, se Corbyn e il suo team non cambieranno atteggiamento. Le ripetute concessioni e i cambiamenti di posizione di Corbyn sulla questione dell’antisemitismo e dell’antisionismo lo hanno fatto apparire come un leader debole agli occhi degli elettori, non solo degli attivisti. Un sondaggio  affidabile condotto dopo le elezioni generali del 2019 ha rivelato che molti elettori pensavano che «Jeremy Corbyn non fosse un leader attraente» e che le divisioni all’interno del Partito Laburista alimentavano questa percezione. «Non ci hanno difeso» Le sospensioni dal partito, le indagini, le inchieste interne, i rapporti, le cacce alle streghe sui media e le espulsioni hanno tristemente diviso e demoralizzato il movimento attivista. Quando ho fatto il tour nazionale per presentare il mio libro tra il 2023 e il 2025, sono rimasto sorpreso dalla delusione e persino dalla rabbia che alcuni membri della base provavano nei confronti di Corbyn. Si trattava di persone comuni provenienti dai sindacati locali, da gruppi di solidarietà con la Palestina e da organizzazioni locali, che avevano lavorato duramente per Corbyn nella speranza di cambiare il Paese in meglio. «Non possiamo lasciare che Corbyn e [il suo stretto alleato John] McDonnell la facciano franca», è stato il verdetto di un attivista di Liverpool. «Non ci hanno difeso. Non hanno difeso loro stessi e dobbiamo cercare altrove». Molti attivisti sostenitori di Corbyn sono stati espulsi dalle sezioni locali del Partito Laburista con il pretesto dell’antisemitismo, anche sotto la guida della stessa general secretary di Corbyn, Jennie Formby.  Questi militanti sono rimasti completamente delusi dall’incapacità dimostrata dall’ex leader di contrattaccare. È probabile che queste opinioni siano molto più diffuse di quanto Corbyn stesso creda, quindi non sorprende che l’approccio più combattivo di Sultana stia riscuotendo consenso. 13. Il comportamento compiacente di Corbyn nei confronti della lobby israeliana all’interno del Partito Laburista non solo ha demoralizzato gli attivisti, ma non ha nemmeno aiutato a vincere le elezioni. Il sionismo è un’ideologia massimalista, che non accetta nulla di meno che una lealtà completa e assoluta. Il rappresentante dell’ambasciata israeliana  e il Jewish Labour Movement,  (che era stato oggetto di lusinghe e approcci amichevoli da parte di Corbyn) hanno svolto un ruolo chiave  nell’espulsione di Corbyn dal Partito Laburista. I gruppi filoisraeliani lo hanno sabotato e diffamato fino alla fine. Loro e i loro alleati lo rifaranno sicuramente, se diventerà leader del nuovo partito. Tuttavia, non vi sono indicazioni che l’ex leader laburista sia disposto a iniziare a combattere il sionismo e le diffamazioni antisemite utilizzate come arma contro di lui e il suo movimento. Se Corbyn, che continua a godere di grande affetto e rispetto per la sua solidarietà con la Palestina, non è in grado di offrire una leadership più risoluta, forse non dovrebbe intralciare il cammino di coloro che possono farlo. Testi consigliati Daniel Finn,  Contracorrientes: Corbyn, el Partido Laborista y la crisis del  Brexit (Controcorrenti: Corbyn , il Partito Laburista e la crisi della Brexit) , «New Left Review» 118 settembre-ottobre 2019, e El mismo filo de la navaja: Starmer contra la  izquierda (Lo stesso filo del rasoio: Starmer contro la sinistra ),  Torturar la evidencia, lawfare y mediafare en Reino  Unido (Torturare le prove, lawfare e mediafare nel Regno Unito) tutti pubblicati su «El Salto» 19 luglio 2024 e 31 luglio 2023  Canal Red, La Base Comanche 1x09, «Chi ha davvero vinto le elezioni nel Regno Unito?».  Asa Winstanley è redattore associato di «The Electronic Intifada». Autore di Weaponising Anti-Semitism: How the Israel Lobby Brought Down Jeremy Corbyn  (2023).

  • periferie

    # 2 Numeri, paura, crimini e città: la criminalità è veramente un problema nelle nostre città? Paul Hertz Pubblichiamo la seconda puntata ( qui puoi trovare la prima) di una riflessione aperta da Alberto Violante sulla percezione della sicurezza e la diffusione della criminalità all’interno delle città medio-gradi del nostro paese. Il testo analizza criticamente l’idea diffusa che la criminalità stia aumentando e che le città italiane siano sempre più insicure. Attraverso un esame dei dati del Ministero dell’Interno, emerge invece una diminuzione complessiva dei reati tra il 2006 e il 2023, soprattutto dei furti e delle rapine, mentre restano stabili i reati violenti e aumentano le truffe (soprattutto informatiche) e le denunce per violenze sessuali. L’autore mette in discussione due convinzioni comuni: che l’immigrazione aumenti la criminalità e che le città siano sempre più pericolose. I dati mostrano come la sovrarappresentazione degli stranieri nei reati sia parzialmente spiegabile da fattori demografici e che, in realtà, la criminalità urbana sia in calo, con alcune eccezioni legate al turismo. Infine, l’articolo suggerisce che la “questione sicurezza” venga spesso enfatizzata nel dibattito politico e mediatico, pur in assenza di un reale peggioramento dei dati, e che il tema debba essere letto anche alla luce delle condizioni sociali ed economiche del paese. Fatte dunque tutte le avvertenze su come intendere in numeri possiamo provare a confrontarci con la domanda se la criminalità sia o meno in aumento e stia davvero assediando le nostre città. Non ho scritto rispondere alla domanda se la criminalità sia o meno in aumento, perché prima di rispondere a una domanda bisogna chiedersi se questa abbia o meno un senso, e parlare degli andamenti della criminalità in sé , per quanto sia comune,   difficilmente può essere considerata una cosa sensata. È come chiedersi se gli esercizi commerciali vanno bene, perché si presuppone che una buona domanda di acquisti e una vitalità diffusa presiedano necessariamente ad un aumento del commercio.Si scopre invece che, ad esempio, dopo la crisi pandemica la ristorazione ha un buon andamento e i locali di intrattenimento notturno no.  Allo stesso modo invece di immaginare la criminalità come un sintomo morale, bisognerebbe dare per scontato che se ci sono più episodi di borseggio, non è affatto detto che ci siano più rapine (come infatti è), perché le condizioni di possibilità che stanno dietro i due atti sono diverse, e perché per compiere un atto illegale, o addirittura intraprendere una carriera criminale, bisogna avere motivazioni e competenze, e chiaramente un borseggiatore è diverso da un estorsore, o un truffatore. Ridimensionata la domanda possiamo quindi rispondere. Sì la “criminalità”, misurata dal Ministero dell’Interno come il totale delle denunce alle FF.OO è diminuita: passa infatti dai 4.475 ogni 100.000 abitanti nel 2006 ai 3.969 per 100.000 abitanti del 2023. Più della metà di questi reati  nel 2006 erano furti, nelle loro varie fattispecie (scippi, borseggi, di automobili etc.) ed è la loro drastica diminuzione ad aver consentito chiaramente la diminuzione dei reati (nel 2023 infatti i furti sono stati meno della metà dei reati complessivi). Si sono circa dimezzate le rapine e sono rimaste abbastanza stabili quelle legate alla violazione della normativa sugli stupefacenti. Anche la violenza inter-personale non mostra segni di recrudescenza, visto che le lesioni sono abbastanza stabili, le minacce in lieve diminuzione, e gli omicidi e i tentati omicidi in clamorosa diminuzione, essendo venuta meno in questi anni una certa propensione delle organizzazioni criminali mafiose a regolare la competizione tra clan con la violenza omicida, che indiscutibilmente tende a essere controproducente per la gestione delle attività criminose. Accanto a queste diminuzioni sono aumentate di quasi un terzo le denunce per violenza sessuale (che su una scala ovviamente più piccola –perché più spesso non vengono denunciate- hanno raggiunto le 10 denunce ogni 100.000 abitanti), e sono quasi triplicate le truffe quelle tradizionali e quelle informatiche, ma con una prevalenza di queste ultime. Se guardiamo questa fotografia ne esce un quadro dove effettivamente la sicurezza derivante dall’infrazione di reati codificati non sembra certo essere un’emergenza, soprattutto se confrontata con un recente passato. I dati delle indagini di vittimizzazione italiana confermano abbastanza i dati amministrativi, che –soprattutto per alcuni reati- abbiamo visto contenere inevitabilmente delle distorsioni. I borseggi e le rapine si sarebbero addirittura dimezzate nella fase post-Covid ad un tasso addirittura superiore a quello registrato dai dati amministrativi, cosa che solitamente è però attribuibile al declino dei reati meno gravi. Questi numeri mettono in discussione due pilastri del dibattito dell’opinione pubblica sulla criminalità degli ultimi anni. Il primo è che la maggior propensione a delinquere della popolazione immigrata avrebbe fatto innalzare il livello di criminalità generale e in particolar modo quello delle metropoli, dove risiede la maggior parte della popolazione straniera appunto. Il secondo, conseguente, è che, anche in virtù della crescente diseguaglianza sociale, stesse aumentando un problema di sicurezza nelle città che sarebbe andato a incancrenirsi, come abbiamo detto al contrario, la dimensione del crimine sembra essere sempre più domestica e virtuale.  Prendiamo singolarmente i due punti. Se si contano gli autori per cittadinanza per singolo reato, la proporzione di autori stranieri sugli autori appare nettamente sovraradimensionata rispetto alla presenza di cittadini non italiani sul territorio. In parte esiste una sovrarappresentazione, in parte questa sovrarappresentazione è stata esagerata nel dibattito usando statistiche come il numero di autori sulla popolazione residente. Bisognerebbe ricordare per dare le giuste dimensioni al fenomeno che la popolazione non italiana  residente sul territorio alla quale vengono rapportati il numero di autori di reati stranieri, è concentrata nelle classi di età giovanili, che sono quelle principalmente attive nelle carriere criminali, mentre la popolazione italiana è ormai composta in maniera consistente di anziani. Se si confronta la presenza di autori italiani e stranieri nelle singole fasce di età, la differenza non scompare ma diminuisce molto rispetto a quella usualmente propagandata. In secondo luogo la popolazione straniera potrà essere anche sovrarappresentata tra le persone denunciate, ma è assolutamente minoritaria nella popolazione straniera, e lo è diventata ulteriormente in questi anni. I reati che sono diminuiti di più come abbiamo visto sono le varie fattispecie di furto. I reati, cioè, dove era riscontrabile la maggiore presenza di autori stranieri, e questo, nonostante i residenti non italiani siano aumentati esponenzialmente in questi anni. Se esistesse qualcosa come la propensione a delinquere di una categoria (su base etnica, sociale o qualunque altro criterio) non si sarebbe potuto verificare l’aumento di quella categoria e la diminuzione dei reati.  Il secondo pilastro che viene a cadere è quello delle città italiane precipitate in un futuro distopico preda del crimine. Prima di spiegare perché la diminuzione dei reati di questi anni demolisce questo assunto bisogna chiarire un aspetto. Le città di dimensioni medio grandi hanno effettivamente un tasso di delittuosità più alto degli altri territori. Questo fatto è stato il conforto empirico alla tradizionale ossessione anglosassone per le classi pericolose, che altro non è che la memoria sociale della inurbazione violenta e accelerata del XIX° secolo. La teoria criminologica però ha da anni spiegato questa anomalia. Se, come abbiamo visto, la maggior parte dei reati sono reati contro la proprietà, essendo il reddito procapite più alto nelle città la popolazione “predata” è più numerosa in ambiente urbano. Detto questo anche questa specificità si è in realtà molto smussata in questi anni, e quasi tutte le città italiane sono diventate meno esposte alla presenza di reati. Considerando la sola somma delle varie specie di furto, a Torino i reati sono molto diminuiti e l’eccedenza rispetto alla diffusione media nazionale si è dimezzata; a Genova si è praticamente annullata, ed è diminuita anche a Milano (anche se in misura minore) e a Roma. La maggior diffusione di reati è rimasta a Venezia e a Napoli. Sono eccezioni importanti perché data la storica tradizione turistica e la recente inclusione di Napoli nei processi della mega-macchina turistica, questo solo elemento ci suggerisce che la diffusione e la persistenza di alcuni reati ha più a che fare con i processi di turistificazione, che con la propensione a delinquere degli esclusi.  Se è vera la teoria criminologica di medio raggio esposta sopra, dobbiamo ammettere che la maggiore circolazione di turisti dentro i centri delle città in questi anni è stata una consistente condizione di possibilità per chi si volesse impiegare in attività di questo tipo. Ovviamente parliamo comunque di fenomeni relativamente rari e che hanno una loro “fisiologia”.  Questa questione però rovescia la prospettiva urbana dell’analisi del crimine. Il punto non è solo controllare le periferie, ma proteggere i centri, visto che l’economia urbana italiana sarebbe seriamente scossa se un problema di micro-criminalità dovesse insorgere. In questa maniera diventano più comprensibili le parole dei politici liberali italiani che hanno fatto le loro fortune lanciando i processi di turistificazione, e ora vorrebbero ricostruire il centrosinistra occupandosi di uno dei pochi problemi sotto controllo nel paese. Oltre alla facile ironia contro i social-liberisti italiani che predicano pragmatismo e realtà e vivono di propaganda, bisogna pensare se la questione sicurezza sia una merce così ossessivamente spinta sul mercato solo per questioni ideologiche o anche perché, in un quadro del tutto diverso alla cornice proposta dai liberisti italiani una questione esista davvero. Se si guarda all’arco di discesa di questo ventennio infatti i reati contro la proprietà hanno avuto dei rimbalzi, pur incapaci di invertire la tendenza storica, durante le due grandi crisi attraversate (quella del debito e quella pandemica). Non voglio istituire nessun nesso meccanico tra la crescita della povertà e la delittuosità. È questa una vecchia attitudine cattocomunista, che tende a guardare il crimine come un vuoto creato dalla necessità che venga riempito, ignorando la spinta soggettiva che c’è comunque dietro una professione illegale. È però innegabile che l’aggravarsi della questione sociale costituisca delle condizioni. Di questo però parleremo meglio collegandolo alla risposta alla seconda domanda che ci eravamo fatti all’inizio di questo percorso, cioè se sia veramente aumentata la paura. Alberto Violante è un sociologo e organizzatore sindacale. Si occupa di crimine e mercato del lavoro.

  • fascismi

    # 1 I nuovi fascismi e la riconfigurazione della controrivoluzione globale Feliciano De Maria Il presente testo è stato originariamente redatto come materiale per il workshop del collettivo <>, tenutosi nel marzo 2025 presso il Sitio de Memoria Providencia di Antofagasta (Cile) e intitolato Guerra, crisi e fascismi . La versione qui proposta, pubblicata originariamente sul sito del collettivo, include alcune modifiche apportate successivamente, alla luce delle discussioni e delle interazioni avute con i partecipanti e i collaboratori. Attraverso la lettura di diversi autori, il testo propone un’analisi articolata sul fenomeno del fascismo. Come sottolineano gli autori stessi, alcuni passaggi e fasi di tale riflessione risultano complessi e sfaccettati, una caratteristica dovuta alla natura stessa dell'oggetto di indagine, sempre più camaleontico e sfuggente. Nonostante ciò, gli autori riconoscono la necessità di approfondire l’analisi delle nuove forme di fascismo facendo chiarezza su come esse rappresentino oggi uno degli strumenti principali attraverso cui il capitale tenta di salvarsi dalla crisi da esso stesso generata. Pubblichiamo il testo a puntate per gentile concessione del collettivo <> e della redazioni di Ill Will dove è apparso l’articolo proposto. “ Generals gathered in their masses Just like witches at black masses Evil minds that plot destruction Sorcerer of death's construction In the fields, the bodies burning As the war machine keeps turning[...]” War Pigs, Black Sabbath.  Lo spirito di rivolta, in maniera sotterranea, si sta diffondendo in diverse parti del mondo: Serbia, Turchia, Grecia, Indonesia, Italia e Argentina hanno visto proteste più o meno massicce, di durata più o meno lunga. Gli Stati Uniti non hanno fatto eccezione: alle proteste contro la gestione di Trump nel mese di aprile è seguita la rivolta contro l'ICE a giugno. In Europa c'è stata una reazione al riarmo europeo e al tentativo di trascinare tutti i paesi membri della NATO nei conflitti in corso in Medio Oriente e in Ucraina.  Ma non siamo qui per discutere se ci troviamo di fronte a un nuovo periodo di rivolta, è ancora troppo presto per dirlo o per fare una lettura in profondità della situazione.  Vogliamo piuttosto approfondire lo studio della generalizzazione di un processo controrivoluzionario di carattere globale a cui questi focolai di protesta hanno risposto. Un processo che trova la sua principale espressione nella proliferazione delle politiche espansionistiche e nell'instaurazione della guerra   - intesa sia contro le popolazioni, che tra Stati-nazione, o in altre forme che rinnovano il significato di guerra. La corsa alle nuove tecnologie, alle "risorse naturali", alle terre rare e alle zone strategiche è direttamente collegata alle mutazioni contemporanee di quelli che si ritengono fascismi di nuovo tipo. I saluti nazi-fascisti dei sostenitori di Donald Trump e dell'estrema destra mondiale sono la rappresentazione del ritorno delle forme estetiche e simboliche del fascismo di un tempo; ma questo processo non si riduce solo ad atti di "ribellione di destra". Si tratta piuttosto di un processo globale, che rinnova i meccanismi repressivi già utilizzati per controllare, sterminare ed espellere la popolazione in eccesso, e li estende ad altri territori del pianeta. Da Gaza a Los Angeles, dal Wallmapu all'Europa, il mondo è attraversato da un’ampio ventaglio di forme repressive che compongono l'attuale gestione della crisi capitalista in questa fase post-neoliberista. Il carattere localizzato di ogni movimento reazionario e le differenze politico-strategiche che esistono tra loro non rappresentano una contraddizione alla portata globale di questo fenomeno, ma rappresentano piuttosto la molteplicità di forme che la controrivoluzione può assumere a seconda del contesto nazionale e internazionale.  Il presente testo è un tentativo, necessario e volutamente parziale, di comprendere il fenomeno reazionario nella sua forma globale, al di là di semplici incasellamenti in una o in un altra categoria concettuale. Se è vero che gli aspetti generali di questo movimento possono risultare familiari e riportarci al fascismo classico, ciò che sosterremo di seguito è che ci troviamo di fronte a una forma storicamente specifica, legata a condizioni oggettive derivante dalla crisi della civiltà capitalista e dalla depredazione ecologica. Si tratta in altre parole, di nuovi fascismi, che negli ultimi mesi hanno suscitato molteplici risposte di resistenza locale, di cui non conosciamo ancora la portata e la durata, ma che prefigurano la possibilità di superare i limiti dei precedenti processi insurrezionali. A tal fine, partiremo analizzando ciò che è stato generalmente inteso come fascismo nel corso del XX secolo, nonché le divergenze in tale comprensione. Successivamente, ci concentreremo sui focolai di mutazione dell'attuale movimento reazionario, che collochiamo negli Stati Uniti a causa delle sue particolarità che rendono possibile, più che in altre località, l'uso di una potenza distruttiva senza pari, nonché la capacità di esportare le loro politiche nel resto del continente.  Che cos'è il fascismo?  <> Intervista a Herbert Marcuse, Stati Uniti: questioni di organizzazione e il soggetto rivoluzionario, 1970.  Dalla prima presidenza di Donald Trump, il dibattito sul fascismo negli Stati Uniti ha acquisito maggiore forza, ma non è un dibattito limitato a questo secolo, bensì è stato oggetto di discussione dei principali intellettuali radicali sin dal dopoguerra. Al di là del qualificare o meno l'attuale governo come fascista, la discussione sul carattere fascista della più grande potenza militare del mondo ci fornisce alcuni strumenti concettuali di estrema importanza per poter identificare e sviluppare una comprensione molto più ampia delle forme rinnovate di fascismo in tutto il mondo. Se dopo il movimento del '68 la Francia, e in particolare la Nouvelle Droite , è diventata la principale esportatrice delle teorie dei nuovi fascismi, oggi il movimento neoreazionario statunitense è il centro della controrivoluzione in Occidente.  Un fascismo americano non ha bisogno di essere a immagine e somiglianza del fascismo italiano o del nazionalsocialismo tedesco. Il suo potenziale è invece profondamente «(...) intrecciato alle storie di schiavitù e sterminio, espropriazione e dominio che continuano a plasmare il presente degli Stati Uniti, materialmente e ideologicamente». Alberto Toscano riprende le analisi di pensatori radicali neri per analizzare il potenziale fascista del corpo politico statunitense e delle sue istituzioni governative: «Angela Y. Davis, come George Jackson, hanno identificato l'apparato statale statunitense come il luogo di rinascita o addirittura di perfezionamento di alcune caratteristiche dei fascismi storici». Ciò che è particolarmente interessante nell'analisi di Davis e Jackson è che, sviluppandola a partire dalle esperienze collettive delle persone razzialmente escluse dal sistema dei diritti della democrazia liberale, il fascismo smette di essere utilizzato per riferirsi solo a un movimento politico o a una forma di governo dittatoriale specifica, ma viene inteso come un meccanismo di potere intrinseco al capitalismo che ha avuto il suo terreno fertile nei processi coloniali di tre secoli fa. Per esprimersi, il fascismo non ha più bisogno di incarnarsi in un partito-milizia concreto, ma viene assimilato nei meccanismi e nelle istituzioni politiche che costituiscono la democrazia liberale occidentale. Una delle caratteristiche centrali di questo fascismo è la «generalizzazione del terrore carcerario razzializzato nella società». Questo approccio alle "forme democratiche del fascismo" è condiviso da Theodor W. Adorno, che in una conferenza del 1959 affermò: «A mio parere, la sopravvivenza del nazionalsocialismo nella democrazia è potenzialmente molto più minacciosa della sopravvivenza delle tendenze fasciste contro la democrazia». La scelta del proletariato nero e del movimento contro la guerra del Vietnam di iniziare a usare il termine fascista come insulto nei confronti della polizia bianca era certamente azzeccata. «L'esperienza razzializzata della negazione dei diritti civili in una democrazia liberale può rendere confusa la distinzione tra questa e il fascismo a livello di esperienza vissuta». Oggi, dopo la rivolta di strada del 2020 per l'omicidio di George Floyd e, più recentemente, la ribellione dei migranti contro l'ICE, la popolazione statunitense ha potuto distinguere forme repressive ed estetiche che riecheggiano il nazifascismo del passato: sia ieri che oggi i poliziotti sono maiali fascisti. Ma se il fascismo persiste all'interno della democrazia e delle sue istituzioni come meccanismo intrinseco al suo funzionamento, ciò significa che il fascismo politico, inteso come movimento di massa analogo a quello del XX secolo, non è più una peculiarità del presente?  Prima di rispondere, dobbiamo andare più indietro nel tempo. Nel 1934, tre decenni prima che Davis e Jackson sviluppassero le loro analisi sul fascismo americano, e ancora a qualche anno dallo scoppio della seconda guerra mondiale, il comunista Paul Mattick rifletteva sulla diffusione del fascismo in tutto il mondo, in particolare sulla possibilità che il governo di Franklin D. Roosevelt degenerasse in un regime fascista dittatoriale. L'emergere del fascismo in Europa veniva così spiegato: «I vecchi metodi democratici non sono più soddisfacenti; devono essere sostituiti da metodi più agili e diretti. Un governo non è più sufficiente; ciò che serve è una dittatura. Il fermento e il malcontento sociale nell'ultima fase del capitalismo devono essere repressi e controllati affinché il sistema possa sopravvivere».  Mattick analizza alcune precondizioni teoriche per l'emergere del fascismo in un paese come gli Stati Uniti, partendo dall individuare il fascismo come prodotto della crisi del capitale e parallelamente come via d'uscita attraverso l'espansionismo militarista e la modernizzazione dell'apparato statale. Affinché le classi dominanti siano determinate a promuovere tendenze fasciste all'interno di un paese, è necessario un impoverimento generalizzato delle classi medie. Il fascismo si nutre dell'insoddisfazione di queste ultime e la indirizza non contro il capitalismo o i suoi agenti, ma contro il proletariato. La minaccia di una rivoluzione è una condizione preliminare per l'utilizzo del fascismo al fine di garantire la sopravvivenza del sistema.  La convinzione che gli Stati Uniti potessero evolvere in una dittatura fascista durante l’era del New Deal era diffusa tra diversi pensatori radicali e militanti comunisti. Mattick, tuttavia, escluse che ciò potesse avvenire nel breve periodo, poiché il fascismo, pur rappresentando una possibile risposta alla crisi del capitalismo, non è l’unica. Allo stesso modo, lo sviluppo della lotta di classe non aveva ancora prodotto le condizioni necessarie per l’affermazione fascista. Ciononostante, Mattick avvertiva che tale possibilità rimaneva latente all’interno delle vecchie organizzazioni della classe media e dell’aristocrazia operaia.  [...] quando la classe media si impoverirà più di quanto non sia attualmente, il fascismo crescerà negli Stati Uniti a un ritmo molto più vertiginoso che in qualsiasi altro luogo. Infatti, se la situazione negli Stati Uniti continuerà come oggi, il fascismo avrà molte più possibilità di svilupparsi rispetto al movimento operaio rivoluzionario .  Mattick ha saputo comprendere lo scenario pessimistico che ci attendeva, dato che da allora è stato più probabile il verificarsi del fascismo che quello della rivoluzione. Tuttavia, se applichiamo ciecamente la sua analisi al presente, ci troviamo di fronte all'apparente assenza di uno dei suoi presupposti per la nascita del fascismo, cioè una “minaccia” rivoluzionaria. Se pure l'impoverimento delle classi medie e la loro mobilitazione attorno a politiche populiste, come l'espulsione dei migranti e la formazione di gruppi paramilitari è in atto da alcuni anni; al contrario l'impoverimento generalizzato della classe operaia non ha portato alla sua radicalizzazione, né alla sua auto-organizzazione, favorendo invece una corsa individualista alla sopravvivenza attraverso l'esaltazione della propria soggettività e la ricerca del successo costruito sulle narrazioni capitalistiche.  Se l'ondata reazionaria di libertari, neonazisti e suprematisti bianchi è effettivamente la manifestazione, ad oggi, di un fascismo specificamente statunitense, questo non sarebbe stato risvegliato in modo reattivo da alcuna minaccia rivoluzionaria al capitalismo in crisi. Almeno non se consideriamo che tale minaccia debba essere rappresentata da un movimento operaio organizzato e unificato. Il che risulta paradossale, dato che questa fase del capitalismo è invece caratterizzata dalla «decomposizione del proletariato come agente rivoluzionario«.Cioè la frammentazione della classe e, parallelamente, uno scontro interno ad essa, rappresentato soprattutto, ma non esclusivamente, dalla tensione tra la crescente popolazione in eccesso rispetto alle esigenze del capitale e la lotta dei lavoratori per conservare le loro condizioni di vita salariata minacciate dallo sviluppo capitalistico. Ciò non deve essere interpretato come una negazione del potenziale carattere rivoluzionario del presente, ma piuttosto come una condizione che determina il modo in cui la rivoluzione sarebbe possibile in questo momento.  Dovremmo quindi scartare la tesi secondo cui vi è un espressione politicamente organizzata di nuovi fascismi, per l'assenza di una delle loro caratteristiche distintive? Non crediamo che sia così semplice, poiché i movimenti neoreazionari contemporanei mantengono un'altra delle caratteristiche principali del fascism: la difesa dell'ordine esistente e del relativo contesto nella crisi generalizzata del capitalismo.  Se pensassimo alla possibilità di un fascismo nel presente solo come una replica delle sue forme storiche durante il XX secolo, arriveremmo a due possibili conclusioni. Primo: il fascismo è un prodotto del suo tempo e l'uso del termine è restrittivo poiché le condizioni materiali in cui è emerso non esistono più. Secondo: saremmo favorevoli a forzare l'inquadramento di tutti i movimenti nazionalisti e conservatori del presente nella categoria classica del fascismo, senza metterne in discussione le differenze. Contrariamente a entrambe le conclusioni, il fascismo è un prodotto storico condizionato dallo sviluppo del capitalismo, per cui trae le sue caratteristiche dal contesto e dall'epoca in cui emerge, il che rende possibile una varietà di forme che condividono una caratteristica fondamentale: proteggere un capitalismo in crisi.  Sulla base delle analisi di Mattick e dei radicali neri negli Stati Uniti, si potrebbe erroneamente interpretare che l'espressione politicamente organizzata del fascismo nel presente non sia possibile in assenza di una delle sue precondizioni (Mattick) o non sia necessaria, poiché i suoi meccanismi repressivi sono già stati assimilati e perfezionati dalle democrazie liberali (Davis e Jackson). Al contrario, invece di concludere che il fascismo politico sia irrealizzabile, bisognerebbe comprendere la simultaneità di entrambe le forme (macro e micro-politica). E parallelamente comprendere come queste strutture politico-giuridiche consentono la manifestazione di una diversa espressione del fascismo nella contemporaneità. Continua nella prossima puntata...

  • selfie da zemrude

    # 3 Cronache del Boomernauta ed. Mimesis: letture in attesa delle pubblicazioni a puntate settimanali del libro di Giorgio Griziotti Nei primi giorni di novembre 2025 cominceranno su AhidaOnline | Selfie da Zemrude le pubblicazioni a puntate settimanali del libro di Giorgio Griziotti – (per gentile concessione di) ed. Mimesis - Cronache del Boomernauta. Questo è il primo di quattro inviti con letture significative del libro in oggetto. Buon ascolto.  Hanno collaborato: Giorgio Griziotti (autore del libro), Martino Saccani (illustratore), Franco Oriolo (consulente musicale), Jason Mc Gimsey (consulente creativo), Giuliano Spagnul (Consulente mo(n)di del fantastico), Tiziana Saccani (revisore testi). Letture: Corrado Gambi (attore/regista teatrale). Musica: Dust And Danger prodotta ed eseguita da The North. Coordinamento editoriale: Maurizio 'gibo' Gibertini Puoi ascoltare il podcast al seguente link https://www.ahidaonline.com/podcast/episode/24ad59b7/3-cronache-del-boomernauta-ed-mimesis-letture-in-attesa-delle-pubblicazioni-a-puntate-settimanali-del-libro-di-giorgio-griziotti

  • exlet

    Intorno a Mario Giacomelli. Dialogo su fotografia, scrittura e ricerca Il presente dialogo prende le mosse dalla visita alla mostra Mario Giacomelli. Il fotografo e l’artista, a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Katiuscia Biondi Giacomelli, tenutasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 20 maggio al 3 agosto 2025. Massimiliano Manganelli: Girando per le sale della mostra si capisce molto bene che un medium come la fotografia, nato in sostanza per «riprodurre», possa invece essere utilizzato per «produrre», sempre a partire, paradossalmente, da una riproduzione. Giacomelli lavora su un dato «reale», strettamente materico, non fa fotografia deliberatamente astratta, eppure giunge comunque a un’astrazione molto peculiare. Giulio Marzaioli: La componente materica della fotografia di Giacomelli balza agli occhi soprattutto per il contrasto tra scuro della forma e luce dello spazio attorno. Non a caso l’esperienza artistica di Giacomelli viene accostata all’opera di Burri (a mio avviso il rapporto è evidente soprattutto con le Combustioni ), e mi pare che il nesso stia nella fiducia verso la potenzialità di emersione (di ulteriore forma, di diversa matericità ecc.) insita in una superficie apparentemente statica e uniforme (pellicola fotografica o ad esempio cellophane, nel caso di Burri). L’astrazione a cui ti riferisci penso che sia proprio l’esito di un’opera di esplorazione, compiuta anche in camera oscura. Non c’è nessuna deriva simbolista e non credo ci fosse una teoria estetica predefinita da dover dimostrare. La coerenza del percorso di Giacomelli, a mio parere, è da ricondurre all’adesione del suo lavoro a una ricorrenza di temi sottesi e a una rigorosissima e incessante attività di sperimentazione. Alla fine alcune opere si avvicinano a uno stato metafisico che sembra la naturale maturazione dell’immagine. Quest’opera di ridefinizione progressiva della visione reale e del supporto dell’immagine stessa produce una «densità» non così presente in gran parte delle immagini (artistiche e non) da cui siamo subissati ogni giorno. MM: Mi sembra particolarmente interessante il procedimento con il quale si produce l’immagine, perché questa è evidentemente il risultato di una ricerca, non c’è nulla di preimpostato. Giacomelli scatta e poi lavora moltissimo in camera oscura, giocando molto sui contrasti, come si vede benissimo nelle sequenze dei seminaristi o nel ritratto della madre, nel quale a partire da uno stesso negativo è possibile effettuare alcune variazioni con esiti davvero diversi. Sicuramente c’è un’idea della composizione già nel momento in cui si mette l’occhio nel mirino – altrimenti non staremmo parlando di fotografia nel senso artistico e professionale –, tuttavia l’apertura dell’otturatore è soltanto l’avvio di un processo molto più lento ed elaborato. Secondo me è questa la ricerca, ossia l’esplorazione di un campo di possibilità, senza avere in mente una meta predefinita. GM: Le foto della madre rimandano a un altro tratto che a mio avviso è distintivo nell’opera di Giacomelli, ovvero il movimento. Elemento ancor più significativo, trattandosi di fotografia. Sia nelle varie serie di medesime immagini (che risultano variate per contrasto), sia nelle figure in movimento, ottenuto in fase di scatto o per deformazione del supporto dell’immagine in camera oscura, ci troviamo al cospetto di un processo creativo che coinvolge attivamente il fruitore nel tentare una visione propria (una propria disposizione alla visione). Scrivi di «campo di possibilità» e di assenza di «una meta predefinita»; effettivamente chi osserva partecipa alla determinazione di un’immagine (non già dell’immagine) plausibile per lui nell’ambito di un contesto messo a disposizione dall’artista. Se vogliamo riconoscere una «ricerca» nell’ambito di un qualsivoglia percorso creativo, in esso si deve necessariamente presumere che non fosse noto in origine il risultato di questa ricerca; quindi ravvisare l’assunzione di un rischio, l’allontanamento da una zona conosciuta o predefinita (presupponendo che fare arte sia anche un’esperienza conoscitiva).  MM: Per forza di cose le categorie si definiscono ex post , altrimenti sono programmi di poetica, per usare un termine novecentesco che oggi mi pare piuttosto in disuso. Ora, io non saprei dove collocare la ricerca di Giacomelli, so però cosa apprezzo e cosa no del suo lavoro, che è poi ciò che apprezzo anche in altri campi artistici. Trovo interessante, per esempio, quella matericità di cui dicevo all’inizio, accompagnata a un altro elemento che contrasta molto con la comune idea di fotografia, cioè quello di rappresentazione. Giacomelli non rappresenta la realtà, ma in qualche misura la costruisce, la utilizza, ossia ne utilizza i dati, per fare altro. E qui penso sia individuabile un’analogia con la letteratura, che si ritrova a lavorare con una materia prima che le preesiste – ossia la lingua d’uso – per dislocarla e trasformarla. Se ci pensi, qui sta l’ambiguità, in positivo come in negativo, di letteratura e fotografia: usare elementi condivisi da tutti che recano con sé, sempre e comunque, un significato. Meno mi sento di apprezzare, invece, certe torsioni liriche, soprattutto dell’ultimo Giacomelli, in cui percepisco un’intenzione che ritengo fastidiosissima, spesso riscontrabile in certo cinema d’autore: l’idea di creare immagini «poetiche», come se questa poeticità, peraltro, fosse un universale valido per tutti i luoghi e tutte le stagioni. GM: Effettivamente c’è differenza tra l’immagine che si crea mentre la esplori e l’immagine già creata (creata appositamente per la riproduzione o trovata e riprodotta tal quale). Se vogliamo restare sull’analogia con la scrittura, il medesimo invito alla scoperta avviene quando il linguaggio ti sorprende perché maneggiato altrimenti non soltanto dall’uso quotidiano, ma anche da ciò che ti aspetti (in questo senso sarebbe auspicabile che un autore si allontanasse qualche metro dalla propria zona di sicurezza ogni volta che affronta un nuovo percorso di scrittura). Tuttavia anche nelle ultime opere di Giacomelli, che possono apparire maggiormente accondiscendenti con i gusti più canonici del pubblico, è presente un elemento comune a tutto il suo lavoro che rende ulteriormente attuale, se non opportuna, la conoscenza e la frequentazione della sua opera. Mi riferisco all’elemento temporale, a come il tempo (nell’immagine, dell’immagine) emerge rispetto a chi osserva la fotografia. Per opposizione mi viene in mente l’iperrealismo di Edward Hopper: laddove nei quadri di Hopper tutto è esattamente definito e ingloba l’osservatore nell’attimo ritratto che si dilata all’infinito, in Giacomelli è, al contrario, un’opera di sottrazione che concede infinite possibilità di misurazione o determinazione del tempo. Questo sforzo è evidente, e peraltro anche documentato, proprio nella serie sui seminaristi: addirittura sui provini di stampa Giacomelli apponeva indicazioni per la cancellazione di elementi sullo sfondo che potessero alterare l’effetto di sospensione desiderato. Ho avuto questa impressione anche osservando i paesaggi rurali, dove il gioco estremo di contrasto toglie qualsiasi possibilità di intendere la luce come riferimento temporale. La possibilità offerta all’osservatore di immersione nel tempo delle immagini senza una misura predefinita è un invito a una attivazione (a determinare) che mi pare possa considerarsi una sorta di ipotetico antidoto alla massa di immagini da cui siamo sommersi (la furia delle immagini, per dirla con Fontcuberta) e che provoca una passiva e acritica soggezione.  MM: Noi viviamo nell’epoca della postfotografia (Fontcuberta insegna), Giacomelli in quella della fotografia. Lo stesso potremmo dire della poesia: noi viviamo in un’epoca in cui la poesia tradizionalmente intesa è praticata soltanto come attività residuale, come del resto si pratica ancora la fotografia su pellicola. Però non considero la tendenza lirica come un cedimento al gusto mainstream : credo che sia connaturata in quel tipo di fotografia. A volte emerge di più, a volte meno. Se ci pensi, anche la sottrazione del tempo tramite la cancellazione degli elementi spaziali di contorno va in questa direzione. Ecco, a me interessa più il processo con il quale Giacomelli arriva a realizzare le proprie immagini, più che il vero e proprio risultato. Faccio un esempio: le immagini degli anziani della serie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi  potrebbero essere scattate in un tempo qualunque. Giacomelli combatte il tempo sul suo stesso terreno, cercando di sottrarlo alla fotografia, che è un’arte strettamente vincolata alla temporalità. GM: Nel caso della serie a cui fai riferimento, ancora una volta penso che sia l’uso della luce a «isolare» i soggetti nello spazio, così da renderli presenti e ulteriormente definiti. Il bianco accentuato del lenzuolo o il nero diffuso di una coperta o della parete di fondo creano una campitura per il rilievo della forma umana, quasi ci trovassimo di fronte a un altorilievo. Chiaramente non siamo in presenza di un approccio documentaristico di stampo strettamente politico o civile, bensì di un accostamento artistico teso a porre in risalto l’aspetto umano, la dignità della persona, sebbene ritratta in un contesto di disagio (l’ospizio, nella serie richiamata). Mi continuo a chiedere come tradurre in termini condivisibili la lezione che ritengo, ancora una volta, attuale dell’esperienza artistica di Giacomelli. Forse il processo creativo di cui scrivi è uno dei principali elementi da considerare, se associato all’intenzione sottesa a quel processo. Detto altrimenti: l’uso della luce per porre in rilievo ciò che si ritiene determinante nella visione (ad es. nel caso della serie da te citata, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi ) o, al contrario, per scoprire cosa può offrire una determinata immagine (ad es. nei paesaggi). Il fattore determinante è la sensazione di profondità che emerge dalle fotografie di Giacomelli, che è ben altra cosa rispetto alla discesa verticale in una dimensione retorica o di supponenza. L’opera di Giacomelli sembra suggerire un utilizzo della materia di cui si dispone (immagine/luce nell’arte fotografica, ma potrebbe valere anche in riferimento a pagina/linguaggio nella letteratura, ecc.) per invitare l’osservatore (lettore, ecc.) a una riflessione comune; ciò non per mezzo di una postura preordinata o per la preventiva costruzione di un/del senso, bensì attraverso il trattamento della materia stessa. Forse non si tratta di negare o censurare aspetti connessi a qualsiasi processo creativo, ma di riconoscere, all’interno di quel processo, pari importanza alle varie dimensioni coinvolte. MM: Sì, è chiaro che si parte dalla materia di cui si dispone, che nel caso di Giacomelli è in primo luogo il paesaggio delle colline marchigiane. Mi stupisce, a questo proposito, che Volponi non abbia mai scritto di Giacomelli, perché, al di là della comune origine regionale, c’è un dato che li avvicina: la realtà non è data a priori, ma si costruisce. Per tornare all’analogia con la scrittura, quello che conta, allora, è l’uso che si fa della materia di cui si dispone. Intendo non solo il materiale linguistico, ma tutto quello che concorre alla costruzione di un testo. E soprattutto conta la postura con la quale si affronta quel materiale, perché a me interessa che di qualunque materiale si faccia un uso critico e non passivo, che si tratti della lingua o dei contenuti autobiografici o della trama di una narrazione.  GM: Critica e crisi hanno la stessa radice etimologica. Possiamo convergere sull’assunzione che la crisi sia insita nella scelta che a sua volta è una determinazione autonoma rispetto alle possibilità offerte. Quando scelgo di sperimentare partendo da una materia disponibile (come fa Giacomelli), compio una scelta ben definita senza che, tuttavia, sia noto l’esito di quella scelta. Non so se per «uso critico» intendevi questo scarto (dalla forma primaria in cui si manifesta la materia oggetto della creazione artistica). Proprio considerando i gradi di questo scarto possiamo valutare l’originalità di un’opera. Lo stesso valga per quanto riguarda forme, stili, tecniche che, una volta individuati e comunemente adottati, diventano essi stessi materiali noti. L’uso pedissequo di tali «strumenti» non può evidentemente connotare un’opera come inedita. Da questo punto di vista vi è più di un’accezione in cui può intendersi la parola «ricerca». E penso che, se consideriamo l’ambito letterario, tale termine possa essere considerato più o meno comprensivo in base al profilo che vogliamo scegliere: su un piano politico-culturale, ad esempio, si potrà intendere «di ricerca» il posizionamento di un autore rispetto a un ambiente di riferimento c.d. mainstream . Se invece passiamo a considerare il piano della pratica di scrittura, allora il discorso si fa più complesso, perché non sempre l’appartenenza a una scena di riferimento denota una scrittura necessariamente originale. Esprimevo le stesse considerazioni una dozzina di anni fa (su Nazione Indiana,  qui ); nel frattempo non sono mancati sforzi volti a perimetrare l’ambito di riferimento né occasioni di mappatura o di coinvolgimento attorno al termine «ricerca». Tuttavia quello che a mio avviso è mancato (e manca tuttora) è un inquadramento «critico» di più ampio respiro che, in primo luogo, si ponga domande al di là delle risposte che noi stessi autori ci siamo dati in questi anni, con tutta una scorta di contrapposizioni e distinzioni più o meno sostenibili. E ciò per definire o ridefinire un campo che potrebbe anche assumere fisionomie diverse. Peraltro, in un percorso autoriale possono esserci momenti in cui maggiore è la propensione alla ricerca e momenti in cui ciò non avviene. La ricerca in senso stretto è un «modo» di trattare creativamente uno o più linguaggi e non reca in sé alcuna connotazione valoriale. Ma credo che stiamo aprendo una nuova e ulteriore discussione.  MM: Infatti, ci stiamo spostando verso questioni di respiro diverso e decisamente più ampio. Direi che conviene fermarci qui, per il momento. ● L’editore resta a disposizione per gli eventuali aventi diritti sull’immagine di copertina

  • selfie da zemrude

    # 1 Cronache del Boomernauta ed. Mimesis: letture in attesa delle pubblicazioni a puntate settimanali del libro di Giorgio Griziotti Nei primi giorni di novembre 2025 cominceranno su AhidaOnline | Selfie da Zemrude le pubblicazioni a puntate settimanali del libro di Giorgio Griziotti – (per gentile concessione di) ed. Mimesis - Cronache del Boomernauta. Questo è il primo di quattro inviti con letture significative del libro in oggetto. Buon ascolto. Hanno collaborato: Giorgio Griziotti (autore del libro), Martino Saccani (illustratore), Franco Oriolo (consulente musicale), Jason Mc Gimsey (consulente creativo), Giuliano Spagnul (Consulente mo(n)di del fantastico), Tiziana Saccani (revisore testi). Letture: Corrado Gambi (attore/regista teatrale). Musiche: Behind Bars Collective. Coordinamento editoriale: Maurizio 'gibo' Gibertini Puoi ascoltare il podcast al seguente link: https://www.ahidaonline.com/podcast/episode/19ad837b/cronache-del-boomernauta-ed-mimesis-letture-in-attesa-delle-pubblicazioni-a-puntate-settimanali-del-libro-di-giorgio-griziotti

  • selfie da zemrude

    # 2 Cronache del Boomernauta ed. Mimesis: letture in attesa delle pubblicazioni a puntate settimanali del libro di Giorgio Griziotti Nei primi giorni di novembre 2025 cominceranno su AhidaOnline | Selfie da Zemrude le pubblicazioni a puntate settimanali del libro di Giorgio Griziotti – (per gentile concessione di) ed. Mimesis - Cronache del Boomernauta. Questo è il secondo di quattro inviti con letture significative del libro in oggetto. Buon ascolto.  Hanno collaborato: Giorgio Griziotti (autore del libro), Martino Saccani (illustratore), Franco Oriolo (consulente musicale), Jason Mc Gimsey (consulente creativo), Giuliano Spagnul (Consulente mo(n)di del fantastico), Tiziana Saccani (revisore testi). Letture: Corrado Gambi (attore/regista teatrale). Musica: Franco Oriolo. Coordinamento editoriale: Maurizio 'gibo' Gibertini Puoi ascoltare il podcast al seguente link https://www.ahidaonline.com/podcast/episode/2708129f/2-cronache-del-boomernauta-ed-mimesis-letture-in-attesa-delle-pubblicazioni-a-puntate-settimanali-del-libro-di-giorgio-griziotti

  • scienza e politica

    # 5. Gli Ambulatori popolari gratuiti: una rete alternativa di cura e lotta per la salute. La Rete degli Ambulatori popolari di Palermo Miekal And L’ambulatorio popolare di Borgo Vecchio nasce nel 2016 a Palermo all’interno del Centro Sociale Anomalia, con l’obiettivo di rispondere alle difficoltà di accesso ai servizi sanitari in quartieri marginali come Borgo Vecchio, Zen e Danisinni. Iniziato come servizio di counseling sanitario, si è progressivamente ampliato fino a offrire visite multispecialistiche (cardiologia, ginecologia, pediatria, ecc.), grazie anche al supporto di realtà come “Non una di meno”, Save the Children e parlamentari locali. Durante la pandemia di Covid-19, ha attivato centri vaccinali nei quartieri a rischio. È attualmente coinvolto in progetti di ricerca su rischio cardiovascolare e prevenzione delle epatiti. L’esperienza dimostra l’importanza di una sanità territoriale e preventiva, fondamentale per la sostenibilità del sistema sanitario nazionale. L’ambulatorio popolare di Borgo Vecchio. L’esperienza della rete di ambulatori popolari nasce nell’autunno del 2016 all’interno del Centro sociale Anomalia , come ampliamento e rafforzamento dell’intervento sociale nel quartiere Borgo Vecchio di Palermo. Noi operatori, medici e infermieri, che lavoravamo in ospedale avvertivamo l’enorme carico di lavoro (chi scrive è un cardiologo ospedaliero in pensione) cui eravamo sottoposti senza riuscire a offrire le prestazioni necessarie alla domanda di servizi sanitari che rimaneva largamente inevasa. Dall’altra parte sentivamo le lamentele e le esacerbazioni venire dal quartiere Borgo vecchio, dove si trova il Centro sociale, circa la difficoltà ad accedere ai servizi sanitari. Le lamentele finivano sempre con la frase: «Allora si può morire». Borgo vecchio è un quartiere del centro storico di Palermo di povertà e degrado sociale e urbanistico estremi. Da qui è nata l’ipotesi di avviare un servizio di counseling  sanitario che potesse aiutare e accompagnare i pazienti nei loro percorsi sanitari. Ma col tempo abbiamo avvertito la necessità di erogare un servizio che desse anche prestazioni specialistiche e diagnostiche. Con questo obiettivo abbiamo comprato un elettrocardiografo e abbiamo iniziato a fare visite cardiologiche con ECG. I deputati 5 Stelle del parlamento siciliano ci hanno poi fatto dono di un ecografo multidisciplinare con cui abbiamo potuto erogare prestazioni specialistiche di ecografie cardiache, addominali e ginecologiche. In breve tempo si è costituito anche un gruppo di lavoro con le compagne di Non una di meno  che ha avviato un fiorente servizio di visite ed ecografie ginecologiche con screening e Pap test. Siamo così riusciti a creare a Borgo Vecchio un servizio sanitario capace di fornire prestazioni multispecialistiche (cardiologia, medicina, neurologia,ortopedia, fisiatria, endocrinologia…) su prenotazione. L’ambulatorio ginecologico ha erogato circa 300 visite annue con altrettanti Pap test.  L’Ambulatorio Sanitario dello Zen nasce dal rapporto con Zen Insieme , associazione che da anni lavora allo Zen, e con Save the Children . Le prestazioni che vengono erogate allo Zen sono rivolte non sola alla popolazione adulta ma anche alla popolazione pediatrica. In tutti gli ambulatori eroghiamo circa trenta visite cardiologiche, con sei valutazioni ecocardiografiche, e dieci visite diabetologiche alla settimana. Nel settore pediatrico, gestito insieme da Save the Children e Zen, si è sviluppata una comunità di pediatri, logopedisti, foniatri e fisioterapisti che vanno incontro alle esigenze del quartiere. Durante il periodo del Covid-19, grazie all’impegno del commissario provinciale per emergenza Covid, Dr. Renato Costa (attuale presidente della rete ambulatori popolari) abbiamo costituito dei centri spoke vaccinali nei quartieri a rischio di Palermo: Borgo Vecchio, Zen e Danisinni. Il rione di Danisinni si trova in una enclave a cul di sacco nel centro di Palermo dove vive una comunità che ha ricavato le case direttamente dalle grotte presenti nella timpa del quartiere. Di Danisinni ne parla per la prima volta Danilo Dolci alla fine degli anni Cinquanta; veniva chiamato il pozzo della morte e in seguito fu tratto il film Cortile Cascino . In questo quartiere abbiamo somministrato circa 3000 vaccini mobilitando le risorse dell’attivismo sociale. Siamo inseriti in due progetti di ricerca di cui andiamo fieri. Il primo è il CV-risk, ricerca sui fattori di rischio cardiovascolare che il ministero della sanità ha affidato al circuito degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCSS) nazionali. Siamo stati coinvolti dall’Istituto Mediterraneo per i Trapianti ISMETT IRCSS di Palermo che ci ha affidato la valutazione dei fattori di rischio cardiovascolare in popolazioni marginali e di povertà sanitaria. Il secondo è un progetto di medicina preventiva sulle epatiti B e C, attraverso dei prelievi salivari, in collaborazione con la cattedra di gastroenterologia ed epatologia dell’Università di Palermo diretta dal Prof. Carlo Camma’.  È del tutto evidente che la sostenibilità di un servizio sanitario nazionale pubblico sia legata alla creazione di una medicina preventiva che possa reggere l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dei costi sanitari.

  • konnektor

    La guerra segreta della Francia in Camerun Isabel De la Sierra Le potenze coloniali occidentali sono incapaci di concepire un mondo non coloniale, il che significa in realtà che sono talmente impegnate nel mantenimento del capitalismo come sistema storico da arrivare a distruggere ogni equilibrio politico, ecosistemico e produttivo in grado di salvare la civiltà umana dalla catastrofe del suo dominio di classe. Proponiamo un'intervista condotta apparsa su « Sidecar » , il blog della « New Left Review » pubblicata con l’espresso consenso del suo editore a Thomas Deltombe uno degli autori del libro pubblicato originariamente da La Découverte, La guerre du Cameroun: L’invention de la Françafrique (1948-1971) (2016), e recentemente ripubblicato in un’edizione aggiornata da Verso Books con il titolo The Cameroon War: A History of French Neocolonialism in Africa (2025) La guerra in Camerun ebbe inizio nei primi anni ‘50 con l’ascesa dell’Union des Populations du Cameroun (UPC), un movimento nazionalista che chiedeva l’indipendenza e la riunificazione dei territori sotto mandato francese e britannico. Parigi rispose con una repressione che si intensificò fino a diventare una lunga guerra di controinsurrezione a partire dal 1955, utilizzando metodi già impiegati in altri conflitti coloniali: internamenti di massa, punizioni collettive, bombardamenti aerei sui villaggi e omicidi selettivi. Quando fu dichiarata ufficialmente l’indipendenza nel 1960, la Francia insediò come presidente Ahmadou Ahidjo, un politico conservatore proveniente dal nord del paese, mentre continuavano, fino all’inizio degli anni ’70, le operazioni militari contro l’UPC. Lo Stato a partito unico di Ahidjo, sostenuto da consiglieri e servizi segreti francesi, schiacciò l’opposizione e costruì un apparato clientelare fedele, fornendo una base stabile per gli interessi petroliferi e commerciali della Francia. Il suo successore, Paul Biya, al potere dal 1982, ha mantenuto lo stesso assetto neocoloniale sotto l’apparenza di un sistema multipartitico, combinando la repressione autoritaria con una liberalizzazione selettiva, garantendo così la continuità di un regime le cui origini risalivano alla violenta repressione della lotta per l’indipendenza del Camerun. Questa guerra, eufemisticamente definita «disordini», è stata a lungo relegata ai margini della storiografia ufficiale francese. Negli ultimi anni, Thomas Deltombe, Jacob Tatsitsa e Manuel Domergue ne hanno messo in luce la portata e la ferocia, e la loro meticolosa ricostruzione della lotta armata e della sua repressione è diventata un punto di riferimento sull’argomento. Il loro libro, pubblicato originariamente da La Découverte, La guerre du Cameroun: L’invention de la Françafrique (1948-1971)  (2016), è stato recentemente ripubblicato in un’edizione aggiornata da Verso Books con il titolo The Cameroon War: A History of French Neocolonialism in Africa  (2025). All’inizio di questo mese, la New Left Review ha parlato con Thomas Deltombe – storico ed editore di La Découverte, nato a Nantes nel 1980 – della sua ricerca alla luce della recente pubblicazione da parte del governo francese di un rapporto sul conflitto franco-camerunese, nel contesto del tentativo di Macron di preservare l’influenza della Francia sui suoi ex possedimenti africani. * New Left Review  Per iniziare la nostra conversazione, potresti offrirci una breve panoramica del tuo percorso? Come sei arrivato a interessarti al Camerun e alla sua storia coloniale e postcoloniale? Thomas Deltombe  Il mio lavoro sulla storia coloniale e su ciò che viene comunemente definito «decolonizzazione» risale al mio primo libro, pubblicato vent’anni fa, sull’islamofobia in Francia. Il tentativo di rintracciare le radici del razzismo contemporaneo mi ha portato al passato coloniale della Francia e ben presto mi sono reso conto che gran parte di ciò che mi era stato insegnato si basava su miti e omissioni. Uno dei miti più tenaci è che le colonie subsahariane della Francia ottennero l’indipendenza in modo pacifico, attraverso un accordo bilaterale con Parigi. Si traccia così una linea di demarcazione tra la cosiddetta «Africa nera» e il Nord Africa, in particolare l’Algeria, dove l’indipendenza è stata ottenuta con la forza. Questa narrazione è durata decenni, facendo passare sotto silenzio le aspre e per lo più infruttuose lotte armate per l’indipendenza combattute nell’Africa subsahariana. Quella che oggi è conosciuta come la guerra del Camerun è forse l’esempio più eclatante di tutti, e il fatto che sia stata dimenticata è proprio ciò che mi ha spinto a studiarla. Quando ho iniziato a lavorare su questa storia a metà degli anni 2000 insieme al giornalista Manuel Domergue e allo storico Jacob Tatsitsa, ho scoperto che il conflitto aveva lasciato poche tracce nella storiografia convenzionale. Al massimo, appariva in una nota a piè di pagina, descritto come «disordini» che erano costati alcune centinaia di vittime. Al contrario, alcuni attivisti, in particolare camerunensi, che cercavano di rompere il silenzio su questo periodo, parlavano di un «genocidio» con centinaia di migliaia di vittime. Di fronte a versioni così diverse, ci siamo proposti di stabilire con la massima chiarezza possibile cosa fosse realmente accaduto in Camerun negli anni ‘50 e ‘60. Ci siamo immersi nella bibliografia esistente, poco conosciuta o da tempo dimenticata, prodotta da militanti, giornalisti e accademici. Questi scritti sono preziosi, ma spesso sono obsoleti o si concentrano solo sulle prime fasi del conflitto. Il nostro obiettivo era ricostruire l’intera sequenza, dalla creazione dell’UPC nel 1948 fino all’esecuzione del suo ultimo leader importante, Ernest Ouandié, nel 1971. Per cinque anni abbiamo lavorato in Francia e in Camerun, ma anche in Gran Bretagna, Paesi Bassi e Svizzera, raccogliendo tutto il materiale d’archivio che siamo riusciti a trovare e registrando il maggior numero possibile di testimonianze. La nostra conclusione, presentata in Kamerun!  Une guerre cachée aux origines de la Françafrique, 1948-1971  (2011), era che la Francia aveva effettivamente combattuto una guerra in Camerun durante gli anni ‘50 e ‘60. Da qui il titolo del nostro secondo libro, La guerre du Cameroun: L’invention de la Françafrique (1948-1971) (2016), che si basava sulla nostra precedente ricerca con l’intenzione di ampliarla. La designazione «guerra» è cruciale: il termine era stato usato raramente dagli studiosi precedenti e, nel caso, solo di sfuggita. A partire dal 1955, la Francia ha impiegato in Camerun le stesse tecniche che stava utilizzando in Algeria, teorizzate con la dottrina della «guerra rivoluzionaria». Non vedevamo alcun motivo per usare la parola «guerra» in un caso e non nell’altro. Se c’è stata una guerra in Algeria, c’è stata anche in Camerun. New Left Review  Come si spiega questa discrepanza nel modo in cui oggi in Francia si ricordano entrambi i conflitti, sia nella letteratura storica che nella percezione pubblica generale? Thomas Deltombe  La prima differenza è di ordine quantitativo: la popolazione del Camerun era in numero molto inferiore a quella dell’Algeria. La seconda è di ordine qualitativo: il Camerun non era una vera e propria colonia, ma un territorio sotto la tutela dell’ONU. E anche gli esiti sono stati completamente diversi. In Algeria prevalse il movimento indipendentista, in Camerun no. A entrambi gli Stati fu concessa l’«indipendenza», ma si trattò di indipendenze di tipo molto diverso. Un’altra differenza emerge dalla cronologia dei conflitti. La guerra d’Algeria ha avuto un inizio e una fine chiari: l’insurrezione del 1° novembre 1954 e gli accordi di Evian del 19 marzo 1962. In Camerun, le cose non sono state così semplici. L’amministrazione coloniale ha progressivamente inasprito la sua posizione nei confronti dell’UPC, che a sua volta ha iniziato a pianificare e poi a lanciare la sua strategia di resistenza armata intorno al 1955-1956. Il conflitto ha raggiunto il suo apice nel momento in cui la Francia aveva concesso al Paese la sua indipendenza formale nel 1960, per poi protrarsi fino all’inizio degli anni ‘70, ma perdendo gradualmente intensità. È stata una guerra, ma una guerra non dichiarata, che non ha avuto né un inizio né una fine ufficiali. C’è una terza differenza importante: la guerra d’Algeria ebbe ripercussioni in tutta la Francia e oltre i suoi confini; la guerra del Camerun è stata combattuta in segreto. Per comprendere questo fatto, occorre considerare la particolare situazione giuridica del Camerun. Dopo la fine della colonizzazione tedesca nella prima guerra mondiale, il territorio è stato posto sotto tutela internazionale – come la Palestina, il Togo e il Ruanda – e affidato principalmente alla Francia, con la concessione di una piccola parte alla Gran Bretagna. Queste due «potenze amministrative», come venivano chiamate, si impegnavano a rispettare determinate norme di comportamento e a riconoscere determinati diritti alla popolazione locale. In virtù della Carta delle Nazioni Unite del 1945 e degli Accordi di tutela del 1946, esse furono incaricate non solo di mantenere «l’ordine pubblico interno», ma anche di garantire «la libertà di pensiero» e di preparare il popolo del Camerun «all’autogoverno e all’indipendenza». Proprio perché la Francia non stava rispettando questi impegni internazionali, ha combattuto la guerra in segreto. «Deve regnare il silenzio», fu l’ordine dei vertici dell’amministrazione coloniale in Camerun nel 1958. La richiesta era assolutamente cruciale, perché la Francia stava combattendo contemporaneamente la guerra in Algeria, che provocava proteste nel Paese e la censura a livello internazionale nei confronti della sedicente «patria dei diritti umani». Il silenzio è continuato anche dopo l’indipendenza del Camerun. Dopo aver insediato con la forza un «regime amico» a Yaoundé, i leader francesi non avevano alcun interesse a rendere note le operazioni militari che continuavano in un Paese ormai considerato «indipendente». Qualsiasi pubblicità avrebbe messo in evidenza l’illegittimità del regime neocoloniale. Il silenzio divenne ancora più profondo quando il nuovo regime arrivò a diventare una brutale dittatura sotto il mandato del presidente Ahmadou Ahidjo, che continuava a godere del sostegno da parte della Francia. Fino a oltre la metà degli anni ‘80, il solo fatto di menzionare i «disordini» poteva comportare l’arresto da parte della polizia politica e la scomparsa in qualche lugubre «campo di internamento amministrativo». Il governo francese ha sostenuto attivamente questa politica di cancellazione. Quando Mongo Beti pubblicò Main basse sur le Cameroun con Maspero nel 1972, il primo libro che svelava il lato oscuro della “decolonizzazione” del Camerun, le autorità lo vietarono e lo confiscarono immediatamente. Con il passare del tempo, e con la censura ancora in vigore, la memoria dei fatti fu cancellata o rimodellata a favore dei vincitori. I veri militanti indipendentisti furono bollati come «terroristi», mentre Ahidjo fu esaltato come «padre della nazione» e devoto «democratico», una favola che la stampa francese ha sostenuto diligentemente. Un altro fattore che ha contribuito a questo silenzio è la straordinaria indifferenza, quasi disprezzo, dell’élite francese verso ciò che accade a sud del Sahara. Il razzismo coloniale, che per decenni ha classificato «bianchi», «arabi» e «neri» in una rigida gerarchia, è ancora vivo oggi: ciò che riguarda i «bianchi» è di estrema importanza, ciò che riguarda gli «arabi» merita una certa attenzione, ciò che accade ai «neri» non ha ovviamente alcuna importanza. Questo comportamento non è esclusivo della Francia, ma questo ordine razziale, ora implicito, rimane profondamente radicato nei media francesi. New Left Review  Nel 2023 Emmanuel Macron incaricò Karine Ramondy di costituire una commissione per indagare sulla guerra del Camerun , la Commission mémoire sur le Cameroun , una delle numerose iniziative presidenziali volte a rivedere il rapporto della Francia con il suo passato coloniale. Secondo te, che contributo può dare il lavoro di tale commissione? Thomas Deltombe  Fin dall’inizio, Macron ha posto le questioni relative alla memoria al centro della sua agenda politica e diplomatica. Anche prima della sua elezione a presidente della Repubblica nel 2017, ha suscitato scalpore dichiarando alla televisione algerina che la colonizzazione era un «crimine contro l’umanità», che richiedeva «scuse» da parte della Francia. A mio avviso, l’obiettivo principale di questa dichiarazione spettacolare era quello di mostrare il proprio coraggio e la novità del suo modo di intendere le cose. All’epoca appena quarantenne, Macron ha cercato di mettere in risalto la sua giovinezza e la sua volontà di «rompere i tabù» come modo per distinguersi dagli altri candidati alla presidenza. I commentatori facevano costantemente riferimento al fatto che avesse lavorato con Paul Ricoeur a un libro dedicato proprio alle questioni della memoria. In sintesi, il candidato Macron, che affermava di trascendere la divisione esistente tra destra e sinistra, prometteva una «rottura» in questo campo come in altri. Una volta eletto, Macron ha ammorbidito la sua posizione. In continuità con i suoi predecessori, ha cercato di utilizzare la politica della memoria come strumento di pacificazione simbolica in una società francese spesso descritta come divisa da «guerre della memoria» tra i discendenti dei coloni, gli harkis , i nazionalisti africani, gli ebrei e altri attori. Allo stesso tempo, ha cercato di trasformare la memoria in uno strumento di soft power  in Africa, dove l’imperialismo francese è sempre più apertamente messo in discussione. In entrambi i contesti, nazionale e internazionale, la parola d’ordine è stata «riconciliazione». Dall’Eliseo, Macron ha cercato, attraverso commemorazioni accuratamente messe in scena, di «riconciliare» la Francia con se stessa e con i suoi partner africani. Ho descritto il coinvolgimento di storici esperti di media come parte di una strategia di «memory washing ». I più importanti sono Benjamin Stora e Pascal Blanchard. Stora, specialista in relazioni franco-algerine, è stato incaricato da Macron di redigere un rapporto sul tema a seguito delle massicce proteste contro la violenza della polizia nella primavera del 2020. Blanchard, che dirige un’agenzia di comunicazione incentrata sulla memoria e lavora da tempo per clienti aziendali, ha compilato, «sotto l’alto patrocinio della presidenza della repubblica», un elenco di personaggi storici «di diversa provenienza» a cui dovrebbe essere dato maggiore risalto nella sfera pubblica. In entrambi i casi, l’obiettivo dichiarato era quello di offrire gesti simbolici ai discendenti dei colonizzati su entrambe le sponde del Mediterraneo. La stessa logica è stata alla base delle varie commissioni create dalla presidenza della Repubblica fin dal 2017. La più nota è quella presieduta da Vincent Duclert, incaricato di esaminare il ruolo della Francia nel genocidio in Ruanda. Nel marzo 2021 il suo rapporto ha debitamente confermato che la Francia aveva «responsabilità gravi e schiaccianti» nel genocidio della popolazione tutsi, ma, soprattutto, la commissione sul genocidio in Ruanda è servita a sbloccare le relazioni franco-ruandesi dopo un quarto di secolo costellato di tensioni. Da allora, la Francia ha effettuato importanti investimenti nel Paese, mentre l’esercito ruandese proteggeva gli impianti di gas della Total in Mozambico. Come ha sottolineato  lo storico statunitense Nathaniel Powell, «il rapporto Duclert, paradossalmente, è servito da copertura per l’avvicinamento francese alla sanguinaria e aggressiva dittatura insediata a Kigali». Ben presto l’Eliseo ha compreso il vantaggio di coinvolgere gli africani in questa tipo di impresa. Da qui la decisione di Macron di reclutare lo storico camerunese Achille Mbembe  per organizzare un «vertice franco-africano» a Montpellier nel 2021 e di avviare «commissioni   miste», che riuniscano accademici francesi e africani. Il primo organismo congiunto di questo tipo è stata la commissione sulla guerra del Camerun che hai citato, convocata nel 2023-2024 sotto la direzione congiunta di Ramondy e del cantante camerunese Blick Bassy. Il rapporto è stato presentato nel gennaio 2025. Da allora, Macron ha annunciato la creazione di una commissione mista sulla storia franco-malgascia e un’altra sulla storia delle relazioni tra Francia e Haiti. È significativo che sia stata annunciata un’altra commissione sulla guerra d’Algeria, che alla fine è fallita a causa del deterioramento delle relazioni diplomatiche tra Parigi e Algeri. È importante sottolineare che lo scopo di queste commissioni è più politico, diplomatico e comunicativo che accademico. Finora, le commissioni hanno apportato poco a ciò che gli specialisti già sapevano, ma hanno comunque costituito un gruppo di «esperti» che, avendo accettato di collaborare con l’Eliseo, sono obbligati a fornire sostegno mediatico e a concedere l’imprimatur della loro autorità accademica. La strategia va ancora oltre. Approfittando dei riflessi corporativisti del mondo accademico francese e del clima di paura indotto dal potere politico in una professione sempre più precaria e vulnerabile, la presidenza ha stroncato sul nascere qualsiasi sfida alla sua politica della memoria. Gli storici che si sono messi al suo servizio vengono raramente, o mai, criticati nei circoli accademici, almeno in pubblico. Al contrario, sono invitati a numerosi seminari e conferenze, dove nessuno chiede se il loro ruolo debba davvero essere quello di lavorare per l’Eliseo e stringere la mano agli autocrati africani «amichevoli» con la Francia. L’Eliseo sta utilizzando la politica della memoria per mettere a tacere il dissenso degli africani e dei loro discendenti in Francia. Paul Max Morin e Sébastien Ledoux lo dimostrano chiaramente nel loro studio L’Algérie de Macron: Les impasses d’une politique mémorielle  (2024), le cui conclusioni sono ugualmente applicabili al suo approccio verso l’Africa subsahariana. Con una manciata di «gesti» simbolici, Macron spera di frenare la crescente ondata di proteste anti-francesi verificatesi a sud del Sahara e di contrastare quelle che lui definisce «manipolazioni della memoria» effettuate dalle potenze rivali, in particolare dalla Russia. In questo senso, continua una lunga tradizione coloniale e neocoloniale, consistente nell’accettare alcune delle critiche rivolte alla Francia per neutralizzare l’opposizione antimperialista. Il suo riformismo si aggiunge a quello dei suoi predecessori, che hanno cercato di prolungare la tanto decantata «presenza» della Francia in Africa, termine coniato da Mitterrand negli anni ‘50, attraverso innovazioni cosmetiche. Il parallelismo con Mitterrand, che ho approfondito nella mia ultima ricerca, L’Afrique d’abord! Quand François Mitterrand voulait sauver l’Empire français  (2024), è sorprendente. All’inizio degli anni ‘50, Mitterrand ricopriva prima la carica di ministro della Francia d’Oltremare (in pratica, ministro delle colonie subsahariane) e poi quella di ministro dell’Interno, con responsabilità sull’Algeria. Fu uno dei principali teorici del neocolonialismo, ideando una strategia per indebolire le proteste radicali attraverso concessioni riformiste. A suo avviso, l’introduzione di piccoli aggiustamenti, combinata con la creazione di alleanze con le élite locali più moderate – le più propense ad accettare la «mano tesa» delle autorità coloniali – sarebbe stato il modo migliore per preservare ciò che poteva essere salvato degli interessi francesi nel continente. Macron si inserisce pienamente in questa tradizione neocoloniale. Il «piano di riconquista» di cui ha parlato durante la sua visita di Stato in Sudafrica nel maggio 2021 è molto simile a quello abbozzato da Mitterrand settant’anni prima: affidarsi agli imprenditori, agli intellettuali e agli artisti africani per contrastare i movimenti che chiedono una rottura totale con l’ex potenza coloniale, rapidamente bollati come «antifrancesi». Questo è il progetto alla base della retorica della «riconciliazione» franco-africana e degli slogan ripetuti fino alla nausea sulla «nostra storia condivisa». Al fine di preservare questa presunta storia condivisa, imposta senza il consenso dei colonizzati e dei loro discendenti, e dato che «la Francia ha molto da fare nel continente», Macron ha dichiarato  a Yaoundé, nel luglio 2022, la necessità di «eliminare gli ostacoli del passato». «Se prendiamo questa strada», ha sostenuto, «possiamo persino trasformare questi malintesi in un’opportunità. Un’opportunità per la Francia, naturalmente, perché credo che tra la Francia e il Camerun, tra la Francia e il continente africano, esista una profonda storia d’amore». Il resto del discorso, interamente dedicato agli interessi economici della Francia in Camerun e alle rivalità internazionali per le risorse dell’Africa, ha lasciato pochi dubbi su ciò che sta alla base di questa «relazione». Gli «ostacoli del passato» si frappongono alla salvaguardia degli interessi economici e strategici della Francia in Africa. New Left Review  Non c’è stato però un cambiamento nel discorso ufficiale? Dopo tutto, Macron ha riconosciuto per la prima volta che la Repubblica aveva combattuto una guerra in Camerun. Thomas Deltombe  Se si guarda alla versione dell’Eliseo, diffusa dalla stampa francese, la ricerca accademica ha spianato la strada alla politica: una commissione di storici ha stabilito che c’era stata una guerra in Camerun, il che ha portato il presidente della Repubblica a riconoscere la responsabilità della Francia. In realtà, le cose sono andate in modo molto diverso. Come ho detto, il presidente ha effettivamente cooptato gli storici per abbellire un esercizio di soft power  basato sulla memoria. Lo so per esperienza diretta, poiché sono stato contattato dall’Eliseo pochi giorni prima del viaggio di Macron a Yaoundé alla fine di luglio 2022. Sono stato invitato a «sfidare pubblicamente il presidente» sulla guerra del Camerun, in modo che avesse l’occasione giusta per annunciare la creazione della sua commissione. Naturalmente ho rifiutato questa curiosa proposta. In ogni caso, Macron non aveva alcun dubbio sulla realtà del conflitto. «È chiaro che ci sono state atrocità, una guerra e dei martiri», ha dichiarato  durante la stessa visita. «È già stato fatto molto lavoro e ora nessuno discute i fatti essenziali», ha confermato  Mbembe, che ha accompagnato Macron nel suo viaggio e ha svolto un ruolo importante dietro le quinte. Ciò non significa che il lavoro degli storici della commissione non abbia valore. Contiene una grande quantità di dettagli di indubbio interesse e si addentra in territori ancora poco esplorati, come il funzionamento dell’apparato giudiziario nel Camerun alla fine degli anni ‘50. Tuttavia, molte questioni cruciali rimangono nell’ombra, in particolare quella degli interessi francesi. La commissione ha evitato di affrontare gli interessi economici della Francia in Camerun e ha eluso lo scopo geopolitico del conflitto. È evidente che l’obiettivo era quello di evitare di mettere in imbarazzo i grandi dell’attuale regime camerunese, erede diretto di quello instaurato durante la guerra. È anche sorprendente che la commissione non abbia cercato di calcolare con precisione il numero delle vittime. Basandosi sulle cifre citate da autori precedenti, si è limitata a confermare che la guerra ha causato «decine di migliaia di morti». Date le notevoli risorse finanziarie di cui ha disposto la commissione, ci si sarebbe potuti aspettare uno studio demografico in grado di fare chiarezza su questa delicata questione. Un’altra questione delicata che è stata tralasciata riguarda la qualificazione giuridica dei crimini commessi dalla Francia: torture, incendi di villaggi, deportazioni di massa. Crimini di guerra? Crimini contro l’umanità? Genocidio, come alcuni hanno affermato? La commissione ha invece dichiarato che non era compito degli storici fornire definizioni giuridiche dei crimini del passato. Posso accettare questo punto di vista, ma allora perché, quando nel giugno 2025 Macron è stato interrogato sulla natura giuridica dei crimini commessi dall’esercito israeliano a Gaza, il presidente ha risposto che  spetterebbe agli storici decidere se si trattasse di genocidio? Se politici e storici continuano a passarsi la palla, quando sarà fatta giustizia  per le vittime dei crimini coloniali? New Left Review  Macron ha rilasciato la sua dichiarazione sul Camerun sotto forma di lettera, giusto? Thomas Deltombe  È un documento sorprendente. In primo luogo, la lettera era indirizzata a Paul Biya, erede del regime di terrore instaurato dalla Francia durante la guerra combattuta in Camerun. Perché non indirizzarla al popolo camerunese, che è la vera vittima del conflitto, che ha sopportato l’autocrazia di Biya dal 1982? Da un punto di vista simbolico, la scelta è sorprendente. In secondo luogo, la lettera, presentata ovunque come un riconoscimento «ufficiale», non è mai stata pubblicata su nessuna piattaforma ufficiale. Non compare in nessuna parte del sito web   dell’Eliseo, né sugli account dei social media del governo. È arrivata alla stampa solo a metà agosto 2025, quando la maggior parte dei francesi, compresi i giornalisti, è in vacanza. Da notare poi che ha coinciso con la notizia proveniente dal Camerun che Maurice Kamto, il principale oppositore di Biya, era stato escluso dalla corsa alle elezioni presidenziali previste per il 12 ottobre. Nella migliore delle ipotesi, comunque, si è trattato di un riconoscimento non ufficiale, ammesso che una cosa del genere possa esistere. Un gesto vuoto e meschino che, inoltre, alimenta la propaganda elettorale di Biya. Letta riga per riga, la lettera di Macron è scandalosa. È vero che parla di una «guerra», come aveva già fatto nel 2022, ma non si fa più riferimento alle «atrocità», e tanto meno ai «crimini». Al loro posto, si ricorre all’eufemismo: «violenze repressive di vario tipo». La lettera cita i nomi di quattro ribelli nazionalisti uccisi dalla Francia, ma così facendo cancella le decine di migliaia di vittime del conflitto. Peggio ancora, postula la negazione assoluta del coinvolgimento francese nella morte di Félix Moumié, presidente dell’UPC, avvelenato a Ginevra nell’ottobre 1960 da un agente dei servizi segreti, nonostante alti funzionari francesi abbiano da tempo riconosciuto la responsabilità di Parigi nell’omicidio. Un’altra caratteristica sorprendente della lettera è che si riferisce solo al cosiddetto periodo della «decolonizzazione». La commissione di storici ha fatto lo stesso, limitandosi per mandato agli anni 1945-1971. In questo modo, la disputa storica franco-camerunese è chiaramente limitata solo a quel periodo, il che permette di tralasciare molte questioni fondamentali come i crimini commessi dalla Francia fino al 1945, un’epoca di saccheggi incredibili e lavori forzati di massa, e il sostegno incondizionato fornito da Parigi a un regime autocratico e repressivo, durato in Camerun per decenni, periodo di tempo segnato anche dal massiccio sfruttamento delle risorse a vantaggio soprattutto di multinazionali francesi come Total e Bolloré. Eppure questa lettera, che non offre né scuse né suggerimenti di riparazione, viene salutata dalla stampa come un «importante punto di svolta commemorativo» (per citare il sempre compiacente Pascal Blanchard). A mio parere, sembra piuttosto uno scherzo di cattivo gusto, di pessimo gusto in realtà, data la portata e la gravità dei crimini in questione. New Left Review  In Camerun, per molto tempo è stato cancellato qualsiasi riferimento alla guerra sotto il regime di Biya. Tuttavia, i massacri, i villaggi incendiati e gli omicidi politici hanno lasciato profonde cicatrici. In che modo continua a circolare oggi la memoria di quei fatti nella società camerunese? Hai idea di come sia stato accolto lì il rapporto della commissione Ramondy? Thomas Deltombe  Non sono la persona più indicata per descrivere come i camerunesi percepiscano le iniziative commemorative di Macron, ma nelle testimonianze che abbiamo raccolto sul campo ci è stato ripetuto più volte che «la guerra non è finita». Questa frase ha colpito profondamente Manuel, Jacob e me. Perché questa guerra senza fine, combattuta a bassa intensità per decenni, potrebbe facilmente riaccendersi in Camerun. In altre parole, non è solo una questione di storia. È ancora un tema scottante del presente. È qui che sta l’errore di Macron. Attraverso i suoi stratagemmi commemorativi, cerca di relegare al passato fenomeni storici che, in realtà, non si sono conclusi. La sua grande idea, come ho detto, è quella di «eliminare gli ostacoli del passato», esigere dai suoi omologhi africani di «voltare pagina». In realtà, si tratta di un esercizio di autoassoluzione: ora che «noi» abbiamo riconosciuto i nostri crimini, smettiamo di ossessionarci con il passato. Ma è difficile scrivere una «nuova pagina di storia», quando la sceneggiatura politica proviene direttamente dal neocolonialismo dell’era Mitterrand e quando Parigi continua a sostenere vecchi dittatori filo-francesi. New Left Review  Le recenti battute d’arresto subite dalla Francia nel Sahel – il ritiro dal Mali, dal Burkina Faso e dal Niger, la graduale riduzione dell’operazione Barkhane – sembrano segnare la fine di un ciclo di attività militare e politica. In questo contesto, la Françafrique è ancora una lente utile per comprendere le attuali relazioni franco-africane, o dovrebbe essere messa da parte in quanto categoria obsoleta? Thomas Deltombe  In L’empire qui ne veut pas mourir: Une histoire de la Françafrique  (2021), il libro che ho co-curato sull’argomento, la definiamo come un sistema neocoloniale molto flessibile. Da quasi quarant’anni se ne proclama la morte, ma il neocolonialismo francese si è continuamente adattato ai grandi cambiamenti mondiali: la caduta del muro di Berlino, la «guerra al terrorismo», l’ascesa della Cina. Ogni appuntamento elettorale porta con sé la promessa di rompere con questo passato neocoloniale, ma una volta in carica, i nuovi leader fanno il contrario e cercano di riformare il sistema per prolungarlo. Questa era la dottrina di Mitterrand all’epoca della decolonizzazione negli anni ‘50 e la stessa logica è in vigore dalla metà degli anni 2000. Come ho detto, Macron si inserisce in questa tradizione: riformare la Françafrique per mantenerla in vita, ma di fronte a un’ostilità insolitamente forte in Africa, causata dalla congiuntura storica e aggravata dalla sua stessa arroganza, ha avuto molto meno successo di quanto si aspettasse. La sua politica africana, come del resto quella nazionale e internazionale, è un fallimento. La Francia è ora vituperata in gran parte del continente; le ex roccaforti della sua «doppia línea di fortezze» si sono rivoltate contro il loro antico protettore: Mali, Niger, Burkina Faso e, in una certa misura, Senegal. Tuttavia, sotto questi cambiamenti a volte drammatici, che hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, ci sono delle continuità. Alcuni regimi rimangono fedeli alla Francia: Costa d’Avorio, Benin, Togo e Repubblica del Congo. I meccanismi fondamentali, come la cooperazione in materia di sicurezza e il franco CFA,  rimangono saldamente in piedi. Il Camerun, che dal 1960 ha avuto solo due presidenti, è un esempio paradigmatico di questa continuità. Macron preferirebbe sicuramente avere a Yaoundé un omologo più giovane, «più moderno» e più favorevole alle imprese, ma nel frattempo continua a sostenere il regime di Biya. Non ha sospeso la cooperazione in materia di sicurezza, nonostante la guerra abbia devastato le regioni anglofone del Paese, causando 6500 morti e 700.000 sfollati dal 2017. Nell’ambito dell’accordo di cooperazione, Macron ha inviato il capo della gendarmeria francese in Camerun lo scorso giugno, visita che ha suscitato grande interesse in un momento in cui il governo di Biya stava facendo tutto il possibile per manipolare le prossime elezioni presidenziali. La visita ha segnato «una nuova tappa nel rafforzamento delle relazioni di sicurezza tra i due Stati», come ha sottolineato  Jeune Afrique. New Left Review  L’erosione dell’influenza francese in Africa ha spianato la strada ad altre potenze: la Russia, come hai già menzionato; la Cina, onnipresente attraverso prestiti e infrastrutture; la Turchia, con la sua crescente influenza diplomatica e militare; gli Emirati Arabi Uniti, che cercano di ampliare la loro presenza attraverso investimenti e alleanze in materia di sicurezza. Come dobbiamo interpretare questa nuova configurazione multipolare? Si tratta di un’opportunità per le società africane, in grado di mettere in competizione le potenze tra loro, o semplicemente di un cambiamento nella dipendenza? Thomas Deltombe  Non spetta a me dire con chi devono lavorare gli africani. Ciò che mi interessa è il discorso ufficiale e mediatico in Francia. Anche in questo caso, i parallelismi con gli anni ‘50 sono sorprendenti. Allora come oggi, la Francia, ansiosa di conservare il suo impero africano, guardava con nervosismo sia alle rivendicazioni popolari africane sia alla concorrenza imperiale delle potenze rivali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica). La paura della «perdita», onnipresente tra i commentatori degli anni ‘50, è ancora viva oggi. Gli articoli di giornale e i programmi televisivi sono pieni di questa paura: «Non perdiamo l’Africa!», «La Francia sta perdendo l’Africa?», «Come Emmanuel Macron ha perso l’Africa». Un vocabolario rivelatore, sessantacinque anni dopo l’indipendenza. Il corollario di questa ansia (post)coloniale è il presupposto che gli africani, incapaci di scegliere il proprio destino, siano condannati a vivere sotto tutela: se non sotto quella della Francia, allora sotto quella di Mosca o Pechino. L’implicazione è che la Francia potrà anche non aver sempre agito in modo irreprensibile in Africa, ma gli africani starebbero molto peggio sotto il dominio di Vladimir Putin o Xi Jinping. Anche ammesso che ciò fosse vero, i francesi non sono nella posizione di impartire tali lezioni. New Left Review  L’accesso agli archivi rimane una questione cruciale per la storia della guerra del Camerun, così come per altri conflitti coloniali. In Francia, gli annunci ufficiali di «libero acceso» sono spesso accompagnati da restrizioni che, con il pretesto di proteggere la privacy o la sicurezza nazionale, mantengono in pratica il segreto. Da parte del Camerun, l’accesso è altrettanto limitato, sia per il periodo coloniale che per i decenni successivi. Come affronti queste sfide? Thomas Deltombe  La questione degli archivi solleva diversi problemi. Uno dei meno discussi, ma forse il più importante, è la loro conservazione. In Camerun, gli archivi vengono spesso lasciati marcire in stanze umide e poco ventilate. Un’altra questione è l’accessibilità. In termini generali, molti archivi relativi alla guerra del Camerun sono aperti. Con Jacob e Manuel, abbiamo potuto consultare migliaia di documenti in Francia e in Camerun, il che, a mio parere, ci ha permesso di ricostruire una storia ragionevolmente accurata del conflitto. La commissione istituita da Macron ha avuto accesso a materiali aggiuntivi, in particolare agli archivi del Service de documentation extérieure et de contre-espionnage (SDECE), ma le è stato vietato l’accesso agli Archivi Nazionali di Yaoundé, che noi stessi avevamo consultato alcuni anni prima, ufficialmente perché erano in fase di ristrutturazione. Altre collezioni rimangono chiuse, come gli archivi del Service de coopération technique de police (SCTIP) in Francia o i registri centrali della polizia e della gendarmeria in Camerun. Tutti i ricercatori che lavorano su questioni coloniali sono ben consapevoli della profonda asimmetria – e dell’ingiustizia – esistente in questo campo: i cittadini delle ex potenze imperiali godono di un accesso molto più facile alle risorse archivistiche rispetto agli altri. Per questo motivo chiediamo da tempo che gli archivi relativi alla storia franco-camerunese siano completamente digitalizzati e resi disponibili online. Da parte sua, la commissione Ramondy-Bassy ha raccomandato almeno di inviare in Camerun un disco rigido con i documenti che aveva consultato, in modo che i ricercatori locali potessero lavorarci. Nella sua lettera a Biya, Macron non ha acconsentito a questa modesta richiesta. Si è limitato a promettere che gli archivi della commissione sarebbero stati riuniti in un unico luogo, presso gli Archivi Nazionali francesi. Pertanto, i ricercatori camerunesi potranno consultarli solo se la Francia concederà loro un visto e se riusciranno a raccogliere i fondi necessari per recarsi a Parigi. Una ben misera concessione da parte di un uomo che riempie i suoi discorsi di chiacchiere sulla «memoria condivisa». Testi consigliati Marc André, La guerra d’Algeria negli archivi  francesi , in «New Left Review»   149 Settembre-Ottobre 2024  Rahmane Idrissa,   Il Sahel: una mappa  cognitiva , in «New Left Review»   132 Gennaio-Febbraio 2022,   Scontro di interessi intorno al  Sahel , in «Diario Red» 11/09/24 e Il rovesciamento di Damiba in Burkina  Faso , in «El Salto» 16 oct 2022.

  • comp-art

    Il museo come campo di battaglia. Programma di disordine assoluto. Un saggio di Françoise Vergès Sophie Durand Il museo occidentale è un campo di battaglia ideologico, politico ed economico. Mentre oggi quasi tutti vogliono «ripensare il museo», pochi hanno l’audacia di mettere in discussione i presupposti stessi del museo universale, prodotto dell’Illuminismo e del colonialismo, di un’Europa che si presenta come custode del patrimonio dell’intera umanità.Ripercorrendo la storia del Louvre, discutendo i non detti della rappresentazione della schiavitù ed esaminando i tentativi falliti di sovvertire l’istituzione museale, Françoise Vergès delinea un orizzonte radicale: decolonizzare il museo significa attuare un «programma di disordine assoluto», inventare altri modi di percepire il mondo umano e non umano che siano in grado di alimentare la creatività collettiva e di restituire giustizia e dignità ai popoli che ne sono stati espropriati. Il museo è un’immensa tomba. È una vetrina lussuosa e intoccabile dislocata nel mondo in più di 104.000 sedi atte alla salvaguardia di quadri, oggetti, reperti, rovine, mobili, armi. E, in molti casi, votate alla conservazione di resti umani di corpi non-bianchi – ossa, capelli, teschi – come bottino delle guerre di conquista. Il museo, espressione del modello egemonico coloniale, è luogo di soggezione e silenzio: uno sterminato catalogo, camuffato da tempio, di genocidi, furti, conquiste. Ma è anche la vetrina pulita delle nazioni. Il lato oscuro dell’istituzione museale è il soggetto del saggio Il museo come campo di battaglia. Programma di disordine assoluto , Meltemi, 2025, di Françoise Vergès, teorica femminista studiosa di pratiche de-coloniali, che apre uno squarcio sul sistema culturale conservativo come massima espressione della logica estrattivista occidentale, spazio non-neutro dalle pesanti implicazioni di economia politica. Tradotto e curato da Duccio Scotini, con un’intervista conclusiva all’autrice, il libro restituisce un percorso accidentato e pesantemente critico dell’idea di museificazione del mondo neo-liberista. L’assunto di base è che a ogni distruzione bellica o coloniale è corrisposta una pratica di conservazione, legata al diritto di trasformare un oggetto saccheggiato in un’istituzione. Il solo Museé de l’Homme possiede quasi 18.000 resti umani tra i quali crani dei capi dell’Africa occidentale, di ribelli cambogiani e di amerindiani. «Il museo – scrive l’autrice originaria dell’isola de La Réunion – ha compiuto un formidabile ribaltamento retorico dissimulando gli aspetti conflittuali e criminali della sua storia e presentandosi come deposito dell’universale, custode del patrimonio di tutta l’umanità spazio da venerare proteggere e preservare da ogni contestazione».  L’universale è per principio inattaccabile. Il Louvre di Parigi, per Vergès, è il modello guida perché è il più prestigioso al mondo e perché nasce con la Rivoluzione francese e l’Illuminismo accompagnato dal suono delle tre parole magiche: libertè, egalitè, fraternitè. E proprio in conseguenza alla rivoluzione vengono compiuti furti in nome del (falso) principio di restituzione al popolo dei beni confiscati alla nobiltà. «Senza il saccheggio dei tesori artistici europei da parte delle armate di Napoleone, senza il furto dei fregi del Partenone del 1802, senza il saccheggio del Palazzo d’Estate a Nord della Città Proibita a Pechino, a opera degli eserciti francese, tedesco e britannico del 1860, senza il furto dei bronzi del regno del Benin 1897 (per citare solo alcuni dei saccheggi più noti) il museo occidentale non avrebbe raggiunto la gloria a cui è giunto nel XIX secolo e che continua da allora». La relazione tra schiavitù, patriarcato, predazione e conservazione museale è inestricabile. La narrazione di marca eurocentrica è simile in tutto l’occidente, parla la lingua coloniale, sessista e impone modelli consumistici e di dominio. Inoltre gli oggetti depredati subiscono processi di artwashing  attraverso una sorta di «pacificazione». Sterminio e conservazione sono speculari: gli animali sterminati si ritrovano nei musei, così come le comunità tribali e i loro oggetti. «Gli oggetti muoiono al museo – afferma Vergès –. Se nei paesi di provenienza hanno funzioni sia pratiche sia votive, una volta approdati al museo non possono più essere toccati, non ci si può più inginocchiare davanti alla Dea Madre, perdono la loro sacralità e diventano merce». La corsa delle grandi città alla costruzione di super-musei che permettano la getrificazione e la nascita di nuove speculazioni edilizie è un trend consolidato. In Arabia Saudita è prevista la costruzione di 200 nuovi musei. Il Louvre di Abu Dhabi comprende strutture come botteghe, ristoranti e persino la possibilità di andare in kayak. Ma cosa si nasconde dietro agli spaventosi capitali che fanno spuntare come funghi musei e fondazioni, dal Golfo Persico alla piccola città di Arles? Dalle dichiarazioni di attivisti come BP or not BP (British Petroleum) si tratta di compagnie estrattive, criminalità e industrie delle armi. Il tentativo da parte dei musei di sciacquarsi la coscienza attraverso finte politiche decoloniali non funziona neanche come make up. Tuttavia, se non è possibile decolonizzare il museo, è possibile, per Vergès, immaginare il post-museo , fare uno sforzo straordinario di immaginazione, smarcandosi da una realtà oppressiva, conducendo una lotta radicale, costante, che cambi l’intera società. L’asimmetria della gestione dei beni artistici appare evidente nell’annientamento di Gaza e dei suoi abitanti considerati dalla classe dirigente occidentale non-uomini. Trecento, tra musei e siti archeologici della Striscia, sono stati rasi al suolo senza che nessun organo internazionale muovesse un dito, a differenza dell’Ucraina. Vogliamo continuare a vivere così? Si chiede Vergès. A fronte della distruzione, l’autrice propone, insieme a numerosi gruppi di attivisti, la pratica radicale del «disordine assoluto», teorizzata negli anni Sessanta da Frantz Fanon. Il post-museo ipotizzato dall’autrice implica la scomparsa degli oggetti (di quegli oggetti razziati e feticizzati dall’Occidente) e afferma la necessità di mostrare la vita e le storie plurali degli uomini perchè «È urgente immaginare altro!». E il museo che Vergès aveva immaginato per La Réunion sarebbe partito dalla storia della popolazione locale, dal respiro, dall’ambiente, dalla furia del tempo, assemblando frammenti, speranze e scorie provenienti dalle comunità degli oppressi.   Manuela Gandini è critica d’arte e curatrice indipendente. Collabora con «La Stampa», «il manifesto» e riviste d’arte italiane. È stata redattrice del mensile «alfabeta2». Insegna Critical Writing e History of Contemporary Art II alla NABA di Milano. Lavora con artisti che operano su temi legati all’ambiente, alla guerra e alle comunità di riferimento. È autrice di vari saggi tra i quali  Ileana Sonnabend .  The queen of art  (Castelvecchi, 2008) e  Visioni  (HAZE, 2022). È curatrice di mostre nazionali e internazionali ed è autrice e interprete di un monologo ( body-talk ), intitolato  Qualcosa ci sta sognando  sull’estetica nazista e le forme dell’arte surrealista e contemporanea. È stata commissario alla Biennale di Venezia del 1993 e tiene una rubrica di arte contemporanea su Facebook e Instagram.

bottom of page