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137 risultati trovati con una ricerca vuota

  • post-poetica

    Serie limitrofa, 2-3 Federico Federici Luca Zanini, come già nel primo testo della sequenza "Serie limitrofa" ospitata da ahida a giugno ( https://ahidaonline.com/post/post-poetica-lucazanini ), continua - in queste parti seconda e terza - a porre in piena attività le sue parentesi quadre <>, separatori energici, mettendo ulteriormente in crisi ogni già frammentata forma paratattica. Anche grazie a queste sincopi del dettato, i nomi della contemporaneità denunciata (<>, <>, <>, <>, <>) affiorano dalla scrittura persino <>: <>. 2 après tout [insomma in conclusione alla fin fine” il ghiaccio con le prese qualche rimasuglio optical in cerchio si fanno i gridi beat le caravelle] in bonaccia dove] vanno i tovaglioli a tavola] [il lato positivo della pila la    prolunga il contapassi fuori] spostano la siepe il corbezzolo i] buchi vanno numerati segnati su carta termica le braccia allenate i] rametti peer to peer l’] occhio mensore del tecnico in    camera lo scenario è ristretto fa] pazienti come pieghe chiamate] [raggiungibile da un raggio rohmeriano il    bivacco sotto un getto di petrolio misto a gas fanno microtrincee contro i millepiedi l’effetto scade     in salita o in doppia salita] l’    oblato il porcospino scriveva le didascalie i] ruoli invertiti trasforma il mondo del] il settore non statica ma panoramica la]  * pellicola che si taglia le sarte     formano dagli sbavi in modo andante a proporzioni a salire certe impervie certe macchine da mais ora] le previsioni coprono i pomeriggi i casellanti ai bordi le    pignatte piene gli invasi] [conserve nel cruscotto file di manovali circondati spalmano le ferie il] filo sottile l’inserto    scrive sembra] ieri le nubi tossiche il toxoplasmolo mutilazioni copie in gesso biacco cere modellate ex] voto arti petardi serali    bimandrino veloce -stacco] [la nota è sostenuta fa] [una strada alla volta il] banco rimesso in posizione la] morte dell’aforisma l’atto] [amministrativo    scrive sembra ieri] senza strati solo osservando] da sotto si accorgono stanno] in stanze perlinate li filmano mettono filtri con abilità d’insetto apre    una sede per mantenere una sede in previsione di nuove sedi aprono si] [fanno simulazioni di traslochi reti a strascico bidet chimici le nuove sedi si aprono con un tocco al visore con il permesso del catering     3    multivan con scaltrezza plutocrati a razzo in eccesso di zelo] il tecnico con ferite riprodotte nell’arco di] un chiodo un] ponte termico i milioni di batteri] nella lavatrice sono potenziali sono] scarico refluo cartine da tabacco con credito illimitato sono esposti i] gessi dei protomartiri di presocratici fanno i falò le trombe] il modulo del perito l’abile col ferro] colandolo negli intervalli    offerta pazzesca depuratori per ogni] [intervallo di tempo mezzetinte di mezzi a nafta retroguardie collocate confuse per dire i] magazzini a farine integrali le somme fatte polverando o] l’allarme scatta in sessanta secondi chiude i battenti balordi per ogni ordine di] posto il buco nero in black che minimizza nel]     traffico i fori sono segnati uguali sono] [praticabili nella camera -a] scoppio gli invertebrati sono] intelligenti pieni di ghiaccio nelle] cassette    blocco la] galleria bloccata i pochi neon pochissimi la] cena fredda l’uscita dove l’acqua caccia da un alto arco di betone brutale ma] galleggia fa] [flutti come] fischi schivano non] [pioveva affatto” Luca Zanini , Bergamo bassa, 1963.  Scritture di ricerca, alcuni riferimenti:  slowforward.net  (fa parte della redazione)  https://slowforward.net/tag/luca-zanini/ ; suoi materiali in   gammm.org ,  ilcucchiaionellorecchio.it ,  lamorteperacqua.wordpress.com ,  utsanga.it ,  multiperso.wordpress.com , pontebianco.noblogs.org ,  compostxt.blogspot.com , e in altri spazi, come Utopie del desiderio, Esiste la ricerca / MTM - manifatture teatrali milanesi, Poème de Terre. La sequenza «Delle vite scientifiche» è leggibile in mastodon.uno/@gregorsx . Una serie di materiali continui e discontinui è in  noblogo.org/lucazanini/ . Altre partecipazioni: «L’intervallo», n. 382 di Antonio Syxty, 2024, Briefe in «Bina» n. 83, «La parola s’industria», in «l’immaginazione», n. 326, 2021. «Sotto_controllo», in «l’immaginazione», n.  342, 2024. Un testo in «Multiperso», antologia di microfinzioni (pièdimosca, 2022) e «L’ordine sostituito» (déclic edizioni, 2024). Su invito è presente a RicercaBO 2015 Laboratorio di nuove scritture. Ha letto anche nella rassegna Riassunto di Ottobre, voci della scrittura contemporanea, Bologna, 2017.

  • scienza e politica

    Il declino della differenza e della identità Christian Pinçon «Nel tempo d’oggi l’essere persona si presenta in prevalenza estremistica in questi modi: apatia e “anestesia” del proporsi in un eterno presente nei modi giovanili fino alla dipendenza di personalità, perché ciò è stato prodotto da decenni di distorsioni educazionali e “vantaggi” familiari e sociali non conquistati (assistenzialismo di ogni tipo con recite adeguate che ormai fanno rivendicare diritti in eccesso); poi c’è l’estremismo all’altro capo dei comportamenti: contenuti di parole e azioni con volontà di potenza come da homo sapiens arcaico: con attivazione del cervello primitivo, della chimica dell’impulsività e della gratificazione rapida e non già del cervello neocorticale superiore. Differenza e identità vanno indifferenziandosi, non comunicano più o sono nevrotiche per tutti i motivi oggettivi e soggettivi richiamati. Infine proiettiamo sempre sull’altro (bisogno del nemico?) la colpa di tale comportamento incivile auto eleggendoci giusti (chiamasi identificazione proiettiva)». In «Viaggi tra due secoli e un millennio» trattate in precedenza esistono temi che vanno osservati a parte per valore e significato. Uno fondamentale è la diade differenza/identità, che nelle varie accezioni culturali e politiche va ormai appassendo e declinando. Il verbo latino differre vuol dire portare (ferre) da un’altra parte (dis) cioè separare l’uno dall’altro conducendo l’identico altrove mutandone la collocazione. Questa diade è coppia concettuale particolare: ove ciascun termine è indispensabile per definire l’altro. Non c’è identità personale se non per differenza né c’è differenza senza identità singole o plurali. Ciò vale al livello della persona dalla infanzia alla vecchiaia in senso ontologico. Ma sul piano delle culture prevalenti e dei valori, dell’etica, della normalità relazionale di convivenza, cosa sta succedendo alla differenza e alla identità: esempio nei ruoli affettivi o professionali vissuti o nella lungovivenza attuale? Lo sviluppo dell’identità non è solo conquista dell’Io e della persona attraverso un difficile cammino conflittuale tra ciò che vorremmo essere e l’adattamento obbligato ai contesti ambientali e interpersonali non da noi completamente determinato, in cui passato e presente plasmano la formazione del futuro possibile. Altresì l’identità è originalità, creatività, revisione, cioè entità riconosciuta e riconoscibile da noi e altri per le qualità psicofisiche espresse; presentate al mondo con comportamenti autentici o con recite: cioè l’identità è distinzione e differenza: è possibile protagonismo della propria storia, è processo dinamico dell’Io che diviene nel tempo della storia personale (se non appassita e omogeneizzata dai poteri economici e culturali). Vale la pena ricordare come per le teorie della biologia evoluzionista, la differenza e la identità si sono formate attraversando vari oceani: imperfezione (vedi Elogio dell’imperfezione , di Rita Levi Montalcini), mutazioni genetiche, deviazioni, divergenze, differenze e determinismo genetico ed epigenetico adattivo (con dissonanze e sfasature) al mutare delle circostanze ambientali: proprio le imperfezioni, i compromessi biologici e le differenze, consentono all’uomo soluzioni creative possibili per adattamenti progressivi (esempio scrivere poesie, risolvere un problema pratico, ridere di noi stessi, avere buon senso, operare insomma). La genetica cerebrale va «imponendo» la sua ambiguità costitutiva; è molto rigida, cioè fissa e immutabile ma nel contempo è diveniente, grazie al rapporto con la epigenetica cioè l’esperienza e la cultura biopsichica scambiate con l’ambiente fino a produrre una ri-regolazione dei vissuti personali. Forse siamo invarianti psicofisicamente, ma anche pur raramente flessibili e modulabili. Gli studi su genetica/epigenetica ci daranno negli anni risposte alle fissità e al divenire possibile della coscienza: con ovvia fiducia critica in questi studi.Attraverso una biologia del cervello unica tra gli esseri viventi, homo sapiens ha vinto l’adattamento ovunque nel pianeta in modi efficaci. Ciò è dovuto 1) alla Neotenia, cioè alla maturazione molto lenta delle funzioni psichiche (dalle inferiori, v. riflessi ed emozioni su su fino ai linguaggi gestuali e simbolici neocorticali e prefrontali). L’uomo è un animale in ritardo; anche perché 2) le funzioni cerebrali (tramite trilioni di connessioni sinaptiche per mediazione elettrochimica e produzione dei vissuti psichici) – ciò chiamasi Neuroplasticità – maturano in tempi lunghi per la qualità complessa delle funzioni superiori (memorie, comprensione critica, cognizione, linguaggi). Questa diacronia di maturazioni delle basi funzionali neuropsichiche (ad oggi della durata dei primi trent’anni di vita), consente al sistema nervoso centrale di essere più modulabile alle variazioni ambientali, materiali e immateriali, nel quale si va evolvendo. Apprendimento e memoria, riflessione e linguaggi sono basi essenziali a che il cervello rimanga plastico a lungo e gestisca al meglio la complessità umana che ci caratterizza. La «cultura» che il cervello umano produce è detta in biologia (semplifico moltissimo) Epigenetica: scienza che chiarisce come l’ambiente fisico (vedi ad esempio macrobioma intestinale e Immunità) e immateriale (vissuti astratti simbolici, formazione critica) interagisca con la nostra genetica cerebrale formando identità e differenze delle persone. Queste scoperte spiegano meglio il travaglio umano personale che va facendo declinare la «formazione critico culturale» della personalità vs una normalità che oggi sfiora la «disidentità». La civiltà personale come conquista di identità migliore per merito e dovere (già di per sé difficile e affascinante) è in stasi e declino: risente di corruzioni mentali, economiche, valoriali, illusioni di potere o poteri politici culturali veri, che vogliono affermarsi sull’altra persona con aggressività, con ignoranza arrogante, con ipocrite recite, con impulsività (vedi come si gestiscono i conflitti personali in famiglia, negli ambienti di lavoro o tra nazioni e potentati economici): «Perché la guerra?» si chiedevano nel 1932 Einstein e Freud. Nei luoghi dell’esprimersi con se stessi e con gli altri, spesso si afferma la volontà di potenza, la parola è violenta come l’azione. Mai se non raramente vince l’equilibrio del comportamento se non la pace, la dignità di un modulato compromesso, della mediazione, dell’ascolto, di verità possibili diverse da quelle insanamente egoistiche ora così frequenti. Nel tempo d’oggi l’essere persona si presenta in prevalenza estremistica in questi modi: apatia e «anestesia» del proporsi in un eterno presente nei modi giovanili fino alla dipendenza di personalità, perché ciò è stato prodotto da decenni di distorsioni educazionali e «vantaggi» familiari e sociali non conquistati (assistenzialismo di ogni tipo con recite adeguate che ormai fanno rivendicare diritti in eccesso); poi c’è l’estremismo all’altro capo dei comportamenti: contenuti di parole e azioni con volontà di potenza come da homo sapiens arcaico: con attivazione del cervello primitivo, della chimica dell’impulsività e della gratificazione rapida e non già del cervello neocorticale superiore. Differenza e identità vanno indifferenziandosi, non comunicano più o sono nevrotiche per tutti i motivi oggettivi e soggettivi richiamati. Infine proiettiamo sempre sull’altro (bisogno del nemico?) la colpa di tale comportamento incivile auto eleggendoci giusti (chiamasi identificazione proiettiva) che solo i giovani possono in parte usare con ragione dando a noi genitori, all’amministrazione politica, alla scuola e agli esempi formativi la responsabilità del loro comportamento. Ma tutti i postgiovani di età e troppi adulti a me sembrano come vecchi già arresi passivamente al vivere: ove vi è ormai l’incapacità di ricreare il passato nel presente con nuove rappresentazioni mentali verso il futuro: rompere le barriere per formare nuove belle differenze e identità, non interessa più. E come i vecchi ci ripetiamo: ognuno è laudator temporis acti  o di un presente immobile, per molti difficile da vivere in ogni senso, per altri con lauti vantaggi psicologici o economici (non ho ambizioni, non fatico, non sento il dovere di essere migliore per me e per gli altri ). C’è per la verità un’osservazione finale da fare: il ruolo che le democrazie autoritarie svolgono nel combattere frontalmente la differenza fino a deformarla e reprimerla. Le decisioni strategiche si basano sempre più – in mancanza di un progetto governato dello sviluppo del mondo – sugli umori di una singola persona o ridotti gruppi di potere. Non c’è competizione tra visioni del mondo, interessi diversi o conflitti di civiltà; l’antagonismo tra democrazia e autoritarismo è legata sempre più a singoli leader con scambi caotici, inconcludenti, di scarsa credibilità, mutevoli giorno per giorno. Le grandi questioni – pace e guerra – sono più spettacolari ma certo meno leggibili. L’effetto è una assoluta imprevedibilità, instabilità e precarietà decisionali. Abolendo così la differenza vince l’indistinto ormai nei modi ambigui del govemo: si perdono così la memoria individuale e collettiva della storia con sole narrazioni ufficiali e al massimo sempre parziali verità.Per capire da protagonisti la certezza democratica dell’autenticità e delle recite nel film della storia, i robot delle deliziose Fiabe per robot  e Ritorno dall’universo , di S. Lem di circa cinquant’anni fa ci aiuterebbero molto. Fu distopia o preveggenza? So che questo attacco delle democrazie autoritarie alle differenze era già stato descritto esemplarmente. Mia umile postilla: ma nemmeno la pace vissuta per 80 anni dopo la Seconda guerra mondiale ci dà la motivazione verso la «belle difference»? La «trappola» tecnologica e la società desiderante e consumistica globalizzata e il benessere di base diffuso, politica e cultura impoverite sono così onnipotenti nel ritardare la civiltà personale nelle nostre menti? Forse se differenza, identità e rispetto ormai corrono verso l’indifferenziato e si confondono per paura della speranza o di un compromesso o di una mediazione migliore, dovremmo interrogarci e non recitare troppo: forse ciò non ci conviene più? Occorre inventare forme creatrici di senso per evitare alla persona di essere normalmente incivile, insignificante e indifferenziata, con le conseguenze sociali degenerate in essere. Dove sono modi, luoghi, allievi e maestri per questa civiltà personale riformata? Freud nel Disagio nella civiltà  nel 1930 a ciò aveva richiamato. Giovanni Mastrangeli (1944) si è laureato in medicina e chirurgia presso l’Università Statale di Milano nel 1969 divenendo poi specialista in neuropsichiatria e psicoterapia presso l’Università di Siena nel 1974. È stato medico dirigente del Servizio Psichiatrico Provinciale della città di Reggio Emilia dal 1971 al 1976. Dal 1976 al 1989 medico dirigente del Servizio Psichiatrico Provinciale di Viterbo. Dal 1989 libero professionista nella città di Viterbo con attività di formazione e di promozione culturale. Dal 1989 libero professionista nella città di Viterbo con attività di formazione e di promozione culturale. Consulente in Psicogeriatria e in comunità psichiatriche come psicoterapeuta e psicofarmacologo clinico.

  • konnektor

    Costruire il partito della sinistra nel Regno Unito: intervista a James Schneider (1) Franco Panella La profondità della crisi del capitalismo storico, concomitante al disastro causato dalle politiche radicalmente neoliberiste e che guardano a destra che governano tutti i paesi europei e la stessa Unione Europea, oltre alla deriva autoritaria e genocida del mondo atlantico richiedono urgentemente la rifondazione del campo politico della sinistra. Negli ultimi mesi, diversi gruppi della sinistra organizzata britannica hanno discusso la formazione di una nuova organizzazione politica nazionale sotto forma di partito politico o di alleanza elettorale. Le ragioni per creare un’istituzione di questo tipo non potrebbero essere più chiare. L’attuale governo laburista è caratterizzato dalla sua deferenza verso gli interessi corporativi-imprenditoriali, dalla sua complicità con il genocidio e dalla repressione della dissidenza. Nel frattempo, l’opposizione conservatrice continua a essere ossessionata dalle guerre culturali e segnata dalla sua lunga storia di malgoverno, mentre l’estrema destra di Reform UK sembra essere sulla buona strada per ottenere la maggioranza dei voti popolari, con la sua concezione legata all’ideologia fortemente anti-immigrazione e pararazzista del vecchio Enoch Powell presentata come l’unica politica praticabile. I sondaggi suggeriscono che un partito di sinistra potrebbe ottenere tanti voti quanto il partito al governo: entrambi raggiungerebbero circa il 15% dei voti. Questa percentuale potrebbe aumentare ulteriormente se il partito riuscisse a radicarsi in circoscrizioni chiave e lanciasse un attacco deciso al cosiddetto Westminster consensus , ovvero la sostanziale convergenza delle politiche di tutti i partiti presenti in Parlamento. Tutto ciò costituirebbe un evento che comporterebbe un grande passo avanti per il blocco socialista storicamente frenato nel Regno Unito dai vincoli imposti dal Labour. Sebbene i politici e gli attivisti che partecipano in prima linea a questa nuova organizzazione non abbiano ancora elaborato un programma chiaro, la nota deputata socialista Zarah Sultana e l’ex leader laburista Jeremy Corbyn hanno annunciato una conferenza inaugurale, da tenersi in autunno, in cui saranno decise democraticamente le politiche e i modelli di leadership. In meno di 24 ore si sono iscritte ben 200.000 persone. Uno degli organizzatori che ha lavorato a questo progetto è James Schneider. Nato nel 1987, Schneider ha iniziato ad assumere posizioni più radicali con la guerra in Iraq e la crisi finanziaria mondiale. Nel 2015 ha partecipato alla fondazione del movimento Momentum per il sostegno popolare alla leadership di Corbyn e, un anno dopo, è diventato direttore della comunicazione strategica del partito, propugnando una sorta di populismo di sinistra senza complessi, cercando, alla fine invano, di resistere alle pressioni contro la direzione del partito guidata da Corbyn perché capitolasse davanti alla destra laburista su questioni chiave come la Brexit. Da allora ha pubblicato Our Bloc: How to Win (2022), il suo progetto per il futuro della sinistra britannica, e ora lavora come direttore della comunicazione di Progressive International. Schneider ha parlato con Oliver Eagleton dei punti fondamentali nel processo di costruzione di un partito: come il rapporto tra il potere popolare e il consenso elettorale, le strutture organizzative da costruire, i fattori che in precedenza sono stati di ostacolo a una tale impresa e gli esempi internazionali a cui potersi rifare. Questa è la prima di una serie di riflessioni sulle prospettive della sinistra post-Corbyn, che appariranno su «Sidecar» e «ahida». Questo testo è apparso su « Sidecar » , il blog della « New Left Review » , rivista bimestrale pubblicata a Madrid dall’«Istituto Repubblica & Democrazia» di Podemos e da «Traficantes de Sueños», ed è qui pubblicato con l'espresso consenso del suo editore.  Oliver Eagleton : Cominciamo con la descrizione generale di ciò che un ipotetico partito di sinistra dovrebbe aspirare a realizzare nel panorama politico da qui al 2030, specialmente in paesi come la Gran Bretagna, dove dovrebbe affrontare una serie di ostacoli importanti, che vanno dal controllo dei media esercitato dall’establishment al sistema antidemocratico di Westminster, passando per la divisione delle forze situate alla sinistra del Partito Laburista. James Schneider : Il compito di questo partito dovrebbe essere quello di intraprendere diverse forme di «costruzione politica». In primo luogo, dobbiamo affrontare la costruzione dell’unità popolare: prendere i gruppi di affinità socio-elettorale, che attualmente costituiscono una maggioranza a livello sociale, e tradurli in una maggioranza politica. In Gran Bretagna, si tratta della classe operaia priva di beni, dei laureati in declino sociale e delle comunità razzializzate. La maggior parte delle persone pensa ai gruppi di affinità socio-elettorale in termini puramente elettorali: «Come possiamo guadagnare qualche seggio in più?», ecc. Ma, in fondo, non importa se hai cinquanta, cento o duecento deputati, se la tua strategia elettorale non è legata a questo progetto sociale più ampio. Poi occorrerebbe passare alla costruzione del potere popolare: costruire organizzazioni strutturate che le persone possano utilizzare per controllare democraticamente diversi aspetti della propria vita, sia ottenendo concessioni dal capitale e dallo Stato, sia andando parzialmente oltre, attraverso il passaggio da merce a bene comune di determinate risorse o la creazione di spazi autonomi. Ciò consentirebbe alle persone di legiferare collettivamente dal basso, creando al contempo le condizioni affinché il loro partito attui interventi legislativi dall’alto. Il movimento operaio e le cooperative britanniche hanno tradizionalmente perseguito tale scopo. Altri paesi hanno tradizioni più variegate di creazione di potere popolare attraverso, ad esempio, gruppi di inquilini, collettivi agricoli, sindacati di debitori o occupazioni di terreni, solo per citarne alcune. Questo ci porta alla forma finale di costruzione politica: quella di un’alternativa popolare. L’unità popolare e il potere popolare dimostrano che esistono forme alternative di organizzazione della società nel suo complesso, mentre si costruisce un programma di governo maggioritario in grado di soddisfare le esigenze della popolazione a breve e medio termine. Se seguiremo questa strategia tripartita, inizieremo a vedere l’emergere di nuove forme di protagonismo popolare, che diffondono la lotta e il controllo in tutta la società. Permettimi di farti due esempi dalla Colombia. Storicamente, questo Paese è stato uno dei principali bastioni dell’imperialismo nel continente, dominato da un’élite conservatrice. Tuttavia, da oltre settant’anni il petrolio del Paese è di proprietà pubblica, perché nel 1948 i lavoratori petroliferi hanno indetto uno sciopero a tempo indeterminato che ha costretto lo Stato a creare un’azienda nazionalizzata, e la pressione delle masse ha continuato a essere tale da impedire la possibile revoca di questa decisione da parte dei successivi governi colombiani. Più recentemente, nel 2010, è stata creata un’istituzione chiamata Congresso Popolare per riunire diversi movimenti sociali e lotte territoriali: urbani, contadini, indigeni. Una delle sue iniziative è stata creare territori di produzione alimentare controllati dai contadini, che collegavano i piccoli agricoltori ai poveri delle città, iniziativa che alla fine ha costretto il governo a riconoscere e sostenere questi territori in espansione, concepiti dal movimento come «baluardi del potere popolare». Questa strategia di legiferare dal basso ha contribuito all’elezione del primo governo di sinistra della Colombia nel 2022, guidato da Gustavo Petro. In sintesi, il nostro partito deve essere un veicolo per instaurare l’unità, un catalizzatore dell’organizzazione e una leva per la mobilitazione popolare verso un’alternativa sociale. Il nostro obiettivo a lungo termine, ben oltre ciò che può essere realizzato nel decennio 2020, deve essere quello di stabilire una società che riconosca la dignità essenziale di ogni persona. Sebbene questo principio sia evidente per molti, le macrostrutture del nostro sistema globale vi si oppongono fermamente. L’ordine attuale si basa su una triade formata da capitale, nazione e Stato. Il nostro obiettivo deve essere quello di sostituirlo con un altro, fondato sul sociale, l’internazionale e il democratico, tre logiche interconnesse che aprono spazi a nuove forme di vita al di là dello sfruttamento, dell’impero e del controllo verticale. Ciò significa socializzare l’economia, trasformare la nostra posizione nella catena delle relazioni imperiali e nella divisione globale del lavoro, e democratizzare lo Stato. Non c’è alcuna strada verso un futuro ecologicamente sostenibile senza queste trasformazioni. In questo Paese non abbiamo mai avuto un’organizzazione che abbia cercato di realizzare questo tipo di cambiamento attraverso la politica di massa. Nessuno dei piccoli gruppi di sinistra lo ha fatto. Nemmeno sotto la guida di Corbyn del Partito Laburista abbiamo concepito il nostro obiettivo in questi termini. Ciò che serve è un partito popolare, supportato da un insieme di organizzazioni, che possa conquistare il potere in tutti i sensi: sociale, culturale, politico e industriale. Oliver Eagleton : Puoi dirci qualcosa di più su come questa strategia affronterebbe le realtà pratiche dell’attuale politica britannica? James Schneider : I gruppi sociali che ho descritto sopra, cioè i lavoratori senza beni, i laureati in declino sociale e le persone razzializzate, sarebbero i principali beneficiari di un movimento organizzato per abolire lo stato di cose presente. Naturalmente, un partito di sinistra deve anche cercare sostegno al di là di questi gruppi: ci sono elementi progressisti al di fuori di essi, così come ci sono elementi reazionari al loro interno, quindi non può essere un processo rigido o meccanico. Ma questi sono i tre attori principali attraverso i quali si può costruire l’unità popolare. Alcune delle ragioni per cui essi costituiscono una maggioranza numerica sono legate alla posizione globale della Gran Bretagna come economia avanzata al centro dell’economia capitalista, ma altre sono più specifiche: ad esempio, le politiche promosse dal New Labour in materia di istruzione superiore, alloggi e modello industriale, che hanno creato la categoria dei laureati in declino sociale (il che è paradossale, dato che il New Labour era in parte il progetto di una classe di laureati in ascesa sociale). Sempre più spesso, le azioni dell’establishment, in particolare quelle attuate dall’attuale governo laburista, stanno consolidando un interesse comune tra questi gruppi. I partiti di Westminster hanno impoverito i più svantaggiati e i giovani laureati e hanno cercato di dare la colpa alle persone razzializzate, comprese quelle che non rientrano in queste altre due categorie sociali, fornendo loro una base comune per rovesciare lo status quo. Quindi il potenziale c’è. Quello che manca è la capacità. Per quanto riguarda il potere popolare, partiamo da un livello molto basso. La vita sociale in Gran Bretagna, come in gran parte del Nord del mondo, è stata ridotta a un residuo. La vita associativa della classe operaia è stata distrutta; non solo i sindacati e le cooperative, ma anche le biblioteche, i pub, i club, le bande musicali, le squadre sportive. Sono sempre meno le persone che ricordano questa cultura politica del passato. La manifestazione più forte del potere popolare è stato il movimento operaio e la condizione principale che questo ha vissuto negli ultimi cinquant’anni è stata la sconfitta, il che naturalmente determina un atteggiamento difensivo. Come superare tutto questo? Beh, il potere popolare si basa sempre sulla densità. C’è un motivo per cui la fabbrica crea opportunità politiche per la sinistra; e lo stesso vale per i quartieri operai, intesi come luoghi in cui le persone si riuniscono in modo naturale. In Gran Bretagna, questo ha chiare implicazioni per la strategia elettorale a causa del sistema elettorale maggioritario secco. Non sono un sostenitore di questo sistema, ma è quello attualmente in vigore e dobbiamo lavorare al suo interno per il momento, il che ci obbliga a seguire una strategia di densità: radicare il nostro progetto in aree specifiche in cui questi tre gruppi socio-elettorali hanno una maggioranza qualificata. Analizziamo le elezioni dello scorso anno, in cui i cinque candidati indipendenti che si sono presentati a sinistra del Partito Laburista hanno ottenuto seggi in Parlamento: un guadagno relativamente piccolo, ma anche storico, dato che dalla Seconda Guerra Mondiale c’erano stati solo tre parlamentari indipendenti a sinistra del Partito Laburista. La situazione a Islington North, dove Corbyn ha battuto il candidato laburista con un margine schiacciante, era in un certo senso sui generis, poiché il vincitore era un candidato con un profilo nazionale e una notorietà personale al 100%. Tuttavia, ha implicazioni più ampie, poiché ha mobilitato fino all’ultimo elemento di potere sociale a sostegno della campagna, proprio perché la gente lo vedeva come un’espressione della propria vita sociale. Ogni gruppo di giardinaggio, ogni chiesa, ogni moschea, tutte le sezioni sindacali della zona: tutti hanno riconosciuto che Corbyn era la loro incarnazione politica e quindi sono andati a votare per lui, quasi indipendentemente da ciò che pensavano delle politiche concrete. Anche gli altri quattro candidati indipendenti hanno vinto in gran parte grazie al potere sociale reale delle loro comunità, che si basa in gran parte sulle moschee, anche se, naturalmente, molti non musulmani e musulmani non praticanti hanno anche fatto campagna e votato per loro. La gente va in moschea ogni settimana. È un luogo di socializzazione, un luogo di benessere, un luogo di orientamento morale. Quindi, anche se questi candidati indipendenti sarebbero i primi ad ammettere di non avere esperienza politica, di non aver presentato campagne ingegnose, forme di comunicazione innovative o un programma politico completo, hanno ottenuto la vittoria grazie a questa identificazione con il centro di potere della comunità, che ha contribuito a canalizzare il loro comune disgusto per il genocidio di Gaza, oltre ad altre questioni. Questo è proprio il motivo per cui l’establishment ha reagito con tanto spavento. Non si trattava solo di islamofobia, ma anche della terrificante consapevolezza che il potere popolare può eludere le strutture che dovrebbero neutralizzarlo. Oliver Eagleton : Se la vostra ambizione è quella di creare un qualche tipo di legame vincolante tra un partito politico e forme più ampie di vita associativa, allora forse è necessario distinguere tra movimenti e istituzioni. I primi possono essere effimeri e amorfi, incapaci di creare forme durature di potere popolare in assenza dei secondi. Si potrebbe dire che, quando si tratta di questioni come il genocidio di Gaza, è il movimento che attiva le persone come soggetti politici, l’istituzione che traduce questa politicizzazione in potere popolare e il partito che sfrutta questo potere per influenzare lo Stato o conquistarlo. Il che mi porta a chiedermi: se la cultura istituzionale della classe operaia britannica è stata in gran parte distrutta nell’ultimo mezzo secolo, lasciando solo enclavi isolate, non stiamo forse perdendo un anello cruciale in questa sequenza? Come dovrebbe affrontare questo problema un nuovo partito di sinistra? James Schneider : Dobbiamo costruire più istituzioni. Per me, questo è il compito strategico più importante per il partito e anche quello che normalmente si tende a trascurare. Oltre a rafforzare le manifestazioni di potere popolare, che sono sopravvissute tra le rovine del neoliberismo, dobbiamo crearne di nuove. Il numero di famiglie in affitto nel Regno Unito è di 8,6 milioni. Il numero di persone iscritte ai sindacati degli inquilini è di circa 20.000. Solo il 38% degli inquilini ha votato alle ultime elezioni. Se durante il periodo in cui Corbyn era alla guida del Partito Laburista avessimo deciso di bussare alle porte e organizzare gli inquilini, quanti leader proveniente dal movimento degli inquilini avremmo ora? Come avremmo potuto cambiare la coscienza della sinistra laburista, allontanandola dall’incoraggiare un partito parlamentare su Twitter e avvicinandola alla costruzione di istituzioni proprie e forti? Le stesse domande potrebbero essere poste su altre questioni. Con 600.000 membri laburisti, 450.000 dei quali di sinistra, avremmo potuto decidere che era una priorità politica organizzarci attorno alla questione X o Y. Se avessimo mobilitato anche solo il 10% di questi esponenti della sinistra, avremmo potuto creare nuove organizzazioni popolari: cooperative alimentari, sindacati di utenti dei servizi o gruppi di salute mentale. Avremmo potuto organizzare campagne per uno sciopero per il clima o per cercare di rendere effettivamente pubblici i servizi pubblici attraverso boicottaggi di massa. Le possibilità non mancano, e non spetta a me dire quali dovremmo privilegiare nei prossimi anni. Queste decisioni devono essere prese democraticamente da un partito politico di portata nazionale. Se il nuovo partito passerà tutto il tempo a elaborare la perfetta politica di welfare per il nostro immaginario futuro tecnocratico di sinistra quando governeremo lo Stato, non arriverà da nessuna parte. Se questo nuovo partito si percepirà come un Partito Laburista 2.0, con una politica migliore di quella attuale, ma senza creare vie per una reale partecipazione popolare, sarà distrutto dalle forze che si oppongono a esso. Durante il periodo di Corbyn, ci siamo trovati intrappolati in una situazione in cui i membri del Partito Laburista erano spesso costretti ad aspettare che una manciata di persone al vertice prendesse le decisioni invece di diventare essi stessi attori e leader. Non possiamo ripetere quell’errore. Credo sia importante ricordare che, al di fuori dell’Europa e del Nord America, le riunioni politiche non sono noiose. Non sono noiose. Sono vivaci, partecipative e radicate nella cultu ra popolare, circondate da musica, buon cibo e persino balli. La gente comune vi partecipa perché si sente parte di esse. Ci sono diversi modi di partecipare. E sono così perché il loro obiettivo è rafforzare i legami di solidarietà e unità affinché le persone possano uscire e partecipare alla costruzione del potere popolare. Oliver Eagleton : Come dovrebbe agire il nuovo partito che stai immaginando per creare questo tipo di cultura politica non tradizionalmente britannica? James Schneider : Nella Gran Bretagna contemporanea, l’ establishment non ha nulla da dire: dice che tutto va fondamentalmente bene e che non bisogna parlare dei problemi realmente esistenti. Il blocco reazionario, dal canto suo, dice che tutto va male: non si riesce a ottenere un appuntamento nel servizio sanitario pubblico, gli alloggi sono inaccessibili, i salari sono diminuiti e la colpa di tutto questo è dei musulmani, degli immigrati e delle minoranze. Quando queste sono le uniche due narrazioni che ci vengono offerte, è probabile che vinca la seconda, perché almeno risponde ad alcune lamentele reali. Ma la verità è che attaccare le minoranze è di per sé una posizione minoritaria. Forse in Gran Bretagna esiste un certo razzismo diffuso, ma la maggior parte delle persone non passa la giornata a pensare a quanto odia gli stranieri, il che dimostra che c’è chiaramente spazio per costruire una narrativa diversa. Quello che dovremmo offrire invece è una «lotta di classe con il sorriso». Dobbiamo rifiutare tutte le ipocrisie della classe politica, dei media e dello Stato, poiché sono odiate dai cittadini, e a ragione. Dobbiamo creare conflitti invece di evitarli. Questo stile comunicativo è spesso definito populismo di sinistra. Implica tracciare una linea di antagonismo ampia e audace in cui c’è unità nella nostra fazione e divisione in quella avversaria. Questa linea di antagonismo è estremamente semplice: la causa dei nostri problemi sono i banchieri e i miliardari. Sono in guerra con noi, quindi noi entreremo in guerra con loro. Dobbiamo aspirare a sconcertare e indignare i media con uno stile politico combattivo, ma anche allegro. Dobbiamo organizzare incontri come quelli che ho descritto, con musica, cibo gustoso e gruppi di discussione, da cui le persone possano uscire con azioni chiare da intraprendere. Ciò significa, naturalmente, che il partito deve avere la sua base principalmente al di fuori di Westminster; non deve associarsi a tipi in giacca e cravatta che passano la giornata a mormorare ipocritamente davanti alle telecamere. Il mio sogno è un brano che abbia lo stesso impatto di "Turn the Page" , la prima canzone dellalbum di debutto dei The Streets, Original Pirate Material. Qualcosa che non hai mai sentito prima, ma che riconosci immediatamente; inconfondibilmente britannico e radicato nella vita quotidiana, dai pub ai marciapiedi. Un suono o, nel nostro caso, una politica, che mescola senza sforzo culture e tradizioni, ancorata alla classe e alla comunità, ma che avanza con sicurezza e stile. Abbiamo bisogno di abitare questo tipo di registro nazional-popolare. Per dirla in modo più teorico, l’efficacia di questo tipo di politica deriva dal liberare il potenziale progressista della dimensione «nazionale» della triade capitale-nazione-Stato. Su «Sidecar/Diario Red» avete pubblicato alcune settimane fa un breve e stimolante articolo di Dylan Riley intitolato «Lenin negli Stati Uniti», che, seguendo Gramsci, sosteneva che Lenin oggi cercherebbe un «rapporto produttivo e creativo con la specifica cultura politica rivoluzionaria nazional-democratica in cui si opera». La sinistra britannica deve pensare in questa direzione. Oliver Eagleton : Hai citato la Colombia come modello, ma pensiamo per un momento alle differenze storiche e contestuali. Lì c’era uno Stato dominato da due partiti principali, i liberali e i conservatori, che per decenni hanno collaborato con gli Stati Uniti per mantenere il Paese in una situazione di dipendenza periferica, escludendo dal potere i settori popolari. Di conseguenza, molti di questi settori erano in gran parte esclusi dai processi di accumulazione economica e di partecipazione politica, il che ha contribuito a creare alcune tradizioni autonome di lotta: movimenti guerriglieri, che controllavano gran parte delle zone rurali, campagne contro l’estrattivismo, gruppi che difendevano i territori indigeni. Petro è riuscito a unificare molte di queste forze nel suo progetto elettorale, portando gli emarginati – i «don nadie», come venivano affettuosamente chiamati – al cuore del governo. In Gran Bretagna, al contrario, il problema di lunga data è stato non l’esclusione popolare ma l’assimilazione popolare. Il Partito Laburista è stato tradizionalmente uno strumento per sussumere la classe operaia nello Stato e riconciliarla con l’imperialismo, il che ha reso la nostra cultura di lotta popolare meno attiva, le nostre riunioni di sinistra più noiose e la base organica per questo tipo di politica di massa molto più debole. La leadership di Corbyn ha fatto una valutazione sobria di queste condizioni. Il suo obiettivo non era necessariamente quello di dare potere alla «base» e sperare che lo portasse alla vittoria. Si trattava piuttosto di approfittare di una situazione di crisi politica, conquistare il potere statale e attuare un programma di riforme non riformiste che, a sua volta, galvanizzasse ampi settori della popolazione, rafforzando i lavoratori, gli inquilini, i migranti, ecc. Questo approccio, in cui la politica dall’alto precede la politica dal basso, non è stato semplicemente un errore strategico. Era un riflesso della nostra particolare situazione storica e delle possibilità politiche che essa generava. Si potrebbe sostenere che quelle stesse condizioni hanno anche determinato il modo in cui si è sviluppato finora il piano per creare un nuovo partito di sinistra, il che ha comportato il processo decisionale da parte di uno strato relativamente piccolo di operatori politici, che sperano, non senza ragione, di utilizzare le vittorie elettorali per stimolare lotte più ampie. James Schneider : La spiegazione che offri è nel complesso corretta e aiuta a capire perché la coscienza predominante nella sinistra britannica sia altamente elettoralistica. Non sono contrario a vincere le elezioni o a entrare nel governo. Credo che sia essenziale. Ma ci sono due ragioni per cui questo può e deve essere combinato con altri processi di costruzione politica fin dall’inizio. In primo luogo, la sussunzione della classe operaia britannica non solo attraverso il Partito Laburista, ma anche attraverso i sindacati durante il periodo corporativista, non è mai stata totale: ci sono sempre state rivolte popolari e focolai di resistenza. Esistono quindi tradizioni radicali su cui costruire. In secondo luogo, ci stiamo avvicinando alla fine di un’offensiva capitalista durata decenni, il cui obiettivo era quello di distruggere tale resistenza, cosa che è stata in parte raggiunta attraverso la sussunzione, ma principalmente attraverso la forza bruta: l’esclusione violenta delle masse sia nel Nord che nel Sud del mondo, come testimoniano i minatori britannici a cui venivano spaccate le teste e i militanti di sinistra argentini gettati dagli elicotteri. Quello a cui assistiamo oggi è che questa offensiva sta iniziando a rallentare, non a causa dell’opposizione esterna, ma per i suoi stessi limiti interni: l’incapacità degli Stati Uniti di frenare lo sviluppo sovrano della Cina, soprattutto dopo il 2008, e la crescente pressione sulle risorse con l’accelerarsi della crisi ecologica. Questo crea un’opportunità vitale per un partito di sinistra. Ma non possiamo limitarci a ripetere il corbynismo in questo contesto. Non siamo alla guida di un partito di governo e non abbiamo alcuna possibilità di diventarlo nel prossimo futuro. Pertanto, quella scommessa esclusivamente elettoralistica, che è già stata sconfitta in passato, è ancora meno praticabile ora. Il numero di persone che erano consapevoli della strategia 2015-2019 così come la descrivi era anche molto limitato: solo una manciata di membri del gabinetto ombra e di consulenti di alto livello l’avrebbero articolata in questo modo. La logica del socialismo parlamentare è rimasta praticamente intatta. Credo che abbiamo bisogno di un cambiamento fondamentale nella nostra visione strategica per creare un consenso nella sinistra che riconosca l’importanza del potere popolare. Se vuoi un esempio negativo, puoi guardare al Partito dei Verdi. Il loro approccio consiste nello scegliere i propri candidati per ricoprire cariche pubbliche in modo che possano usare il loro profilo per difendere politiche progressiste. Secondo i loro stessi termini, hanno avuto un certo successo, poiché hanno eletto un deputato nel periodo 2019-2024 e quattro da allora, oltre a molti consiglieri comunali. Ma quale impatto hanno avuto sulla coscienza pubblica? Praticamente nessuno. Extinction Rebellion e Fridays for the Future hanno avuto un effetto molto più tangibile sulla politica ambientale di massa. L’approccio «matematicisticoo» dei Verdi, secondo cui più rappresentanti eletti ci sono meglio è, ha duecento anni e risale all’epoca delle rivoluzioni liberali, quando il dibattito pubblico si svolgeva nei parlamenti e nelle assemblee di recente formazione, dove i numeri contavano davvero. È del tutto inadeguato per il decennio attuale. Il portavoce più importante del partito non è nemmeno un deputato. Ultimamente si sentono dire cose del tipo: «Insieme ai Verdi, un partito di sinistra potrebbe mantenere l’equilibrio di potere a Westminster». È lo stesso tipo di sciocchezze autoillusorie che alcuni membri del Socialist Campaign Group ripetono da anni: «Se restiamo nel Partito Laburista e teniamo la testa bassa, forse potremo mantenere l’equilibrio di potere». E cosa è successo? Oliver Eagleton : Si tratta di un modello liberale di fronte popolare, che implica implicitamente l’impegno della sinistra a sostenere il corrispondente governo laburista, il che sarebbe un suicidio morale e politico. Ma soffermiamoci un attimo sulle lezioni del corbynismo: la maggior parte delle persone ha riconosciuto che una delle ragioni principali della sua sconfitta è stata la mancanza di una solida base sociale, che ha reso difficile la lotta contro le campagne di diffamazione e il sabotaggio politico a cui è stato sottoposto. Ma dopo il 2019, molte di queste persone si sono dedicate a «costruire la base» in modo slegato da qualsiasi infrastruttura nazionale più ampia, il che ha portato a una serie di iniziative disparate – un sindacato comunitario qui, un gruppo di azione diretta là – che il governo in carica ha per lo più ignorato o represso. Ora è ampiamente accettato che sia necessaria una sintesi tra organizzazione elettorale e organizzazione popolare, come dici tu, ma non c’è ancora consenso sulla forma che questa dovrebbe assumere. Si è discusso molto se questa nuova organizzazione debba essere un partito fin dall’inizio o se debba iniziare come un’alleanza elettorale. I sostenitori di quest’ultima opzione sostengono che la frammentazione della sinistra britannica, e della vita sociale britannica nel suo complesso, rende necessaria una struttura di coalizione, in grado di abbracciare le lotte locali e sostenere i leader comunitari che, pur non identificandosi esplicitamente con «la sinistra», condividono in linea di massima la nostra politica. Tuttavia, allo stesso tempo, una coalizione poco coesa rischia di istituzionalizzare la frattura della sinistra invece di ripararla. Qual è la tua posizione al riguardo? James Schneider : Non sono favorevole a nessuna delle due posizioni, almeno non nella loro versione estrema. Da un lato, si corre il rischio di avere un Labour «riscaldato», con politiche migliori, ma con una forma di partito simile, la cui priorità principale è trovare candidati da presentare alle elezioni locali. Dall’altro, il pericolo è quello di finire con una coalizione di indipendenti senza una direzione precisa, che non offre alcuna prospettiva di governo per provocare un cambiamento reale. Nessuna di queste opzioni costruirà un potere autentico nella società. Nel libro che ho scritto dopo la sconfitta di Corbyn nel 2019, Our Bloc: How We Win (2022), sostenevo la necessità di una federazione dei movimenti, delle organizzazioni strutturate e delle forze esistenti della sinistra, che potesse fungere da blocco iniziale per costruire un progetto più ambizioso. Oggi è ancora perfettamente plausibile che un’organizzazione federata di questo tipo possa svolgere questo ruolo: gettare le basi per i diversi tipi di costruzione politica che ho menzionato in precedenza. Ma, da un lato, sarebbe ancora necessaria una struttura decisionale unificata per poter stabilire qualsiasi tipo di struttura più ampia, sia essa federale, confederale o centrale. Optare per una coalizione piuttosto che per un partito non cambierebbe il fatto che prima è necessario che le persone si incontrino, si uniscano e si mettano d’accordo sulle linee di base, e finora questo non è avvenuto. Non c’è nemmeno alcun motivo per cui un partito non possa rispettare posizioni diverse, con tendenze diverse e pluralismo interno. Un marchio politico locale già esistente dovrebbe poter continuare a funzionare con un alto grado di autonomia, se lo si desidera. Si tratta, francamente, di questioni di secondaria importanza, che possono essere risolte una volta stabiliti i canali deliberativi adeguati. Il mio modello preferito sarebbe una struttura in cui la strategia sia affidata ai membri e la tattica alla direzione. Le questioni strategiche importanti – quale tipo di costruzione del potere sociale privilegiare, come distribuire le risorse tra gli attivisti di tutto il paese, quale tipo di istruzione e formazione politica fornire, quale deve essere il contenuto del programma politico – sarebbero decise collettivamente. Le tattiche, ovvero come realizzare questi obiettivi strategici, possono essere determinate in larga misura dagli organizzatori o dai politici in prima linea. Affinché ciò funzioni, dovrebbe esserci un sistema di leadership collettiva, che potrebbe assomigliare al seguente: una lista di dodici o quindici leader presenterebbe una proposta strategica e forse anche una proposta politica, che sarebbe sottoposta ai membri, i quali esprimerebbero voti per la loro strategia preferita e i relativi candidati. Ciò darebbe luogo a un comitato nazionale composto da leader di diverse liste, che sintetizzerebbero le varie proposte e le sottoporrebbero alla conferenza dei membri, dove potrebbero essere approvate, modificate o respinte. Il comitato eleggerebbe anche persone per diverse funzioni nazionali: il nostro portavoce principale, il nostro organizzatore principale, il nostro collegamento con i movimenti progressisti, il nostro direttore del partito, ecc. In questo modo, ci sarebbero ancora persone in posizioni di leadership identificabili, ma non si tratterebbe solo di una gara di popolarità. Si creerebbe uno strato di leader in grado di prendere decisioni agili e tattiche, ma si promuoverebbe anche la partecipazione popolare trasformando la strategia in uno sforzo collettivo. Oliver Eagleton : Se un’organizzazione di sinistra fosse stata lanciata prima, si sarebbero potute sfruttare diverse opportunità politiche emerse di recente. A livello delle élite, si sarebbe potuto approfittare della decisione presa da Starmer lo scorso luglio di sospendere sette deputati, tra cui Sultana, dal gruppo parlamentare laburista, magari convincendo altri membri dello stesso a lasciare la nave. A livello di massa, si sarebbe potuta organizzare una risposta unitaria della sinistra alla crescente ondata di violenza razzista incitata sia da Starmer che da Farage. Perché, secondo te, il progetto ha tardato così tanto a vedere la luce? James Schneider : Ci sto lavorando da circa un anno e credo che ci siano fattori strutturali che rendono difficile il lancio di qualsiasi iniziativa: non solo del tipo specifico di partito di sinistra che ho difeso, ma di qualsiasi tipo di partito di sinistra. Come ho già detto, tutto si riduce alla questione del processo decisionale. Quali decisioni sono legittime? Chi può prenderle e chi può attuarle? Si tratta di un dilemma simile a quello dell’uovo e della gallina: non si possono prendere decisioni finché non si dispone di una struttura, ma per avere una struttura bisogna prendere decisioni. In altre situazioni equivalenti, questo problema viene aggirato in tre modi. Il primo è l’intervento di un iperleader. Jean-Luc Mélenchon dice: «Il Parti de Gauche non funziona, costituirò La France Insoumise», ed è quello che succede. La gente lo segue. In Gran Bretagna non abbiamo questo tipo di figura. Abbiamo una sorta di iperleader in Jeremy, una persona la cui autorità morale e politica è superiore a quella di chiunque altro, ma lui non agisce in questo modo. Non è nel suo stile. Il secondo è un’organizzazione strutturata preesistente con una capacità decisionale disciplinata. Potrebbe essere un sindacato o un movimento politico. In Sudafrica, Abahlali baseMjondolo, un movimento di persone che vivono in baraccopoli informali, conta 180.000 membri presenti in centodue insediamenti e sta effettuando occupazioni di terreni in quattro province. Ho partecipato alla sua assemblea generale, mentre osservavo le elezioni in Sudafrica lo scorso anno, e ho assistito alle discussioni sulla creazione di un proprio strumento elettorale. Possono utilizzare i loro meccanismi democratici esistenti, che consentono di prendere decisioni, contestarle e revocarle nell’ambito di un processo aperto in cui tutti conoscono la propria posizione. Anche questo manca in Gran Bretagna. La terza soluzione è un piccolo gruppo di persone molto affiatate e politicamente avanzate, in grado di prendere decisioni collettivamente. Nel corso della storia ci sono stati molti partiti comunisti formati da una dozzina di persone sedute attorno a un tavolo, che in breve tempo sono diventati organizzazioni di massa. Ma qui i dibattiti avvengono tra persone con background e priorità molto diverse, che non hanno questa visione collettiva. Come risultato di questi tre fattori strutturali, emerge un altro fattore contingente, che assume grande importanza. In realtà, è il fattore determinante, anche se cronologicamente successivo agli altri. Si tratta della questione delle personalità. In momenti di insufficienza collettiva come questo, i problemi individuali passano in primo piano. Ciò diventa molto più decisivo in condizioni di paralisi oggettiva. Ma ora, fortunatamente, sembra che stiamo facendo progressi. Nonostante questi ostacoli, sta prendendo forma un nuovo partito, perché sia la necessità politica che la pressione esterna sono schiaccianti. Non si può non costruire un nuovo partito, quando questo partito, che non ha ancora un nome, è già alla pari con il partito al governo nei sondaggi. Succederà in un modo o nell’altro. Oliver Eagleton : Quali sono i piani per il lancio ufficiale, ora che Corbyn e Sultana hanno annunciato questa conferenza? James Schneider : In realtà, purtroppo, il partito è già stato lanciato, anche se non esiste ancora. Ci è stato negato un lancio accuratamente pianificato, ma possiamo conviverci. Quello che dobbiamo fare ora è minimizzare l’importanza del fattore umano contingente, creando un tipo diverso di autorità sovrana: un organo che abbia il potere di guidare il processo. In pratica, questo si traduce in questa conferenza democratica. Può occuparsi di creare un comitato che abbia una reale legittimità nel processo decisionale. Tutte le persone che si iscrivono come membri del partito dovrebbero avere pieno diritto di partecipare. La conferenza dovrebbe riunire tutti, con strutture ibride e votazioni completamente online. Potrebbe scegliere un direttivo collettivo di cui ci si fida per sviluppare l’organizzazione nel corso del prossimo anno e poi potremmo sviluppare strutture e culture che consentano di prendere decisioni più significative. Niente di tutto questo sarebbe perfetto. In realtà, sarebbe ben al di sotto dell’ottimale, poiché significa fondamentalmente costruire l’auto mentre si guida. Si potrebbero commettere errori di ogni tipo, che potrebbero avere ripercussioni in futuro. Ma almeno questo approccio accelererebbe il processo. Offrirebbe qualche speranza in un momento politico in cui questa scarseggia disperatamente. E questo sarebbe qualcosa di molto significativo. Testi consigliati Perry Anderson, ¿Ukania Perpetua? , in «New Left Review» 125 novembre-dicembre 2020 Goran Therborn, El futuro y la izquierda , in «New Left Review»   145 marzo-aprile 2024, e El mundo y la izquierda, in «New Left Review» 137 novembre-dicembre 2022 Pablo Iglesias, Entender Podemos, in «New Left Review» 93 luglio-agosto 2015 Maurizio Lazzarato, I vicoli ciechi del pensiero critico occidentale , in «Diario Red» 02/03/25 Oliver Eagleton è membro e redattore associato della «New Left Review» e autore di Starmer Project: A Journey to the Right (2025).

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    Vivere in viaggio tra due secoli e un millennio Christian Pinçon Alcune acute riflessioni sulla formazione critica dell’Io: «Ricordiamo sempre che l’identità critica matura non è mai un dono ma è perenne conquista dell’Io: ci piaccia o no». Si vorrà proporre un viaggio attraverso la coscienza in questo momento particolare: per forme, contenuti della normalità confusa, conflittuale, infelice e declinante; premessa di impotenza e di patologie e di indifferenze dei poteri istituzionali e culturali. Verranno esaminati due gruppi di cause di ciò determinanti: la sostanziale scomparsa negli ultimi cinquant’anni della formazione critica dell’io unico mezzo e fine per superare le crisi per il ruolo dei poteri culturali; nonché le cause neuropsichiche che riguardano il rapporto sistema nervoso centrale-ambiente, i suoi pregi ed errori scelti non solo inconsciamente. La prima etiologia riguarda gli «organizzatori esterni» della coscienza personale nelle loro funzioni e modi di essere esempi (esercizio della politica, della gestione amministrativa e delle istituzioni formative), la vita familiare obbligata e scelta che non ha potuto e saputo arricchirsi di qualità educative adeguate, ma soprattutto lo sguardo va su tutto ciò che chiamiamo cultura nei valori trasmessi ai giovani in questa epoca nuova, società postbellica ricca, desiderante, come un eterno presente ove vede immagini, illusioni, compera di oggetti, resa dell’Io a vantaggi personali come nuova «religione», con marcato ritardo dell'Io che riflette e inventa con coraggio modi di affrontare rinunce, incoerenze, differenze. Nella cultura che respiriamo le certezze della normalità Io-mondo sono ridefinite da decenni in termini sociali, di gestione politica e sulla persona (v. per es. la dissociazione tra soddisfazione economica e sicurezza sociale e l’inadeguatezza dell’Io ove mezzi e fini del vivere sono in «perverso» rapporto tra cervello e tecnica v. dopo). Il tutto comporta stato confuso dell’Io: ricordate la coscienza avvolta nei molti «noi» collettivi della seconda metà del Novecento e la coscienza in solitudine attuale per il mutato troppo rapido percepire delle persone e delle cose di oggi? Il tema è che la coscienza personale vive ciò in stato di precarietà e forse di rimpianto e con presenza di alternanti modi di autenticità e recite intrapsichiche e interpersonali. Ci vorrebbe una ginnastica mentale viva di cognizioni, interpretazioni, rimodulazione, curiosità, arricchimenti del senso di noi stessi e delle cose. A completamento di questi fattori di coscienza critica in prevalenza scomparsa (ove vince il concreto, e il limite e la morale sono sempre più indefiniti) va aggiunto il degrado dei contenuti e forme della cultura in ogni sua accezione: modi relazionali intra ed extra familiari, gestioni delle istruzioni formative scolastiche, ruolo martellante dei mass media (pubblicità, audience ecc...), ruolo degli intellettuali all’opera (di vecchia sgradevole storia).La seconda etiologia a onor del vero riguarda la storia del cervello che dalla fine della seconda metà del Novecento ha per paradosso, buone e drammatiche responsabilità: si producono vere illusioni, si propalano finte verità attraenti, ci si alimenta meglio, l’igiene migliora, vaccini e farmaci si inventano, il benessere materiale migliora. Ciò ha fatto uscire l’uomo e interi popoli dal caso e dalla necessità materiale psichica (ma oggi verso quale libertà, quella dei desideri materiali e di possesso?); infine tutto questo si colloca in una lungovivenza imponente (la vita media si è più allungata negli ultimi settant’anni che nei precedenti duemila) con gravi problemi di welfare nelle democrazie. Ma la plasticità interattiva genetica ed epigenetica al livello biopsichico come vedremo, ci prende, ci attrae, ci porta con sé: la «dissonanza cerebrale» prodotta dopo migliaia di anni a partire da ’90 circa, ha inventato macchine operazionali che trascendono velocità, efficienza operativa del cervello prefrontale, progettuale, lento, progressista, che ormai controlla sempre meno la sua stessa fisiologia. È avvenuta la formazione e la mediazione culturale da umanistica a informatica: si sono così facilitate apatia e impulsività estreme del cervello primitivo, condizionando lo sviluppo della personalità, ritardando e deviando lo stile maturo del proporsi (vedi alterazione delle mediazioni, della parola, dei linguaggi, delle azioni non posticipate con compimento alterato dei significati). La vita non è più «paideia» stimolante la soggettività con invenzioni, creazioni, fantasie, con progetti verificabili. Prevale l’imitazione, la recita, il ruolo inconsciamente obbligato. Va prevalendo il tempo vissuto come eterno presente immediatistico: qui vincerà il piacere rapido, il consumismo di oggetti, il mercato dei desideri e di diritti; ormai differire ad esempio una gratificazione è considerato come disvalore. Si va perdendo interesse del passato e del presente verso il futuro, compensato da un tempo immobile, reiterato, dove prevale l’uso e non lo scambio delle relazioni personali, sconvolgendo il ruolo della memoria collettiva matrice di identità e riducendo l’essere ad avere. Sapremo riamare la pazienza come attendere e il conoscere come co-nascere diverso dall’immediato?Infine qualche postilla a questo mio atto d’amore per la formazione critica dell’Io: Il nuovo pubblico di massa così acculturato crede, per meccanismi inconsci di spostamento e sublimazione, che siano prodotti e merci anche le qualità soggettive (i vissuti vari, i sentimenti, i conflitti e le differenze) e per di più questo avviene in tempi di convivenza lunghi dei rapporti affettivi. Tutto questo è trattato ormai con linguaggi degli oggetti d’uso. Il cervello sottocorticale è all’opera, appare vincente, la chimica dell’impulsività, del piacere rapido, della decadenza dei gesti e dei linguaggi, rendono quella cultura di massa prevalente; ormai computer, telefonini, tv obbligano un Io ritirato, sempre meno relazionale in modo molto diffuso. C’è anche un secondo aspetto con altra conseguenza: si è formata una piccola media borghesia culturale tramite i poteri tecnologici della comunicazione e dell’informazione, per di più a carattere interclassista e trasversale e dipendente (osservante bene ruoli e poteri). a tutto ciò che non è adatto e funzionale ai poteri economici e culturali (i disagi, i disturbi, le impotenze umane), la politica amministrativa e istituzionale risponde con le ore di educazione affettiva a scuola, oppure si formano giuridicamente certi comportamenti o si delega l’infelicità e l’insoddisfazione agli specialisti della psiche e della morale, ormai a-morale (v. Cardinal Ravasi). Dunque la formazione critica dell'Io è sempre più lontana e precaria nelle sue certezze.Senonché la civiltà personale come scriveva Freud ad Einstein è contradditoria, è ambigua biopsichicamente a livello genetico ed epigenetico. E tutt’ora per fortuna non è così facilmente riducibile a oggetto. Dovremmo ritrovare la gioia della parola, la riflessione che non si compera, riamare lo studio, divenire persone protagoniste della propria storia con speranza e pazienza, oltre Il disagio nella civiltà  che Freud nel 1930 volle lasciarci: mi pare questa la più appropriata qualificazione di Cultura.Ricordiamo sempre che l’identità critica matura non è mai un dono ma è perenne conquista dell’Io:ci piaccia o no. Giovanni Mastrangeli (1944) si è laureato in medicina e chirurgia presso l’Università Statale di Milano nel 1969 divenendo poi specialista in neuropsichiatria e psicoterapia presso l’Università di Siena nel 1974. È stato medico dirigente del Servizio Psichiatrico Provinciale della città di Reggio Emilia dal 1971 al 1976. Dal 1976 al 1989 medico dirigente del Servizio Psichiatrico Provinciale di Viterbo. Dal 1989 libero professionista nella città di Viterbo con attività di formazione e di promozione culturale. Dal 1989 libero professionista nella città di Viterbo con attività di formazione e di promozione culturale. Consulente in Psicogeriatria e in comunità psichiatriche come psicoterapeuta e psicofarmacologo clinico.

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    Attacchi aerei, veicoli esplosivi e bulldozer causano una distruzione <> nella città di Gaza L’esercito israeliano sta utilizzando attacchi aerei, veicoli blindati carichi di esplosivi e bulldozer per radere al suolo quartieri e centri di accoglienza per sfollati nella città di Gaza. Testimoni oculari e funzionari locali affermano che l’obiettivo è quello di provocare una fuga di massa e impedire ai residenti di tornare. Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Mondoweiss   ed è ripubblicato qui con il consenso espresso del suo editore. Prima della sua invasione su larga scala della città di Gaza, l’esercito israeliano sta causando una distruzione generalizzata nel più grande centro urbano della Striscia, costringendo i residenti ad evacuare le varie zone della città prima della data di inizio dell’invasione, annunciata pubblicamente per il prossimo 7 ottobre. Recenti testimonianze oculari e report da parte dei membri della Protezione Civile di Gaza indicano che l’esercito israeliano sta utilizzando mezzi corazzati per il trasporto di truppe riconvertiti in veicoli esplosivi, che vengono inviati in centri densamente popolati, compresi quartieri e centri per sfollati, prima di farli esplodere a distanza. Gli attacchi continuano insieme a una vasta operazione di demolizione lanciata nella città e a costanti bombardamenti aerei. Tra il 12 e il 18 agosto, l'esercito israeliano ha distrutto più di quattrocento edifici nel quartiere di Zaytoun e ha lanciato una limitata incursione terrestre  nelle sue vicinanze. L’esercito ha anche lanciato un’operazione simile nel quartiere di Sabra, a ovest della città di Gaza. Il portavoce della Protezione Civile palestinese a Gaza, Mahmoud Basal, ha dichiarato a «Mondoweiss»   che l’esercito israeliano ha distrutto più di millecinquecento edifici nella città di Gaza solo con gli attacchi aerei dal 6 agosto, principalmente a Zaytoun e Sabra. Basal ha spiegato che la Protezione Civile continua a ricevere chiamate da civili intrappolati in entrambi i quartieri, ma che non c’è modo di raggiungerli a causa dei bombardamenti intensivi. «Temiamo che l’invasione israeliana si spinga ancora più all’interno della città di Gaza e che le squadre della Protezione Civile non riescano a raggiungere i luoghi bombardati dalle forze di occupazione», ha aggiunto Basal. «Nessun luogo di Gaza è sicuro, né a nord né a sud. Le bombe costringono i residenti ad abbandonare le loro case, i centri di accoglienza e persino le loro tende». Abdulwahhab Ismail, residente nella zona di Saftawi, nel nord-ovest di Gaza, ha evacuato il suo quartiere martedì 26 agosto dopo che diversi edifici della sua strada sono stati fatti esplodere da quelli che ha descritto come «robot» esplosivi. «L’esercito israeliano invia i robot vicino alle nostre case, dove rimangono parcheggiati per terrorizzarci», ha detto Ismail. «Non li fanno esplodere immediatamente, ma aspettano che la paura ci spinga a fuggire. Quando la gente non se ne va, l’esercito fa esplodere i robot, indipendentemente dal fatto che ci siano civili nella zona». I «robot» descritti da Ismail sono probabilmente i modelli  obsoleti M113 APC  dell’esercito, che sono stati ricondizionati con esplosivi e fatti esplodere a distanza vicino agli edifici durante tutta la guerra.  Ismail ha detto a «Mondoweiss»   che né lui né la sua famiglia hanno avuto il tempo di portare via nulla dalla loro casa per paura che facessero esplodere i veicoli blindati riconvertiti in ordigni esplosivi situati nelle vicinanze. «Prima, l'esercito era solito far saltare in aria uno o due edifici con i robot. Ora distruggono dozzine di edifici alla volta. I robot e gli aerei da combattimento lavorano insieme per distruggere ogni angolo della città di Gaza», ha affermato. Ismail ha detto che lui e la sua famiglia non lasceranno la città di Gaza, poiché non possono permettersi il trasporto per spostarsi a sud e procurarsi una tenda lì, né possono spostarsi a piedi. «Siamo arrivati qui, a ovest di Gaza, senza nulla», ha detto. «Siamo in strada. Cercheremo di trovare un riparo di qualche tipo, ma resteremo nella città di Gaza». Distruzione senza precedenti Invece di un’invasione su larga scala, l’esercito israeliano sta utilizzando una combinazione di attacchi aerei, veicoli blindati, incursioni limitate e operazioni di demolizione per costringere i residenti a fuggire prima della prevista invasione terrestre. Basal ha commentato che l'esercito sta effettuando una demolizione a tappeto degli edifici nella città di Gaza, sgomberando e radendo al suolo interi quartieri in modo simile a quanto è avvenuto in altri quartieri  della stessa città e in altre parti della Striscia.  «Si tratta di una vasta operazione di demolizione, che sta letteralmente radendo al suolo i quartieri di Zaytoun e Sabra», ha spiegato Basal. «L'esercito utilizza scavatrici di proprietà e gestiti da appaltatori privati israeliani». Tuttavia, Basal ha chiarito che i veicoli blindati esplosivi stanno ora occupando un posto centrale nell’operazione nella città di Gaza, descrivendo i veicoli telecomandati come «robot della morte». «Dal 6 agosto scorso, l’esercito israeliano ha inviato ogni giorno fino a cinque robot in diverse zone della città di Gaza, in particolare nelle aree di al-Zaytoun e al-Saftawi», ha affermato Basal, aggiungendo che il raggio di esplosione dei veicoli blindati riconvertiti in ordigni esplosivi è di 100 metri, all’interno del quale tutto viene distrutto o gravemente danneggiato. Ha confermato che l’esercito non è ancora avanzato completamente verso la città, ma ha utilizzato i veicoli telecomandati per radere al suolo gli edifici e intimidire i residenti affinché fuggano in massa. Basal afferma che questo obiettivo è evidente, dato che uno degli obiettivi dei veicoli blindati esplosivi sono i centri di accoglienza per i civili sfollati. Secondo Basal, i veicoli blindati riconvertiti sono stati utilizzati per distruggere tutti i centri di accoglienza per sfollati nel quartiere di al-Zaytoun, al fine di impedire alle persone di rimanere nella zona. Basal ha descritto la distruzione causata come «senza precedenti». «Le operazioni di distruzione perpetrate ad al-Zaytoun suggeriscono qualcosa di folle e inimmaginabile», ha spiegato. «Aree intere sono state cancellate e rase al suolo. Tutte le scuole della zona sono state distrutte. Non è rimasta in piedi nemmeno una scuola ad al-Zaytoun. Si tratta di un chiaro piano per annientare il quartiere. Oltre l’80% è già stato distrutto». «Stiamo parlando di oltre millecinquecento edifici distrutti solo dai bombardamenti aerei», ha chiarito Basal. «Gli edifici distrutti dai robot non sono inclusi. Stiamo assistendo a qualcosa di simile alla distruzione nella zona di Beit Hanoun». I residenti di Gaza sono riluttanti a fuggire sotto i bombardamenti L’esercito israeliano ha anche continuato a lanciare volantini e a telefonare ai residenti di Gaza, esortandoli a evacuare la città e assicurando loro che stanno preparando zone «umanitarie» per gli sfollati nel sud. Il portavoce arabo dell’esercito israeliano, Avichay Adraee, ha pubblicato  un avvertimento ai residenti della città di Gaza prima della fase 2 dell’operazione. «L’evacuazione della città di Gaza è inevitabile», ha affermato Adraee. «Tutte le famiglie che si trasferiranno nel sud riceveranno il massimo aiuto umanitario, che è attualmente in fase di preparazione». Il portavoce ha detto che l’esercito israeliano sta installando tende e preparando aree per la distribuzione di aiuti umanitari, la costruzione di condutture idriche e altre infrastrutture. Ma, finora, la maggior parte delle persone che evacuano la città lo fanno solo quando vengono colpite dai bombardamenti, a causa della mancanza di altre opzioni, secondo quanto riferito dai residenti. «Gli abitanti di al-Zaytoun sono quasi 80.000», ha commentato Basal. «Ne sono rimasti solo circa 20.000. Gli altri hanno dovuto andarsene quando sono stati colpiti dai bombardamenti. Ma tutti si sono trasferiti in altre parti della città di Gaza, principalmente a ovest». «Una persona su mille decide di seguire gli ordini dell’esercito israeliano», ha detto Basal, chiarendo che la maggior parte delle persone non ha i fondi per pagare il trasporto, che costa più di 300 dollari, mentre una tenda ne costa più di 1000. «La gente ha già provato cosa significa essere sfollati nel sud», ha aggiunto Basal. «Sanno che lì non c’è sicurezza. L’esercito israeliano brucia vive le persone all'interno delle loro tende». Testi consigliati Qassam Muaddi, Israele ha appena compiuto un altro grande passo verso l'annessione della  Cisgiordania»  e Quattro ragioni per cui il mondo accetta la pulizia etnica di Israele in  Cisgiordania , «Diario Red», 7/06/2025 e 24/05/2025.  Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, Relazioni della Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese, Anatomia di un  genocidio  (2024) e   Dall’economia dell’occupazione all’economia del  genocidio  (2025). Tareq S. Hajjaj è il corrispondente da Gaza di Mondoweiss e membro dell’Unione degli scrittori palestinesi.

  • clan milieu

    Sul Genocidio a Gaza Christopher Wood Sul genocidio in corso a Gaza pubblichiamo una lettera che il nostro collaboratore e autore Christopher Wood ha inviato all’Ambasciatore del Canada a Roma. Le immagini che accompagnano la lettera sono state realizzate tempo addietro da Chris e crediamo ben si adattino a un auspicio di buon esito della missione in corso da parte della Global Sumud Flotilla. All’Ambasciatore del Canada a Roma e allo staff dell’Ambasciata. Mentre il mondo osserva ciò che sta accadendo a Gaza, noi rimaniamo in attesa di qualcuno che ci sorprenda con un atto di coraggio ed esprima la sua assoluta condanna di Netanyahu e dei suoi pirati. In un lontano passato i pirati erano perseguiti e alcuni di essi affrontavano la crudeltà della giustizia dei loro tempi proprio come le cosiddette streghe venivano bruciate sul rogo. Molti canadesi e i loro alleati persero la vita mentre si impegnavano diffusamente in Europa combattendo i tedeschi, e ora pare abbiamo perso la determinazione di incalzare Israele e chiamare le cose col loro nome. Il genocidio è in atto e noi non interveniamo. Se pensiamo indietro e ricordiamo le Reith Lectures  tenute dal vostro attuale, da poco eletto, Primo Ministro, Mark Carney, ricordiamo come ritenevamo fosse un uomo dai sani principi. Ma ad ora rimaniamo delusi, non sta facendo nulla che possa essere considerato audace. Il Primo Ministro non è disposto ad ascoltare i suoi coraggiosi cittadini che hanno dimostrato il loro valore a Gaza? Deve collaborare ancora con lo Stato della Stella di David? I salmi del re David sono così incantatori da costringerci a pensare che la Bibbia  sia di tale rilevanza, per il nostro mondo attuale, che i detentori di questa meravigliosa eredità devono essere protetti a qualunque costo? L’antica civiltà dell’Iran viene umiliata, in parte per propria responsabilità, ma Dio, cosa sta succedendo a Gaza? Un massacro, un genocidio, un processo di eliminazione di esseri umani. Walt Whitman scrisse una poesia che ci è rimasta impressa nel cuore: questa rende manifesta l’eliminazione degli indiani del Nordamerica, e parla di una persona (la madre) che riceve la visita di una bellissima Squaw pellerossa e di come poi lei si sia dileguata. La poesia fa male. Dice chiaramente che non siamo molto meglio di coloro che hanno chiuso gli occhi, tappato le orecchie e non hanno pronunciato una parola mentre i forni crematori nell’Europa occupata dai nazisti facevano ciò che tutti ricordiamo. Molto di ciò che vediamo accadere è insopportabile e impossibile da spiegare ai bambini. Ci sarà un figlio che porrà ai propri genitori una domanda pertinente sul perché la gente muore di fame? Scriviamo queste parole con il dovuto rispetto per il più alto rappresentante a Roma del Canada e speriamo che il contenuto della lettera possa accendere una scintilla nel cuore di qualcuno, scuoterlo e avere un effetto tale da incoraggiare la condanna di Israele.  Cordiali saluti, Christopher Wood, via Piave 16, Porto Ceresio (21050) (Va). Traduzione di Roberto Gelini Christopher Wood è nato ad Anversa nel 1951 e, dopo numerosi spostamenti, vive e crea le sue opere a Porto Ceresio. La sua formazione artistica si è svolta negli anni Settanta presso la Scuola d’Arte di Zurigo. Le sue creazioni, che spaziano dai disegni alle xilografie, dagli intagli su carta ai libri manufatti e persino a costumi, sono il risultato di un processo creativo che unisce pensiero e manualità, traendo ispirazione e nutrimento dal viaggio.

  • konnektor

    Come potrebbe agire oggi l’ONU per fermare il genocidio in Palestina Con l’avvicinarsi della data cruciale imposta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Israele per ottemperare alle disposizioni della Corte Internazionale di Giustizia, un meccanismo poco utilizzato dell'ONU, immune al veto statunitense, potrebbe fornire protezione militare al popolo palestinese, è però necessario esigere che lo si metta in moto. Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Mondoweiss  ed è ripubblicato qui con il consenso espresso del suo editore. Dopo ventidue mesi di massacri senza precedenti tre cose sono diventate chiare: (1) il regime israeliano non porrà fine al genocidio in Palestina di sua spontanea volontà, (2) il governo degli Stati Uniti, principale collaboratore di Israele, così come la maggior parte degli israeliani e i rappresentanti e i gruppi di pressione del regime israeliano in Occidente, sono pienamente impegnati in questo genocidio e nella distruzione e cancellazione di ogni traccia della Palestina dal fiume al mare, e (3) altri governi occidentali, come il Regno Unito e la Germania, così come troppi Stati arabi complici della regione, sono pienamente piegati alla causa dell'impunità israeliana. Ciò significa che il genocidio (e l’apartheid ) finiranno solo attraverso la resistenza opposta al regime israeliano, la fermezza del popolo palestinese, la solidarietà del resto del mondo e l’isolamento, l’indebolimento, la sconfitta e lo smantellamento del regime israeliano. Come nel caso dell’apartheid in vigore in Sudafrica, si tratta di una lotta di lunga durata. Ma anche di fronte all'ostruzionismo dei governi occidentali, ci sono cose che si possono fare già adesso. Cose come boicottaggi, disinvestimenti, sanzioni, manifestazioni, rivolte, disobbedienza civile, educazione, procedimenti giudiziari in base alla giurisdizione universale e cause civili contro i responsabili israeliani e gli attori complici presenti nelle nostre società. E sì, possiamo anche esigere l'intervento e la protezione del popolo palestinese. Istituito da una risoluzione dell'epoca della Guerra Fredda adottata nel 1950, il meccanismo Uniting for Peace  autorizza l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ad agire quando il Consiglio di Sicurezza è bloccato dal veto di uno dei suoi membri permanenti. In base a questo meccanismo, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite potrebbe ordinare lo schieramento di una forza di protezione delle Nazioni Unite in Palestina, la protezione della popolazione civile, la garanzia degli aiuti umanitari, l’acquisizione delle prove dei crimini israeliani e la fornitura di aiuti per la ricostruzione e la ricostruzione. E la scadenza incombente fissata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso anno affinché Israele ottemperasse alle ordinanze e alle conclusioni emesse dalla Corte Internazionale di Giustizia, che includevano la promessa di imporre «misure aggiuntive» in caso di inadempienza, rappresenta un momento critico per agire. In realtà, le Nazioni Unite e la comunità internazionale avrebbero dovuto intervenire già da tempo. Modelli di intervento Come ho scritto in precedenza , qualsiasi paese può intervenire legalmente (individualmente o di concerto con altri) per fermare il genocidio, i crimini contro l'umanità e i crimini di guerra perpetrati dal regime israeliano. Infatti, in virtù delle Convenzioni di Ginevra , della Convenzione sul genocidio  e di altre fonti di diritto, gli Stati sono legalmente obbligati a farlo, se si trovano di fronte a tali atrocità. Il diritto internazionale richiede l'intervento, lo Stato di Palestina ha richiesto  l'intervento e la società civile palestinese ha fatto appello per  l’intervento. Tuttavia, pochi Stati hanno adempiuto a questo solenne obbligo, mentre lo Yemen, sotto il controllo di Ansar Allah, è stato attaccato senza pietà dalle forze statunitensi per averlo fatto,  e si è permesso di continuare il genocidio per quasi due anni. Pertanto, di fronte a questa situazione, un mandato multilaterale potrebbe fornire copertura legale, politica e diplomatica necessaria alla maggior parte degli Stati per partecipare a un intervento in Palestina. A questo punto occorre agire con cautela. Ci sono molte proposte di intervento. Ma alcune di esse non hanno nulla a che vedere con la protezione del popolo palestinese, e tanto meno con la sua liberazione. Alcuni attori hanno chiesto osservatori civili per Gaza, essenzialmente poche decine di osservatori con giubbotti blu armati solo di blocchi per appunti e radio. Ma ci sono stati osservatori dei diritti umani in Cisgiordania e a Gaza per decenni, prima e durante l’attuale genocidio. Sebbene questi osservatori svolgano un lavoro prezioso, non hanno alcun effetto deterrente e il regime israeliano li considera un ostacolo insignificante ai suoi disegni nefasti. Altri, come i francesi e i sauditi, hanno chiesto l’intervento di una presunta «forza di  stabilizzazione», ma i dettagli della loro proposta suggeriscono che tale intervento non sarebbe progettato in pratica per proteggere il popolo palestinese dal regime israeliano, ma in realtà per sorvegliare la resistenza palestinese e ripristinare così il crudele status quo esistente prima dell'ottobre 2023, con l’imprigionamento del popolo palestinese e il suo lento e sistematico annientamento. Allo stesso tempo, molte di queste proposte di intervento sembrano essere concepite in gran parte per riprendere il processo di normalizzazione del regime israeliano e resuscitare la messinscena di Oslo. Inutile dire che il ritorno a una sorta di Oslo 2.0, concepito come un’altra cortina fumogena per l'impunità israeliana, in cui ai palestinesi viene detto che devono negoziare i loro diritti con il loro oppressore, mentre questi e le loro terre sono oggetto di una continua erosione e lo status del regime si consolida e si normalizza sempre più, non è la soluzione. È anche sul tavolo la proposta di Donald Trump  che consiste nell'occupazione diretta da parte degli Stati Uniti della Striscia, nella pulizia etnica e nel dominio coloniale di Gaza, che rivela ancora una volta le illusioni pericolose e profondamente razziste dell’impero statunitense. Infine, lo stesso regime israeliano ha suggerito  il dispiegamento di una forza di occupazione composta dalle forze degli Stati arabi che collaborano con Israele. È evidente che queste proposte non mirano a porre fine al genocidio e all’apartheid, ma a consolidarli. Le opzioni dell’ONU Questo ci porta all’ONU. A metà settembre scadrà il termine fissato lo scorso anno dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite affinché Israele ottemperi alle richieste della Corte Internazionale di Giustizia e della stessa Assemblea Generale, pena l’adozione di «nuove misure ». Le delegazioni occidentali si stanno affrettando a impedire questo addossamento di responsabilità nei confronti di Israele, distogliendo l’attenzione verso questioni come il riconoscimento della Palestina come Stato o cercando di resuscitare il cadavere degli Accordi di Oslo e la cosiddetta «soluzione dei due  Stati», il che implica fondamentalmente avviare un altro processo politico di normalizzazione di Israele e di emarginazione del popolo palestinese, con un nuovo diversivo per consentire il proseguimento degli abusi israeliani e la vaga promessa della creazione di un bantustan palestinese in un futuro indeterminato. Ma l’ONU non ha motivo di cadere in questa trappola. Naturalmente, la stessa ONU ha molto di cui rispondere in questo genocidio. Alcuni suoi membri hanno senza dubbio avuto comportamenti assolutamente eroici, come hanno dimostrato i lavoratori dell’UNRWA, che sono stati uccisi  a centinaia dal genocidio israeliano, molti insieme alle loro famiglie, e altri operatori umanitari dell’ONU , che hanno continuato a lavorare per alleviare le sofferenze del popolo di Gaza, nonostante l’enorme rischio che ciò comportava; o la Corte internazionale di giustizia,  che ha preso decisioni storiche affermando i diritti del popolo palestinese nonostante l’enorme pressione affinché non lo facesse, così come i relatori speciali delle Nazioni Unite, come Francesca Albanese,  che hanno sopportato due anni di diffamazioni, calunnie, molestie, minacce di morte e sanzioni da parte degli Stati Uniti,  solo per aver detto la verità e applicato la legge. Ma il versante politico dell'ONU ha fallito clamorosamente. Alcuni, come il suo segretario generale António Guterres, i suoi principali consiglieri (in materia di genocidio, bambini nei conflitti, violenza sessuale nei conflitti, questioni politiche, ecc.), l’Alto Commissario per i diritti umani e altri alti dirigenti politici, hanno fallito miseramente, non perché non potessero fare di più, ma perché hanno deciso di non farlo. E, naturalmente, il simbolo del fallimento dell’ONU è il Consiglio di Sicurezza, che è diventato totalmente inutile a causa delle restrizioni imposte dagli Stati Uniti e dai loro alleati occidentali. La risoluzione Uniting for Peace offre l’opportunità di raddrizzare la rotta dell’ONU e di salvare la dignità dell’organizzazione dal colpo potenzialmente fatale di un altro genocidio sotto la sua supervisione. Scenari del Consiglio di Sicurezza È ovvio che, ai sensi del Capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite , il Consiglio di Sicurezza ha il potere di dispiegare una forza armata e di imporla anche contro la volontà di un Paese. Ma dato che Stati Uniti, Regno Unito e Francia (tutti Stati complici di genocidio) hanno diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, ci sono solo due possibili risultati nell’affrontare una proposta di intervento in Palestina: (1) un mandato che soddisfi gli Stati Uniti in qualità di rappresentante di Israele, il che significa che sarebbe formulato in modo disastroso per il popolo palestinese e potrebbe essere imposto contro la sua volontà, ai sensi del Capitolo 7, oppure (2) il veto degli Stati Uniti a qualsiasi forza che sarebbe realmente utile per intervenire in Palestina data la situazione attuale. È evidente che il Consiglio di Sicurezza, per sua stessa natura, non è schierato con gli occupati, i colonizzati o gli oppressi. Pertanto, la strada verso la protezione e la giustizia non passa attraverso il Consiglio di Sicurezza, ma attraverso il suo aggiramento. Uniting for Peace all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite È quindi praticamente impossibile che il Consiglio di Sicurezza adotti misure significative in un organo dominato dal veto degli Stati Uniti. Ma ecco la chiave: il mondo non deve arrendersi a quel veto. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si riunirà a settembre, è autorizzata, ai sensi della risoluzione Uniting for Peace,  ad agire quando il Consiglio di Sicurezza non può farlo a causa del veto. Ci sono precedenti storici. E non è mai stato così urgente adottare una misura così straordinaria. Una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottata in virtù della risoluzione Uniting for Peace potrebbe: Esortare tutti gli Stati ad adottare sanzioni globali e un embargo militare contro il regime israeliano. Sebbene non abbia il potere di far rispettare le sanzioni, può proporle, monitorarle e integrarle secondo necessità. Decidere di rifiutare le credenziali di Israele all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, come ha già fatto nel caso dell’apartheid in Sudafrica. Istituire un meccanismo di responsabilità (come un tribunale penale) per affrontare i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, l’apartheid e il genocidio perpetrati da Israele. Riattivare i meccanismi anti-apartheid  delle Nazioni Unite, inattivi da tempo, per affrontare l’apartheid israeliano, e Mandare una forza armata multinazionale di protezione dell’ONU a Gaza (e, in ultima analisi, in Cisgiordania), su richiesta dello Stato di Palestina, per proteggere i civili, aprire punti di ingresso via terra e via mare, facilitare gli aiuti umanitari, acquisire le prove dei crimini israeliani e aiutare nella ricostruzione. Tutte queste misure potrebbero essere adottate dall’Assemblea Generale con una maggioranza di due terzi, aggirando così il veto degli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza. Poiché la Palestina ha richiesto l’intervento, non è necessaria alcuna misura del Capitolo 7 da parte del Consiglio di Sicurezza per dispiegare una forza di protezione. La Palestina manterrebbe la piena autorità su quando e per quanto tempo la missione verrebbe dispiegata, dissipando così i timori di un’altra forza di occupazione. È molto importante sottolineare che, come confermato dalle recenti conclusioni della Corte internazionale di giustizia,  Israele non avrebbe alcun diritto legale di rifiutare, ostacolare o influenzare la missione. La Corte ha affermato che Israele non ha alcuna autorità, sovranità o diritti su Gaza e sulla Cisgiordania. Il processo è semplice: (1) in primo luogo, una proposta diviene oggetto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza (ciò è inevitabile, dato il ruolo degli Stati Uniti come rappresentante di Israele in seno al Consiglio); (2) gli Stati convocano una sessione speciale di emergenza [ emergency special session] dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in base al meccanismo Uniting for Peace (anche questo è facile, poiché la 10a Sessione Speciale di Emergenza è ancora attiva e può essere facilmente ripresa su richiesta di uno Stato membro); (3) uno o più sponsor propongono una risoluzione, in stretta consultazione con lo Stato di Palestina; (4) la risoluzione viene adottata a maggioranza dei due terzi (soglia richiesta dalle norme per «questioni importante» come questa. Le precedenti votazioni sulla Palestina indicano che questo margine è raggiungibile); (5) il Segretario Generale delle Nazioni Unite viene incaricato di richiedere contributi di truppe ai paesi, consultandosi con lo Stato di Palestina in qualità di entità richiedente, e (6) la missione viene riunita e dispiegata (anche se ciò potrebbe essere politicamente difficile a causa della prevedibile interferenza attiva degli Stati Uniti, tecnicamente è facile). Dal punto di vista giuridico, non vi sono ostacoli. Le norme lo consentono, il potere dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ai sensi della risoluzione Uniting for Peace è stato ribadito più volte ed esistono precedenti, tra cui spicca il mandato conferito dall’Assemblea Generale del 1956 alla Forza di Emergenza dell’Onu nel Sinai ( UNEF)  nonostante le obiezioni del Regno Unito, della Francia e di Israele. Naturalmente, gli Stati Uniti e il regime israeliano useranno tutti i mezzi a loro disposizione per cercare di impedire il raggiungimento della maggioranza dei due terzi necessaria, cercando di ammorbidire il testo e di corrompere e minacciare gli Stati affinché votino contro, si astengano o si assentino dal voto. L’attuale governo illegittimo insediato a Washington potrebbe persino minacciare sanzioni a nome del regime israeliano, come ha già fatto con il Tribunale penale internazionale  e la relatrice speciale delle Nazioni Unite  Francesca Albanese. Ed è probabile che cercheranno di ostacolare la stessa forza di protezione, una volta che le sarà stato affidato il mandato. La maggior parte degli Stati del mondo dovrà quindi mantenere la posizione di fronte alle minacce degli Stati Uniti e di Israele. E la società civile mondiale dovrà rimanere salda nelle sue richieste di protezione e giustizia, garantendo la copertura informativa e la trasparenza del percorso che porterà gli Stati a votare a favore o contro una forza per proteggere il popolo palestinese dal genocidio. A nessuno sarà permesso di nascondersi dietro il veto degli Stati Uniti, alzando le mani con la solita solfa: «Ci abbiamo provato, ma gli Stati Uniti hanno posto il veto». Una volta incaricata, la forza di protezione dovrà essere dispiegata per via aerea, terrestre e marittima, essere accompagnata dai media internazionali ed essere sostenuta da tutti i canali diplomatici disponibili per garantirne il successo, nonché per esercitare pressioni sul regime e sui suoi sostenitori occidentali affinché smettano di comportarsi come stanno facendo. Il mondo ha l'opportunità di fermare, anche se tardivamente, un genocidio e altri crimini contro l'umanità. L'unica cosa necessaria è la volontà di farlo. Conclusione Di fronte ad atrocità storiche come queste, che minacciano la sopravvivenza stessa di un popolo e che potrebbero seppellire il nascente progetto articolato attorno ai diritti umani e al diritto internazionale, è necessario mettere in campo tutti gli strumenti disponibili. Il mondo non lo ha fatto. Deve provarci, e in fretta. Naturalmente, non siamo ingenui. Il successo non è assicurato, ma il fallimento è garantito se non ci proviamo. E il tempo è essenziale. Il genocidio continua a devastare Gaza e si sta estendendo anche alla Cisgiordania. È stata dichiarata ufficialmente la carestia a Gaza. Israele sta ampliando la sua presenza militare a Gaza e sta devastando la  Cisgiordania, mentre devasta la Striscia. Nel frattempo, il 18 settembre segnerà la scadenza del termine di un anno fissato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite affinché Israele soddisfi le sue richieste e quelle della Corte Internazionale di Giustizia, pena l'adozione di «misure aggiuntive». Il tempo per agire è davvero ridotto. Testi consigliati Craig Mokhiber, Le sanzioni contro Francesca Albanese sono illegali e intensificano la complicità degli Stati Uniti nel genocidio , «Diario Red», 14/0772025. Il popolo contro l’abisso: Dichiarazione di Sarajevo del Tribunale di Gaza .  Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, Relazioni della Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese, Anatomia di un  genocidio  (2024) e   Dall’economia dell’occupazione all’economia del  genocidio  (2025) Diverse agenzie delle Nazioni Unite confermano per la prima volta ufficialmente la carestia a  Gaza , «Diario Red» 25/08/2025.  Craig Gerard Mokhiber è un attivista per i diritti umani e avvocato. Attivo come militante negli anni ottanta, ha poi prestato servizio per oltre trent’anni presso le Nazioni Unite che ha lasciato nell’ottobre 2023 scrivendo una lettera ampiamente diffusa in cui ha criticato i fallimenti dell’ONU nella difesa dei diritti umani in Medio Oriente, lanciando l’allarme sul genocidio in corso a Gaza e invocando un nuovo approccio alla questione israelo-palestinese basato sul diritto internazionale, sui diritti umani e sull’uguaglianza.

  • selfie da zemrude

    Oltre il giardino # 5. L’amore che resta. Il cinema, l’assenza e la vertigine del sublime Donata Vanerio C’è stato un tempo in cui l’amore sullo schermo non prometteva appagamento ma svelamento: non compimento, ma frattura. Questo saggio indaga la crisi della rappresentazione amorosa contemporanea – estetica, simbolica, narrativa – confrontando l’eredità tragica e liminare dei classici con film come In the Mood for Love  e The Handmaiden , ultimi rimasti a mostrare l’amore come forza che disordina, sottrae senso e resiste alla normalizzazione. Lì dove il cinema occidentale tende oggi a tradurre il sentimento in funzione terapeutica, quelle pellicole ci ricordano che l’amore vero può essere ciò che non serve a nulla e, proprio per questo, trasforma tutto: un’esperienza estetica e politica che si tiene sulla soglia, fatta di sguardi, silenzi e gesti che rifiutano il compimento. Introduzione C’è stato un tempo in cui l’amore, nel cinema e nella letteratura, non era il luogo del compimento, ma della frattura. Un tempo in cui raccontare l’amore significava affrontare il rischio, l’impossibile, il non concesso. Oggi questa forza pare evaporata, schiacciata tra la retorica del benessere individuale e la funzionalità delle relazioni. In questo saggio si interroga la crisi contemporanea della rappresentazione amorosa – estetica, simbolica, narrativa – attraverso un confronto con opere classiche, film fondativi come In the Mood for Love , e The Handmaiden  forse gli ultimi manifesti cinematografici dell’amore come forma liminale e reprensibile. Un viaggio fra eros, destino, mancanza, ineffabilità, per chiedersi se l’amore che non si realizza, o che sfugge alle regole, può ancora fondare un senso. Il cinema occidentale è ancora in grado di raccontare l’amore? E non l’amore come relazione ben funzionante o catastrofe da superare o ricondurre nell’alveo della comprensione. Non l’amore come traguardo, pacificazione, equilibrio fra individui compatibili, ma l’amore come forza che eccede, che disordina, che sposta i confini tra ciò che è commensurabile e ciò che non lo è. L’amore come esercizio del liminare, che sfugge sia al codice sociale che alla grammatica del benessere fisico-spirituale. Esiste ancora un cinema che sappia metterlo in scena?Un tempo, era proprio l’amore a farsi vettore di crisi simbolica. Pensiamo a Romeo e Giulietta, tragedia fondativa del nostro immaginario: due amanti che non possono esistere dentro le logiche delle famiglie, e che proprio per questo si incarnano come forza pura, assoluta, inevitabile. O ai Promessi Sposi , in cui l’amore tra Renzo e Lucia non è un semplice legame affettivo, ma l’elemento che espone il potere, la violenza, l’interferenza continua tra l’individuo e l’istituzione. E ancora Carmen , l’opera di Bizet che porta in scena una donna che non si lascia possedere, che ama a modo suo, e muore per non piegarsi. In tutti questi casi, l’amore non è mai solo storia privata: è una soglia culturale, uno scarto. È ciò che non può stare al proprio posto.Per tutto il Novecento, il cinema ha continuato a raccogliere questa eredità. Pensiamo a À bout de souffle , di Godard, dove Belmondo sceglie di farsi uccidere piuttosto che fuggire, come se l’amore, per essere vero, dovesse restare irriducibile al compromesso. È una morte estetica, non eroica: una forma di fedeltà all’assoluto. Oppure Jules et Jim , dove la passione si consuma in un triangolo senza centro, dove l’amore non si lascia addomesticare, e Catherine è la figura che scardina ogni equilibrio narrativo, rendendo impossibile qualsiasi normalizzazione. In La signora della porta accanto , Truffaut   va ancora oltre, mostrando un amore che distrugge non perché patologico, ma perché troppo vero per essere contenuto in un ritorno alla vita normale. Due amanti che si consumano fino al suicidio, senza redenzione né morale. Non sono amori tossici: sono amori tragici, e come tali generano senso. Esistono perché non possono durare, e proprio in questo durano per sempre.Anche La scelta di Sophie , con Meryl Streep, ci parla di un amore devastato dal trauma, di un corpo che porta il peso di una decisione irrappresentabile, scegliere tra due figli nel lager nazista. Non è un film d’amore, eppure ogni frammento della narrazione è impregnato di ciò che l’amore non ha potuto salvare, e del senso di colpa di continuare ad amare dopo l’orrore. Come Anna Karenina , come Carmen , come Antigone  stessa, amori che non occorrono perché non possono funzionare, e proprio per questo fondano una verità. E allora: che cosa racconta oggi il cinema occidentale? Quando l’amore non funziona lo trasforma in patologia, in difetto di personalità, in occasione per la crescita individuale o per un’analisi freudiana. Lo chiama fallimento sentimentale, ma in realtà è solo l’incapacità culturale di rappresentare ciò che non si chiude. Ciò che non serve a nulla, ma segna tutto.Pensiamo ad Alda Merini, ridotta a follia da un sistema che non sapeva cosa farsene del suo amore straripante. L’amore come eccesso, come poetica, come interruzione del discorso razionale, non c’è più spazio per questo. Non nel cinema tuojours non nei racconti dove tutto deve servire a qualcosa, alla coppia, alla crescita, alla felicità, alla terapia. Eppure è proprio lì, sul bordo del non funzionale, che l’amore si rivela come forza culturale. Non come sentimento da proteggere, ma come principio di cambiamento. L’amore che non si adatta, che non aggiusta, che resiste all’assoggettamento. L’amore che, anche se non porta da nessuna parte, muove tutto. E poi c’è In the Mood for Love . Forse l’ultimo grande manifesto dell’amore impossibile nel cinema moderno. Un film in cui l’amore non si compie, non si dice, non si tocca. Wong Kar-wai costruisce una partitura di silenzi, ripetizioni, incontri sfiorati, dettagli minimi: un piatto di noodles, il fruscio di un vestito, un passaggio sotto la pioggia. I due protagonisti sono prigionieri di convenzioni che nessuno ha imposto, ma che tutti rispettano, eppure proprio in quell’impossibilità nasce la loro verità: un amore che non si lascia ridurre alla funzione coniugale o all’impulso erotico, ma che resta, nella memoria, come qualcosa che è accaduto proprio perché non è successo.La regia insiste su inquadrature che diventano pitture: corpi che riempiono lo spazio lasciando fuori qualcosa da intuire, come nei costumi di Maggie Cheung, spesso ripresa di spalle, sempre in movimento, attraversata da una grazia rituale che si fa ossessione. La macchina da presa la segue nel ripetersi dei gesti quotidiani – salire le scale, passare davanti alla porta, appoggiare la schiena al muro – ma ciò che dovrebbe sembrare banale diventa vertigine: ogni passo è un gesto sospeso, un’esitazione scolpita nella lentezza. I volti sono spesso immersi nell’ombra o trasfigurati dal fumo, corpi dipinti dalla luce tiepida di un lampione o intrappolati nel riflesso di una finestra. Tutto è attesa, sospensione del tempo. Un amore platonico, fatto di sguardi, di parole non dette, di sottesi e reticenze, di pudore come forma di intensità, così trattenuto da sembrare quasi irreale. Ma proprio in questo suo non avverarsi – nel suo rimandarsi continuo – vibra con la forza del tragico, di ciò che è costretto dal destino a non essere. È un amore che sfida il declino attraverso la stasi, che rinuncia ad agire per non cadere nella delusione, nella volgarità dell’esplicitazione (tu sola sapevi che il moto non è diverso dalla stasi-Eugenio Montale- Xenia I , poesia 14/Satura-1971 ). Così la tensione cresce fino a diventare sublime: ciò che non si tocca, non si dice, non si ottiene, brucia più di ciò che si consuma. È un amore vissuto dentro un ritmo a levare, che non esplode ma si innalza come una marea muta. E tutto ciò che è sublime è spaventoso e potente al contempo, così tanto bello da far paura, così bello da provocare uno smarrimento.Tutto è attesa, ma non come rinuncia, piuttosto come strategia del mirabile. Ciò che è sublime è ciò che ci sta sotto e sopra allo stesso tempo, ci schiaccia e ci eleva, ci commuove e ci paralizza. L’amore di In the Mood for Love  è fatto di sguardi, di sottesi, di parole mai davvero dette, è un amore palpitante nell’apparente inerzia, che rifiuta il tempo lineare, il compimento, la carne. È l’amore come forma irriducibile, così seducente da far paura, così potente da provocare smarrimento. Un amore impossibile, e proprio per questo indimenticabile.E ancora The Handmaiden  di Park Chan-wook, un film che inizia come un congegno noir, un intrigo costruito sulla menzogna, ma che lentamente si disfa nel gesto più inaspettato, l’amore. Ma non un amore da red carpet, né da compromesso. È un amore che nasce nel sotterraneo, tra inganno e oppressione, in un mondo in cui ogni ruolo, coloniale, patriarcale, sociale, è già stato assegnato. Due donne, in un tempo e in uno spazio che non concede alternative, operano un détournement . Non si ribellano frontalmente, non esplodono, deviano il flusso del potere. Interrompono il copione scritto per loro, lo piegano, lo riscrivono.Il riferimento è chiaro, détourner , nel senso più radicale con cui lo intendeva il situazionismo francese, strappare qualcosa al suo uso previsto, sabotarne la funzione dominante, trasformare l’oppressione in campo di gioco. E qui, il gioco non è mai leggero, è carne, è rischio, è corpo che finge per salvarsi e poi ama per liberarsi.Il desiderio in The Handmaiden  non è liberato nel senso occidentale e terapeutico del termine, è sguardo, attesa, tradimento, trasformazione. Il corpo non è erotizzato per il piacere dell’osservatore, ma come strumento di fuga, come spazio di verità. L’amore, qui, non serve a costruire una famiglia né una morale, ma a decostruire il dispositivo narrativo stesso; la truffa diventa alleanza, la servitù complicità, la colpa libertà.È un cinema che non spiega, che non rivendica, che non consola, accende una miccia, e ci lascia lì, tra il magnifico e il crudele, tra l’istinto e la rivelazione.Un amore sulla soglia, anche questo, che si disegna nei vuoti, nelle ripetizioni, nel doppio fondo della finzione, e che forse proprio per questo, proprio perché non doveva esistere, resta impresso come un gesto necessario.Eppure non si tratta solo di rappresentare l’amore: si tratta anche di come lo si rappresenta.In In the Mood for Love , e The Handmaiden , l’amore non è raccontato, è messo in scena come stato sensoriale. Non c’è solo la trama, ma la luce, l’inquadratura, il suono, i gesti. Il cinema torna a essere ciò che dovrebbe essere sempre, un dispositivo estetico completo, un’esperienza incarnata. La colonna sonora, ossessiva e malinconica, lavora come un secondo livello di racconto. La musica non accompagna, stratifica. Non commenta, agisce. Come nei film di Sirk, o come in alcune sequenze di Visconti, l’audio e il visivo diventano due forze distinte che si corteggiano e si contraddicono, proprio come i personaggi.È qui che si riapre la questione dell’estetica decadente occidentale.Perché non è solo l’amore ad essere scomparso dallo schermo, ma anche l’idea che il cinema possa ancora farsi veicolo del sublime. Non c’è più spazio per il non detto, per l’attesa, per la sospensione. Il cinema contemporaneo occidentale, e italiano in particolare, ha scelto la chiarezza, la funzione, l’utilità narrativa. Non tollera più il vuoto. Non accetta più l’arco teso, ogni storia deve portare da qualche parte, ogni scena deve spiegarsi, l’inquadratura è sempre a servizio del plot, mai in contrapposizione, lo spettatore non può più perdersi, deve capire, sentire, identificarsi. Ma il simbolico non si lascia capire subito, turba e smarrisce, e riemerge dall’inconscio con potenza infinita.Un tempo il cinema lavorava sul confine tra luce e ombra, tra visibile e invisibile, tra detto e non detto, adesso, nella maggior parte dei casi, lavora come un tutorial, ti spiega cosa devi provare, quando devi ridere, quando devi piangere, cosa è giusto pensare. Non lascia sospesi, non ti costringe a restare senza appigli, e allora anche l’amore, che è l’esperienza più instabile che esista, viene ridotto a percorso interiore, a incidente relazionale, a carburante drammaturgico.L’estetica del cinema occidentale contemporaneo non prevede più la vertigine.Non regge la potenza del silenzio, né l’ambiguità del gesto.Non sopporta la presenza dell’osceno, di ciò che resta fuori scena, ma che pure condiziona tutto.Il punto non è solo il contenuto, ma la rappresentazione estetica dell’amore.E quando la forma si impoverisce, l’amore smette di essere pericoloso.Diventa utile, gentile, curabile, progettuale, ma non è più in grado di sconvolgere, e quindi nemmeno di fondare un nuovo senso.Non è più in grado di far paura e di smuovere le coscienze.Ma forse, prima ancora dell’estetica, a essere imploso è il modello culturale attraverso cui l’amore viene raccontato. Un modello occidentale, borghese, normalizzante, che ha trasformato il sentimento in funzione sociale o moda marginale, coppia, stabilità, crescita personale, sicurezza emotiva. L’amore deve portare da qualche parte, deve giustificarsi, deve funzionare, e se non funziona, allora è guasto, da riparare, da psicanalizzare, da ridurre a incidente.È questo lo schema dominante, o l’amore è pacificato, calvinista, affidabile, progettuale, oppure è libertario, liquido, performativo, disponibile a ogni esperienza purché temporanea. Due estremi che si co-rispondono e si neutralizzano, ma che in fondo servono allo stesso scopo, mantenere l’amore dentro il campo del controllo.Tutto ciò che eccede viene derubricato a squilibrio, l’amore che brucia troppo viene chiamato tossico, l’amore che non si piega viene detto infantile, l’amore che non guarisce viene trattato come sintomo.Eppure ci sono stati momenti, nella letteratura, nel teatro, nella poesia e nel cinema, in cui l’amore era esattamente questo, una forma di disordine necessario, una rivelazione. L’amor fou  di Breton.Carmen che sfugge e rifugge.Catherine senza centro in Jules et Jim .Frida che dipinge e ama nella consapevolezza del dolore.Ada Merini che scrive in manicomio, e lascia versi che nessuna analisi può contenere.L’amore inquieto non è una devianza, è un eccesso di linguaggio, non risponde a una funzione, non serve, dice.Dice quello che la cultura non sa ancora dire, e proprio per questo fa paura e proprio per questo è arte.Forse allora, più che cercare nuove storie d’amore, servirebbe ritrovare il coraggio di ascoltare l’amore che non si lascia dire.Che non si chiude in una soluzione narrativa, ma resta, come un tremito, sulla soglia del visibile.Forse è lì che dovremmo andare a parare, o forse no, forse basta restarci dentro. Franco Bocca Gelsi è un produttore di film e documentari. Tra i film più famosi prodotti ci sono: «Fame Chimica», «L’Estate d’Inverno», «Fuga dal Call Center», «La Festa», «Blind Maze», e in post-produzione: «Rumore» e «Gli Assenti». Tra i documentari: «L’importanza di essere scomodo: Gualtiero Jacopetti», «Linea rossa», «La via del ring», «L’ultimo pastore», «Treno di parole», «La nuova scuola genovese». Ha insegnato in diverse scuole di cinema tra le quali: Civica scuola Luchino Visconti di Milano, Centro Sperimentale Lombardo, N.AB.A., IULM, Accademia 09. È ideatore e membro del comitato scientifico dell’Alta Scuola per la Serialità Ecipa/CNA. Si occupa di Alta formazione per professionisti del mondo dell’audiovisivo. È stato tra i primi italiani soci dell’European Producer Club, membro dell’European Film Academy e fondatore di CNA Cinema e Audiovisivo, di cui è Presidente della sessione Milano Lombardia.

  • clan milieu

    Leoncavallo per cinquant'anni ancora e ancora In vista del 50° anniversario del Leoncavallo (ottobre 2025), si propone non una celebrazione nostalgica, ma un anno di eventi coinvolgenti e sconvolgenti, rivolti al futuro. L'obiettivo è immaginare nuove forme di lotta e rivoluzione, superando la stanchezza del presente con creatività collettiva e internazionale. Nessuna egemonia o ricetta unica: solo una sensibilità diffusa capace di incidere sul mondo. L’invito è aperto a tutti per contribuire con idee, pratiche e progetti, anche attraverso la scrittura del pamphlet <>. Il 50° compleanno del Leoncavallo cade il 18 Ottobre 2025, ma non vi è alcuna intenzione di convocare una giornata di medagliette, ricordi e lacrimucce per stuzzicare la peste reducista e identitaria. Si pensi invece a un anno pieno di eventi e di incontri aventi due qualità fondamentali: siano coinvolgenti e sconvolgenti. Un anno pieno può essere più lungo o più breve di un anno solare. È un anno tangente all'infinito . L'orologio del tempo è rotto. Quanto dura il tempo? In questo tempo sorgono due domande: Cosa è successo negli ultimi cinquanta anni? Cosa succederà nei prossimi 50? Alle domande la risposta è certa: Il mondo è cambiato . Siccome il mondo è cambiato non c'è che una cosa da fare. Cambiare il mondo . Per cambiarlo ancora, e ancora più di quanto sia cambiato dal 1975, sarebbe stupido guardarsi alle spalle, crogiolarsi negli allori del passato. La rivoluzione ha occhi e spalle sempre rivolte al futuro . Specchiarsi nelle lotte di un passato glorioso sarebbe patetico. Il pathos ha orrore del patetico . Meglio specchiarsi nelle lotte del futuro, di quel futuro che è qui, da costruire sempre, e sempre da creare. Trasformare il mondo. Rimane la viva ragion di vita. Per trasformarlo, è necessario voltare le pagine del mondo. Voltiamo le pagine del mondo . Per voltare le pagine del mondo non bastano le macerie e gli altari del passato. Il passato è sfinito nel presente.  La politica è sfinita. La letteratura è sfinita. L'arte è sfinita. Il mondo è sfinito. Ma se il presente è sfinito. Il futuro è infinito .   Quando tutto sfinisce rimane solo una mossa nella scacchiera della vita. Finirla con la fine del mondo. Il faut en finir avec la fin du monde * Per scollinare oltre la sfinitudine del mondo non serve alcun lamento. Il lamento è stata la piattaforma più depressiva dell'epoca ultima ventura. Occorre invece un conato creativo superiore a quelli del '68 e del '77. Oltre la sfinitudine del mondo non c'è la fine del mondo. C'è l'aurora che attende le parole giuste, i versi appropriati, le posture adeguate, i corpi collettivi in movimento. Occorre inventare le parole e le forme delle rivoluzioni prossime future. Di quel futuro che c'è e di quello che si saprà partorire. Quand la nuit tombe le soleil nous incombe . Nelle lotte del passato non siamo state mai sole. Autogestione, autoproduzione, rifiuto del lavoro salariato, impresa politica, femminismo, indipendenza culturale, ecologismo radicale, autonomia operaia, autonomia diffusa, contropotere, controinformazione, reddito universale, coessenzialità di vita ed arte. Sono pratiche d'esistenza e idee condivise da migliaia di collettivi e di singolarità diffuse nel mondo intero. Il patrimonio del passato non riguarda solo il Leoncavallo. Riguarda tutte le esperienze eretiche consumate in quella galassia confusa e sublime compresa tra i partiti esausti della sinistra e i black bloc. Ogni eresia politica ha urlato forte. Viva le eresie, abbasso le chiese. Che schifo le sette . Autonome, parlamentari ed extraparlamentari, autogestionarie, centrosocialiste, anarchiche e comuniste, socialdemocratiche e insurrezionaliste, antifasciste e anticapitaliste, antagoniste e comunitariste, artiste di strada e di palcoscenici mainstream o alternativi, ecologiste radicali e femministe, avanguardie artistiche e letterarie, tutto, ciascuna a modo proprio, ha contribuito a produrre nuove sensibilità. Quel tutto ha litigato in modo costante e diffuso.   Nel litigio tuttavia ha costruito esperienze che hanno arricchito tutte. Il litigio è parte della lotta, l'errore è parte della creazione. Non temiamo di sbagliare. Temiamo di stagnare. Non odiamo l'errore. Odiamo l'orrore. Il tutto è stato un grande mare.   Nel grande mare c'è acqua per tutte, nello stagno prediligono vivere solo i vermi. Così come nessuna può avere la pretesa di rivendicare a nome di tutte una storia collettiva o di attribuirsi un primato, in egual modo nessuna può ritenere che ripensare il futuro possa essere opera di una singola realtà o di poche teste raffinate. Il primato interessa solo ai primati, a quelle scimmie politiche che non hanno ancora compiuto il salto di specie verso l'universo pianetico . Per ripensare il futuro occorre riaprire le pagine del mondo. In quelle pagine, ciascuna - singolarità o collettivo, movimento o organizzazione - può incidere parole, musiche, esperienze che arricchiscano il libro del mondo. Può ancora esistere un futuro collettivo? L'umano come specie quali forme assumerà nel prossimo futuro? Le forme della produzione come informeranno la vita? L'organizzazione sociale delle classi e dell'umanosfera a quali forme di potere si adeguerà? Potrà ancora esistere una coscienza collettiva? Diverrà anch'essa una funzione esterna? La volontà sarà annichilita dalla macchina? Quali saranno i nuovi fuochi della lotta? È preferibile il potere dell'autonomia o l'autonomia dal potere? Differenzialismo ed egualitarismo possono marciare assieme? Che rapporto c'è tra nazionalismo e internazionalismo? Come sganciare il reddito dal lavoro?   A queste domande nessuna può rispondere da sola. Ma ciascuna dovrà e potrà rispondere senza pretendere una risposta sintetica. La vita non è mai questione di sintesi . Anche quando diverrà un prodotto di sintesi non sarà mai questione di sintesi. La riduzione del mondo a un'unica idea produce allergie. Il mondo è la nostra ideologia . È finita per sempre la possibilità che tutti la pensino allo stesso modo. Anziché affannarsi alla impossibile ricerca di un pensiero comune è preferibile optare per una sensibilità diffusa in grado di esercitare più efficacemente la sua presa sulle cose del mondo. Ciò che ci lega non è un'organizzazione, un partito, uno Stato o una religione politica. Ciò che ci lega è la sensibilità pianetica diffusa che agisce nel mondo senza incarcerarlo in sistemi definiti e coatti. L'egemonia è merce scaduta .   Neanche nei supermercati dell'idiozia è facile comprarla. Non esiste una  formula della creazione né esiste una formula della rivoluzione. La rivoluzione è allergica alle epigonie . La rivoluzione è per sua natura rivoluzionaria. Dunque, incontri ed eventi coinvolgenti e sconvolgenti. Da organizzare al Leoncavallo, da organizzare ovunque. Da organizzare con o senza il Leoncavallo. Il Centro sociale è uno spazio troppo piccolo, l'Italietta è spazio angusto. Ciascuna di noi è limitata ma l'insieme dei nostri limiti ha forza immensa. Piccoli o grandi che siano, prodotti in cooperazione o in autonomia, ciò che importa è che gli incontri e gli eventi che si organizzeranno abbiano carattere universale e internazionale, siano condivisi e condivisibili. Rivolgiamo questo appello a tutte le realtà italiane e internazionali che conosciamo o che desideriamo conoscere, che ci conoscono o che desiderano conoscerci.   Avanti con tutte le avanguardie, con tanta musica, tanti incontri e tanta festa continua. Se l'arte è viva, evviva l'arte. Se l'arte è morta viva la morte .   Avanti con le rassegne di cinema e le rassegne d'arte. Che ogni rassegna ammazzi la rassegnazione . Per facilitare la discussione nelle giornate dedicate agli incontri, al Leoncavallo o altrove, è in corso di scrittura un pamphlet di cui si anticipa il titolo, Rivoluzione coscienza di specie . Chiunque lo volesse può cooperare a questi progetti o concepirne altri e presentarli nel corso dell'anno al Leoncavallo o in qualunque altro luogo del pianeta. Vite vite vite     Aller aller aller Il faut changer le monde le monde le monde entier Quand la nuit tombe le soleil nous incombe *Le scritte in francese sono frammenti di un reportage inedito sulle giornate di Place de la République, Paris, Giugno-Luglio 2024

  • selfie da zemrude

    Terzo cinema # 1: In ricordo di Fadhel Jaziri Con questo testo Roberto Silvestri inaugura la rubrica «terzo cinema» a sua cura per il comparto «selfie di zemrude». Negli anni Ottanta il cinema africano è esploso, dopo due decenni di indipendenza di quasi tutto il continente, segnata però da non poche complicazioni neocoloniali. In particolare il Maghreb, l’occidente arabo, inventò una via originale, né realistica, né fiabesca, all’introspezione della condizione umana. Due di quei capolavori furono firmati da un poeta dell’immagine che ci ha lasciato pochi giorni fa senza che l’Italia del «piano Mattei» se ne accorgesse. Il primo è un kammerspiel «punk», Le nozze  (in arabo  Al Ôrs ), tragicomico dramma di una coppia piccolo-borghese disintegrata e sconfitta, come un Sid e Nancy dell’altra riva. L’altro è il kolossal minimalista  Arab , sulla complicità delle borghesie e delle teologie sciite e sunnite nella tragedia palestinese, girato a colori brillanti e saturi negli spazi giganteschi di una basilica colonial-cristiana, la cattedrale sconsacrata di San Luigi, eretta nel 1881 dal protettorato francese sulla sommità della collina di Byrsa dedicata a Luigi IX, morto nel 1270 a Tunisi durante la crociata da lui guidata. Nello stesso spazio era stato replicato per 70 volte lo spettacolo teatrale Arab , poi trascritto in sceneggiatura cinematografica. Oggi questo dittico, considerato un classico del terzo cinema , è stato realizzato, nel 1978 il primo e nel 1988 il secondo, da un collettivo di attori, cineasti, maestranze tecnico-operaie e drammaturghi tunisini che mettevano in discussione i modi di produzione gerarchici sia del cinema industriale che d’autore. Nel 2025 Cinema Ritrovato di Bologna ha scoperto i furori fassbinderiani e il bianco e nero di Le nozze , un po’ in ritardo, forse per l’imbarazzo che l’Occidente prova quando il vicinissimo Oriente affronta e abbatte tabù o passatismi culturali con non minore slancio illuminista. Arab invece è ancora tenacemente clandestino, nonostante un’unica proiezione italiana al festival di Rimini del 1989, forse perché imbarazza chi sa ritessere fili interrotti con il precoce, ma da noi rimosso, rinascimento arabo (l’Andalusia, gli scritti del «femminista» trecentesco Ibn Khaldoun) e ereditare dai collettivi francesi del Maggio l’orrore per i privilegi di casta e per la routine professionale. Quel dittico rompeva con la retorica narrativa del melodramma «arabesque» egiziano, egemone nel mondo arabo ma ormai manierato. Ne ridicolizzava la «radiofonicità» (attraverso una scrittura filmica complessa), il maschilismo e l’iconoclastia (con personaggi psicologicamente a tutto tondo, non solo più macchiette: il buono, il cattivo, il buffo...) ma soprattutto i modi di produzione gerarchici, non collettivi e mai improvvisativi.Contribuì alla realizzazione di quel dittico il regista, drammaturgo e attore Fadhel Jaziri, leggenda del teatro e del cinema tunisino, che ci ha lasciato l’11 agosto scorso, a 77 anni. È mancato per insufficienza respiratoria pochi giorni dopo un intervento chirurgico al cuore.Artista impegnato, intellettuale visionario e cosmopolita, Jaziri ha affrontato, attraverso opere teatrali, film, documentari e spettacoli musicali, i principali problemi del Maghreb, i tabù culturali e la violenza delle oligarchie arabe con lo stesso coraggio, forza e precisione dedicata a quella parte feconda della memoria e della storia araba e pre-araba da non rimuovere. Un rivoluzionario della forma. Estranea alla tradizione occidentale drammaturgica ma anche al canone musicare egiziano dell’arabesque, con i suoi ricchi abbellimenti obbligatori ma sempre più esangui, è anche la sua ultima opera,  Jranti el aziza (Sul violino), presentata nell’ambito del 59° Festival Internazionale di Hammamet poche ore prima della morte. È una musical dark intriso di ironia, nostalgia e straniamento brechtiano, un viaggio profondo nella storia tunisina moderna attraverso l’odissea di un violinista: la canzone araba, voce del popolo, è qui specchio vitale delle trasformazioni sociali e politiche del paese e un rifugio creativo di fronte all’incarognirsi del tempo. Già. Jaziri è rimasto sulla scena fino all’ultimo secondo. A bout de souffle : Il mio lavoro – ha dichiarato – è l’ossigeno che respiro».I cinque decenni di impegno civile e di innovazione artistica costante del suo lavoro sull’immagine visiva e sonora in una cultura preferibilmente aniconica (o che congela le immagini negli stereotipi immodificabili che i Marvel Movies hanno saccheggiato) sono stati ricordati perfino nell’elogio funebre ufficiale dal ministero degli affari culturali tunisino, per quanto freddi e conflittuali siano stati sempre i suoi rapporti di Jaziri con le istituzioni politiche e censorie di Tunisi, da Bourghiba a Ben Ali a oggi. È impressionante, a conferma del suo status di «eretico», la mancanza di ritratti o fotografie sui social che documentino i suoi primi lavori. Difficile trovare in rete immagini di Fadhel giovane sovversivo in lotta nei campus, anche se si elogia oggi la sua opera «ricca e variegata che ha profondamente influenzato la cultura tunisina». Perfino dei suoi due capolavori firmati con Fadhel Jaibi, Le nozze  e Arab , poche sono le sequenze, le istantanee o le foto di scena rimaste.Ma chi è Fadhel Jaziri e perché pochi in Italia lo hanno ricordato, anche se si potrebbero definire Luca Ronconi o Mario Martone i «Fadhel Jaziri italiani». E se fu proprio Roberto Rossellini a scoprirlo come attore, nel suo  Messia  del 1975. E Nathaniel (Natanaele) uno degli apostoli (così lo chiama Giovanni, per gli altri evangelisti è Bartolomeo di Cana). Siamo così vicini alla Tunisia, basta pensare che le radici di Francis Ford Coppola, da parte di madre, di Claudia Cardinale, nata nel quartiere di «Piccola Sicilia», e dell’ex sindaco Pci di Napoli Maurizio Valenzi sono lì. E che all’inizio del secolo scorso gli immigrati italiani superavano la popolazione coloniale francese. Eppure la Tunisia è così lontana, e si allontana sempre di più. Molto alto, bruno, grandi baffi e folta barba, occhi scuri penetranti, una tipica bellezza mediterranea, elegante, con l’immancabile sciarpa bianca sui completi occidentali o nelle tipiche vesti tunisine con chechia, Fadhel Jaziri poteva scatenare erotismo crudele, alla Jack Palance, o erotismo eroico, alla Omar Sharif. Come attore Jaziri è anche nel cast di Sijnane  di Abdellatif Ben Ammar (1975) su un episodio chiave della lotta nazionale per l’indipendenza, lo sciopero dei minatori del 1952. Si è dedicato alla regia cinematografica per la prima volta nel 1976, assieme a Fadhel Jaibi, in Al Ôrs  (Le nozze), per poi adattare Ghassalet Ennawader  per la televisione. Nel 1981 ha co-sceneggiato e interpretato il lungometraggio Traversée  di Mahmoud Ben Mahmoud. Nel 1984 ha co-fondato la società Nouveau Film con Jalila Baccar e Fadhel Jaibi, che ha tratto dopo il 18 mesi di lavorazione teatrale, il film Arab , opera inaugurale delle le Giornate del Cinema di Cartagine (JCC) del 1988, dove ha vinto il Tanit di bronzo per poi essere selezionato alla Semaine Internationale de la Critique/Caméra d’Or di Cannes 1989. Ha diretto poi Thalathoun  (cioè Trenta, nel 2007), il suo primo lungometraggio da regista unico, sui patrioti tunisini di un secolo fa: il politico riformista Tahar Haddad, il sindacalista Mohamed Ali El Hammi e il poeta Abu Al Kacem Chebbi. Ha poi girato Khoussouf  (Eclisse, 2016), thriller anti-jihadista premiato per la sceneggiatura al festival di Alessandria d’Egitto e El Guirra , sulla sindrome autoritaria che avvelena molti progetti rivoluzionari, selezionato per il JCC 2019.Se gli altri grandi mattatori del teatro tunisino moderno, Tawfik Jebali e i defunti Moncef Souissi e Ali Ben Ayed, hanno avuto rapporti stretti con l’Italia, la commedia dell’arte e il teatro di ricerca europeo, Fadhel Jaziri, studioso e ammiratore di chi ha capovolto i dogmi scenici occidentali (da Peter Brook a Jerzy Grotowski, da Julian Beck e Eugenio Barba e al quasi coetaneo Robert Wilson), molto amico di Enzo Ungari e Serge Daney (con il quale condivideva non solo la passione per l’immaginario sovversivo ma anche per il tennis di Federer in Tv), si è battuto per creare ponti culturali e artistici panafricani e afro-asiatici (nel 2006 ha diretto a Tunisi uno stage di teatro No assieme al maestro Naohiko Umewaka con giovani attori tunisini) ha incrociato e amato la nostra cultura con maggiore passione, e molto prima del «piano Mattei». Non troppo ricambiato, come vedremo.Nell’agosto del 1982, alla 39esima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, l’ultima diretta da Carlo Lizzani, fu proiettato, nella sezione Mezzogiorno-Mezzanotte, curata da Enzo Ungari, un film maghrebino di profetica bellezza, gioiello ambiguo e scandaloso del «nuovo cinema arabo». Si tratta di Traversées , ovvero La traversata, scritto e diretto dal tunisino Mahmoud BenMahmoud con la collaborazione ai dialoghi proprio di Fadhel Jaziri, che ne è anche l’interprete principale. Se il filmmaker irlandese Mark Cousins lo vedesse ne gradirebbe certamente l’improvviso e innovativo salto di tono formale: da una prima parte «hitchcockiana», lineare e a suspense, si entra in una seconda parte misteriosamente mistica, poetica, ellittica, «orientale». Questo match culturale è raddoppiato dalla colonna sonora ibrida e ironica, tra le canzoni nordamericane da juke-box e un salmodiante recitativo funebre algerino, affilata sperimentazione di una «terza via» del cinema arabo, né di genere né d’autore, piuttosto simile al tragitto teatral-cinematografico di Ghatak, Fassbinder e Straub, votato alla produzione di immagini dense, libertarie e «crudeli», e non di parole d’ordine travestite da immagini, esemplare prosecuzione di Traversées , opera complessa strutturalmente che ci libera di tutti i cliché collegati al cinema dell’immigrazione miserabilista, piagnucoloso, sentimentale o guerrafondaio che vedremo nei decenni successivi. La storia (in parte autobiografica) di La traversata  inizia nella notte del 31 dicembre 1980, sul traghetto della Manica tra Ostenda e Dover, quando Bogdan, focoso operaio jugoslavo (l’attore Julian Negulescu), e Youssef, raffinato intellettuale tunisino (Fadhel Jaziri appunto), vengonorespinti alla frontiera britannica e anche a quella belga a causa di cavilli burocratici e per l’imbarbarimento progressivo delle leggi europee sulla circolazione «aliena».Intrappolati sul ferry-boat i due passeggeri cercano di scappare dalla loro kafkiana situazione ma, detestandosi, utilizzano metodi opposti. Bogdan, contagiato dalla violenza dominante e dalla tattica identitaria del «dente per dente», sceglie la reazione dura e finirà per decapitare un poliziotto inglese. Siamo alle scaturigini sia dell’imminente gioco al massacro sciovinista inter-jugoslavo che dell’immaginario stragista, dei sequestri aerei, per esempio, utilizzati – dopo il tonfo nasseriano e il tradimento marocchino nella guerra dei 6 giorni – dalle ali sedicenti estremiste e perfino «maoiste» dei movimenti di liberazione palestinese, più per vendetta maschilista e collezionismo martiriologico, che per liberarla davvero la Palestina. Gli islamisti proseguiranno su quella stessa via suicida, eccitati dal trionfo sanguinario di Khomeini.Mahmoud Ben Mahmoud e Fadhel Jaziri, poeti delle «migrazioni interiori», esplicitano nelle loro opere una strategia di attacco al clima politicamente e religiosamente «bloccato», ritessendo contro l’insorgenza dei petrodollari wahabiti, i fili dell’illuminismo arabo andaluso, cortese e rinascimentale, di Ibn Khaldoun, il sociologo, l’economista, lo storiografo e l’intellettuale tunisino a tutto tondo del XIV secolo, inattualmente libertario.L’individualista «postmoderno» Youssef utilizza infatti l’arma della seduzione e del mascheramento «tattico» e riesce davvero a liberarsi, con l’aiuto di una bella passeggera straniera. La politica delle alleanze, del carnevalesco trasformarsi, della guerra diplomatica. Anche perché, ipotizzando a un certo punto una più semplice richiesta di auto, lo scrivere una bella lettera di protesta all’ambasciata, Yussef si chiede però perplesso: «Ma a quale ambasciatore, a quale dei 24 o 25 ambasciatori arabi, scrivere, buon dio?».Yussef, al culmine di un litigio con Bogdan afferma: «Quello che tu vuoi non è un paese, è un’idea, un’identità, una causa, dei territori senza fine, sempre più terra! Ma nonci sono paesi, non c’è terra promessa, né da conquistare né da reintegrare, non ci sono che masse galleggianti irrigate di sangue, come questo maledetto battello. Bogdan, non siamo affatto nello stesso mondo». Mahmoud Ben Mahmoud spiegherà così il film a noi, «alieni» dell’altra sponda, quando il film vincerà il primo premio alle Giornate del cinema africano di Perugia, invitato dall’allora direttore artistico Mohamed Challouf, studente tunisino dell’Università per stranieri: «Come arabo sono umiliato quotidianamente. Sono occupato prima di tutto in Palestina;poi dall’America e dalle potenze coloniali e neocoloniali; sono in una guerra senza pietà con lo straniero, con me stesso, col mio sottosviluppo; col mio ritardo, i miei blocchi, la mia mentalità, e anche col blocco sovietico che ci ha preso in giro da tanto tempo. Ho fatto questo filmcontro la volontà di potenza. Il film termina con una donna nella nebbia. È uno spazio artistico, dionisiaco, strettamente privato. Avevo bisogno di riabilitare questa dimensione privata che, di fatto, sottintende tutta la nostra religione: la vista stessa del Profeta, le sue relazioni con le donne. Il Profeta è più umano nella sua vita privata di quanto non lo sia diventato nel suo testo e nel suo messaggio. Mai avrebbe potuto rendersi complice di quello che i musulmani hanno fatto alle donne». Ma Traversées, proiettato nella Sala Grande del Lido di Venezia a mezzogiorno, fu visto soltanto da tre spettatori, Ungari, Ben Mahmoud e Jaziri. Il giorno dopo, nella sala stampa affollata per l’incontro successivo con Ridley Scott e il cast di Blade Runner , noi giornalisti osammo perfino fare domande di routine ai cineasti tunisini. Che risposero per le rime, andandosene. Dunque.Questa volta non possiamo criticare la censura di mercato né i media, bensì noi stessi, i critici «militanti», i cari maestri, Serge Daney, Enzo Ungari, Enrico Ghezzi... Che la notizia della scomparsa di questo grande poeta delle immagini come Fadel Jaziri sia uscita in Italia solo su FilmTv  (ma è stata ignorata un po’ in tutta Europa) è un fallimento nostro, della nostra generazione, di quello «spirito del '68» che cercò di cambiare il destino politico e culturale del globo intero, anche del vicino Maghreb, del Marocco, dell’Egitto, dell’Algeria e della Tunisia, e del Mashreq (Libano, Siria, Iraq, Palestina...) perché tutto è interconnesso.Nell’occidente arabo (ma anche berbero, fenicio, cristiano, ateo...), in particolare, il movimento «per la democrazie e la libertà non formale» per una democrazia dal volto socialista e libertario (non liberale) e per lo sganciamento dai blocchi Usa/Urss, fu particolarmente possente e ancor più sadicamente represso che a Parigi, come racconta Michel Foucault, allora insegnante a Tunisi e il volto e gli occhi rimodellato del cineasta Nouri Bouzid, dopo quattro anni di carcere duro e di torture. Autocrazie, teocrazie e autocrazie travestite da socialismo nazionale non tollerano le immagini disordinate, la «soggettività desiderante» (come chiamava Naghisa Oshimail motore della controcultura) e dunque sindacati autonomi, femminismo, stato di diritto, tutela delle minoranze etniche e sessuali, rispetto delle regole e degli accordi internazionali. Tutto ciò che oggi è sotto tiro o già proibito anche dopo le fantastiche primavere arabe dalle potenze economiche di cui i monopartiti militarizzati sono sudditi fedeli (salvo saltare, se indeboliti, come è successo a Sadat, Mubarak, Bourghiba, Ben Ali, Ben Bella...), perché generano inconsci ribelli, turbamento antropologico inquietante e perenne conflitto sociale. Molto meglio non separare lo Stato dalla Chiesa, come sta facendo spudoratamente anche Israele, molto meglio giocarsi a orologeria la carta del fondamentalismo nazionalista squadrista: Ennada, Hamas, Fratelli musulmani, Al-Qaida, Boko Haram, e Hezbollah hanno il meraviglioso pregio di essere profumatamente pagati dai simoniaci petrodittatori sauditi o iraniani per mettere al rogo poesia e satira, cinematografi e biblioteche, danzatori e musicisti, sport e l’immaginario non conforme. Ebbene Fadhel Jaziri, drammaturgo e cineasta, attore e insegnante li ha combattuti tutta la vita. Nato nel 1948 nella Medina di Tunisi, figlio di un imprenditore della borghesia colta, proprietario dell’hotel Zitouna, del caffè Ramsis e di una libreria a Bab Souika, punto di riferimento per intellettuali e artisti dissidenti, come uno dei suoi maestri, il pittore Zoubeir Turki (1924-2009). Ha studiato al liceo Sadiki, e teatro, prima in Tunisia poi a Londra e Parigi perché fu espulso come indesiderabile sessantottino facinoroso dall’Università di Lettere e Filosofia. Rientrato in patria crea il primo Festival della Medina nel 1971 all’interno dell’Associazione per la Preservazione della Medina di Tunisi. Nel 1972, insieme a un gruppo di giovani artisti, fonda Le Théâtre du Sud de Gafsa, contribuendo così al decentramento culturale nelle aree più depresse della giovane e indipendente Tunisia. Dal 1972 al 1974, con le commedie J’Ha, L’Orient en désarroi, La geste di Mohamed-Ali El-Hammi  e La geste hilalienne , il Teatro Gafsa suscitò entusiasmo popolare nonostante il carattere provocatorio delle sperimentazioni e l’allontanamento dal repertorio «alla francese», allora dominante. Soprattutto se pensiamo a El-Karrita , prodotto da Masrah Ennas (Fadhel Jaziri, Fadhel Jaibi e il più cinefilo Habib Masrouki) nel 1975, replicato in Tunisia e all’estero per diversi anni. Nel 1976, Fadhel Jaziri ha fondato il Nouveau Theatre de Tunis, compagnia privata, con Mohamed Driss, Fadhel Jaibi, Tawfik Jebali, Raja Farhat, Mohamed Idris e Habib Masrouki, diplomato all’Idhec di Parigi in regia e direzione della fotografia, autore di cortomemetraggi, del primo disegno animato a colori del cinema tunisino,  Notre monde , del 1967 e del bianco e nero abbagliante di Le Nozze, tratto dall’opera teatrale che, assieme a El Wartha (L’Eredità) del 1976, Attahqiq  (L’Istruzione) del 1977 e Ghassalet Ennawader  (Tempesta Autunnale), scritto da Masrouki nel 1980 (l’anno nel quale a 30 anni Habib Masrouki si è suicidato a trent’anni) sono diventate pietre miliari del teatro arabo moderno. Fadhel Jaziri fu coautore delle produzioni e, come attore, interpretò i ruoli principali nella maggior parte delle opere al fianco di Jalila Baccar, Mohamed Driss, Taoufik Jebali e Raja Ben Ammar. Il testo, la messa in scena, la scenografia, le luci, la recitazione, erano oggetto di una creazione e anche improvvisazione collettiva, in cui ognuno contribuiva con il proprio talento. Ogni pezzo è nato e si è costruito nel corso di sessioni creative, attorno ai contributi e ai talenti di ciascuno. Più specificamente, la messa in scena per Fadhel Jaibi, il testo per Mohamed Driss, la scenografia e i costumi per Fadhel Jaziri, la fotografia, le luci e la visione estetica generale per Habib Masrouki. Per Arab tutto è partito da una doppia «visione», un sogno di Jalila Baccar (una donna incinta esposta a un grande, imprevisto calore) e una visione di Jaziri che durante il mese di Ramadan, abitatuato a lunghe camminato, era salito sulla collina di Byrsa dominata dalla gigantesca chiesa sconsacrata di San Luigi. Quando il film è stato proiettati a Rimicinema il regista ha raccontato come è nato il progetto: «Ho trovato questa basilica chiusa e mi sono seduto sul marmo dei gradini guardando il paesaggio. C’era un po’ di nebbia e la luce era come velata, il paesaggio era quasi scomparso, era terra di nessuno. Ci siamo detti, tra quel sogno e questa visione ci deve essere materiale per scrivere uno spettacolo. A poco a poco abbiamo allargato l’idea incontrando altre persone da aggregare nell’avventura. Abbiamo scritto e scritto ma non è stato così veloce come speravamo, anzi il tutto è diventato una specie di incubo anche se ogni scelta è stata presa in comune, c’è uno scambio e un negoziato continuo su tutto, dalla produzione alle scene, alla recitazione e, quando siamo passati alla versione cinematografica, alle inquadrature, ai movimenti, alle luci, ai costumi. Ma prima abbiamo passato un anno e mezzo dentro la basilica a lavorare sullo spettacolo teatrale. La storia resta la stessa e nel film, dello spettacolo teatrale, è rimasta un’emozione... una hostess dell’aria, un angelo che viene dal cielo e atterra in un luogo dove si trova una famiglia assediata e che si sta preparando a morire, perché sa che da quell’assedio nessuno uscirà vivo. Allora è la storia di una morte, una premonizione come solo la poesia e l’arte sanno essere. Il mondo arabo soffre di una mancanza di comunicazione verso l’esterno e anche al suo interno. Troppo spesso trattati e convenzioni sono state lettera morta, dentro e fuori il mondo arabo. Alla fine delle repliche avevamo due possibilità: o partire in turnèe per il mondo arabo o fare un film che avrebbe reso lo spettacolo duraturo e per sempre riproducibile. Volevamo un film che fosse meno aggressivo e duro della piece  teatrale, invece è diventato ancora più disperato».    È importante ricordare che i testi delle opere del Nuovo Teatro sono originali: Le Nozze  è di Mohamed Driss, L’Eredità  di Tawfik Jebali e Mohamed Driss. Gli attori, attraverso le loro improvvisazioni, hanno contribuito ad arricchire la creazione. Jalila Baccar, Raouf Ben Amor, Raja Ben Ammar hanno preso parte a questa dinamica che ha davvero rivoluzionato il teatro tunisino tra il 1975 e il 1980. Molti uomini e donne di teatro e di cinema tunisini, che oggi eccellono a livello nazionale e internazionale, sono stati loro discepoli.Pur orientandosi gradualmente verso il cinema e gli spettacoli musicali, Fadhel Jaziri continuò a produrre opere teatrali:  Lem  nel 1983 e Arab  nel 1987 (già pensato anche per la versione cinematografica). Tra le due, il progetto cinematografico fallito Kahla Hamra (Rosso sterile)   dopo due anni di lavoro. Seguono le repliche di Attahqiq, Saba  (1997) – fermato dalla censura e Saheb el himar  (2011) dedicato allo scrittore e drammaturgo tunisino Ezzedine El Madani, e presentato alle Giornate Teatrali di Cartagine (2012). Con El Awada  (La Prova), che inaugurò il festival internazionale di Hammamet nel 1989 e vinse il Premio per la regia alle Giornate Teatrali di Cartagine nel 1990, Fadhel Jaziri inaugurò una nuova era: quella delle performance coreografico-musicali, senza mai abbandonare teatro e cinema. Nel 1991, come produttore e regista di Al-Nouba (La Nubia), rinvigorisce un’intera tradizione musicale popolare emarginata dai canali ufficiali anche perché contaminata dalle armonie e coreografie mistiche sufi. Presentato in apertura del Festival Internazionale di Cartagine, questo spettacolo fu allestito allo Zénith di Parigi nel 1992, trasmesso lo stesso anno su Antenne 2 e poi ritrasmesso su TV5 Monde. Medesima esperienza in Al-Hadra 1 e 2  (La Presenza) del 1992 e 201, che, dopo la prima al palazzo dello sport El Menzah, per inaugurare il festival di Medina, fu invitato in Francia nel 1995 al Théâtre Gérard-Philipe di Saint-Denis e al festival Méditerranée di Marsiglia, poi al festival di Rabat nel 1999. La colonna sonora fu pubblicata su CD (Philips/Universal) nel 2000, e il documentario di 90 minuti sullo spettacolo uscì nel 2001.Contemporaneamente, le sue creazioni si moltiplicarono: Nujum  (1994), un affresco musicale sul rinnovamento del repertorio arabo del XX secolo, Zghonda et Azzouz  (1995), ispirato al cafè chantant tunisino degli anni '60, Bani Bani (1995) che chiuse la stagione tunisina in Francia e aprì il Festival di Hammamet, Mezoued  (2003), Zaza (2005), Arboun  (2018), Hob Zamen el harb  e Caligola  (2018). Fervente difensore delle espressioni culturali in tutta la loro diversità, il 10 novembre 2022 ha inaugurato il Djerba Arts Center, contributo alla decentralizzazione dell’offerta e della produzione artistica e culturale, evoluzione del Teatro Nuovo.  Roberto Silvestri (1950)   è giornalista  e critico cinematografico . Alla fine degli anni Settanta inizia a scrivere per «il manifesto». Contemporaneamente è tra i fondatori del cineclub Il Politecnico e tra i responsabili della rassegna estiva Massenzio sostenuta da Renato Nicolini esprimendo una sua visione molto personale del rapporto cinema-mondo. È stato responsabile di numerosi festival cinematografici. Nel 2013 ha pubblicato per Einaudi il libro scritto, con Mariuccia Ciotta, Il CiottaSilvestri, Cinema – film e generi che hanno fatto la storia . Ha inoltre insegnato critica cinematografica al Dams del Salento di Lecce.

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    Verso il 10 settembre o il potere dell’indeterminato Nel testo che segue, pubblicato su «lundimatin», il 2 settembre 2025, Serge Quadruppani offre importanti spunti di riflessione sul «rendez-vous» del 10 settembre. Alla vigilia del 10 settembre – tra entusiasmo qui, scetticismo là e un crescente senso di paura da oltreoceano – la consapevolezza di un imminente faccia a faccia cresce. Che forma assumerà? Per darsene un'idea, facciamo il punto sugli strumenti a disposizione dei due fronti opposti. Da un lato, ci sarà l'imponente arsenale fin troppo noto, dalle flashballs (con all’attivo 24 occhi cavati ai Gilets jaunes) ai veicoli blindati della Gendarmerie alle bordate appositamente progettate per far cadere in coma un movimento sociale e i suoi sostenitori; c'è, e ci sarà, l'apparato propagandistico della stampa oligarchica, e tutto il corpo politico pronto a seguire gli ordini di Bardella per fermarlo, e Bardella stesso, che griderà e sta già gridando «stop al degrado» (a cui si riduce tutto il suo programma). Poi ci sono e ci saranno le letture di ingegneria sociale e le strategie di legittimazione; di selezione tra buone e cattive pratiche, che saranno agite dai partigiani del soft control di cui «Le Monde» è e resterà l'organo principale. Socialisti e sodali, dal canto loro, faranno da esecutori: ciò che ci minaccia al pari delle armi – si suppone non letali – è questo senso di cittadinanza che somministra, in una forma o nell'altra, il sedativo a un «grande dibattito nazionale». Non abbiamo dimenticato che, oltre agli occhi cavati, la campana a morto per i Gilets è arrivata sotto forma di gruppi di discussione guidati da un Presidente in maniche di camicia, culminati nei cahiers citoyens i cui leader hanno avuto il pudore di non dirci cosa ne abbiano fatto (prima che i sociologi li raccogliessero per pubblicarli ed aggiungere così una riga al proprio curriculum). Se c'è una lezione da trarre dal più grande movimento sociale francese dal '68, è questa: «diamo un nome al nemico, soprattutto...non parliamogli!» D'altra parte, dalla nostra c'è una riserva di munizioni di cui possiamo già impadronirci: la storia. Storia passata, storia recente, storia in divenire. Nel 1905, dopo la Domenica Rossa, quando l'esercito sparò su una manifestazione di 50.000-100.000 persone a San Pietroburgo, ebbe inizio la Rivoluzione di febbraio, che costrinse lo zar ad annunciare una serie di riforme democratiche e sociali. Fino al maggio italiano (1968-1978), i soviet, i consigli operai autoconvocati e le assemblee generali vennero considerati il modo più efficace per affermare l'azione autonoma delle classi lavoratrici [1]. Alla testa della manifestazione e di tutto il movimento che ne seguì, c'era un uomo, il pope Georgi Gapone, che da anni lavorava come informatore. Non c'è dubbio che la sua personalità fosse più complessa, ma possiamo comunque vedere il 1905 – un grande evento rivoluzionario – come l’apice (non a buon fine) di un tentativo delle forze dell’ordine di canalizzare la crescente rabbia popolare. È perciò da allora che dovremmo diffidare di chi alimenta la vulgata dei "provocatori", dei "manipolatori" e di altre "forze estranee" che si celano dietro un movimento – e questo è articolarmente vero per l’insorgenza che si sta formando intorno all'appello del 10 settembre: che dire dei migliaia di falsi account Facebook che lo hanno ripostato? E che la Russia, a spregio della propria storia, sia dietro questi account come ha suggerito recentemente «France Inter», per poi smentirlo risolvendosi in un «non possiamo provarlo»? Che dirne? Importa? Quello che conta è che la rabbia collettiva sia genuina. E lo possiamo osservare tutt’intorno, a patto di battere ambienti diversi dalle anticamere del potere. L'importante è anche praticare solidarietà e dare voce a questa rabbia, oltre la genesi: l'impressionante elenco di assemblee generali e gruppi di discussione è in tal senso incoraggiante. Diffidare della diffidenza si è rivelato opportuno sia nel XX secolo (ah, i "provocatori" cari alla CGT nel '68 e dopo) che nel XXI secolo; nei grandi momenti di sollevamento popolare come le "rivoluzioni colorate" (2000-2005: Serbia, Ucraina, Georgia, Kirghizistan) dove la presunta ingerenza della CIA e di organizzazioni finanziate da fondi occidentali non invalida in nulla (tranne che agli occhi di fanatici integralisti) il desiderio di dignità e libertà che animava le masse (e che le ha animate ancora in Ucraina quando hanno impedito a Putin di prendere il paese in tre giorni), o come nel succedersi delle rivoluzioni arabe, dove la presenza di islamisti inquietò alcuni "insorgenti" di buona fede, ma non impedì che la sicurezza delle donne e dei cristiani fosse assicurata sulla piazza Tahrir finché il regime non delegò gruppi di teppisti per attaccare il movimento. È stato molto bello dimostrare l'inanità del purismo dei Gilets jaunes, dove i fascisti erano molto presenti all'inizio ma sono stati emarginati grazie all'arrivo di compagn@ consapevoli della portata del movimento; eppure, ci troviamo ancora una volta di fronte a persone che fanno notare che i sovranisti stiano tramando da dietro le quinte. Un amico è stato addirittura avvicinato da un complottista, al mercato di Eymoutiers, che gli ha spiegato questa che «cosa è concepita per mettere le persone l'una contro l'altra». Cari rivoluzionari da tastiera, sempre pronti a premere il tasto "sfiducia", restate a casa: avete ragione, non fare sarà sempre il modo migliore per non sbagliare. Tra i reticenti, c’è anche chi deplora la mancanza di una chiamata unitaria come quella che c'era stata all'inizio tra i Gilet (contro la tassa sulla benzina). È il caso di riprendere la citazione di Marx sul «biglietto d’ingresso alla rivoluzione»? Ad insistere sul punto che i grandi sovvertimenti della storia possano avere un inizio più o meno connotato, ma che in ogni caso possa essere superato dalla sua stessa dinamica. Nel 1968, dal diritto alla mixité nella residenza universitaria di Nanterre alle protesta contro i caposquadra nelle fabbriche di Lione e Caen...ciò che ha preceduto il ritorno delle barricate e il più grande sciopero della storia potrebbe ancora essere qualificato come un dettaglio. Che però ha innescato la polveriera. Nel 2010, il suicidio di Mohamed Bouazizi à Sidi Bouzid fu sì un evento orribile, ma non fu certo la prima delle tragedie causate dall'arroganza e dalla corruzione del governo tunisino. Eppure questa, e nessun'altra, è stata all'origine di un movimento che ha scosso i poteri forti dal Maghreb al Golfo. Che le rivolte circoscritte possano diventare universali è un dato, ma di come avvenga non abbiamo trovato una formula magica, nonostante i dogmatici marxisti e la loro teoria del proletariato. Anche se i vari movimenti che hanno abbracciato la data del 10 settembre vengono col proprio caiher de doléances (e noi apprezziamo particolarmente quello di Soulèvements de la terre), l’unità del movimento è data dal «Blocchiamo tutto». E quello che ad alcuni appare come una fragilità è in realtà la più grande forza. Perché avanzare una richiesta unitaria, come è stato per i Gilets jaunes, significa correre il rischio che le autorità la soddisfino – almeno in parte e temporaneamente – fiaccandone lo slancio ed archiviando quanto si fosse raccolto intorno, spesso capace di orizzonti più ambiziosi. Dalle eco che ci giungono dai dibattiti online e in assemblea sul 10, sembra che il tema principale non sia «cosa», ma «come». Un esordio promettente, perché l'esistenza di un pensiero critico a monte del movimento è senz’altro importante, ma essenziale sarà poi quello costruito al suo interno. La consapevolezza nasce dalla pratica. «Blocchiamo tutto»? «Tutto cosa»? Definendo l’obiettivo, possiamo iniziare a criticare l’esistente, attaccando concretamente ciò che intrappola le nostre vite. E se il movimento ci si ritorce contro? C'è solo una risposta possibile per chi – di fronte al degrado del lavoro, all’attacco delle ultime garanzie superstiti ad un secolo di lotte, alla distruzione della biosfera da parte dell'industria e dei saperi dall'intelligenza artificiale...e di Gaza – non sarà mai “saggio”: «Prova ancora. Fallisci di nuovo. Fallisci meglio». (S. Beckett) Note [1] Vale la pena di notare, en passant, che da questo momento si da la scissione tra i rivoluzionari che, come Rosa Luxemburg e tutta l'ultrasinistra storica successiva, trassero insegnamento da questa dimostrazione della spontaneità rivoluzionaria delle masse, e i leninisti la cui ossessione – ancora oggi – è quella di organizzarla per meglio dirigerla. Serge Quadruppani , in attesa che la furia proletaria spazzi via il vecchio mondo, pubblica testi di umorismo, di viaggio e di lotta, oltre alle sue attività di autore e traduttore su https://quadruppani.blogspot.fr/ .

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    The other side of the moon # 2. Vietnam: la riflessione precisa il ricordo Nanni Balestrini In occasione del cinquantenario della fine della guerra in Vietnam con la caduta di Saigon, Romeo Orlandi ripercorre le tappe fondamentali di quegli accadimenti e le conseguenze che ne derivarono negli anni successivi. A questo testo ne seguiranno altri sui medesimi argomenti. Il 30 aprile di 50 anni fa cadeva Saigon, sotto l’avanzata congiunta del Vietnam del Nord e dei Vietcong. L’esercito regolare di Hanoi e la guerriglia organizzata del Fronte di Liberazione Nazionale del Vietnam del Sud, tra loro alleati, mettono in fuga definitivamente il regime fantoccio di Van Thieu. Il dittatore di Saigon da pochi giorni si era rifugiato con le tasche gonfie a Taiwan. L’offensiva comunista era stata martellante, vittoriosa, inesorabile. Dopo Quang Tri, Hue, Danang, il Vietnam meridionale si apriva indifeso, tra cittadini che scappavano, soldati che disertavano, consiglieri americani che fuggivano in elicottero. Washington aveva rimpatriato le sue truppe due anni prima, dopo gli accordi di pace dell’Avenue Kléber. Aveva dichiarato vittoria e lasciato i suoi alleati senza protezione, ma con tanti soldi e tante armi. A Parigi, i negoziati avevano seguito due piste. La più formale assumeva la forma di una tavola rotonda. I fotografi scattavano immagini di colloqui con quattro parti di uguale peso e dignità. Il Sud Vietnam e l’FLN non potevano apparire comprimari, pedine di una scacchiera più grande di loro. I negoziati più significativi si svolgevano tuttavia in segreto, tra Washinton e Hanoi, tra Kissinger e Le Duc Tho. Solo loro due ricevettero il Nobel per la Pace. Il Capo delegazione Nord Vietnamita si rifiutò di andare a ritirarlo, così non dovette stringere la mano al Segretario di Stato ancora una volta. Dopo il ritiro di Washington nella primavera del 1973, le armi vengono subito riprese. La pace era servita agli americani per andarsene, per «vietnamizzare» la vicenda. Il Nord e il FNL, meglio organizzati e motivati, accelerano la caduta del Sud, guidato da un governo corrotto, incompetente e imbelle. Quando il tank di Hanoi svelle il cancello del Palazzo Presidenziale a Saigon, i quattro carristi escono all’aperto e uno di loro corre per piantare in alto la bandiera del FNL. È quella con la stella gialla su due metà blu e rossa. Rappresenta la resistenza ai bombardamenti, le zone rosse nei villaggi, le scuole ai contadini, la guerriglia urbana, l’orgoglio patriottico, la sopravvivenza alle torture. È la «terza forza». Dominata dai comunisti, guidata dal Nord, raggruppa intellettuali delle città, nazionalisti anticoloniali, addirittura figure del clero buddista. Gli ultimi generali sud-vietnamiti – divenuti da pochi giorni Presidenti e ministri – si arrendono. Dicono che sono pronti a cedere il potere. Gli rispondono che non possono cedere quello che non hanno più. Dopo 30 anni la guerra in Vietnam finisce. La riunificazione del paese che si annunciava – Saigon diventava Hochimincity – era costata inerarrabili sofferenze e un immane tributo di vite umane. Per difetto, i morti vietnamiti si calcolano in due milioni. La pace era pronta, l’imperialismo sconfitto; l’effetto e la causa. Si poteva voltare pagina. Niente più B52, Agente Arancio, Napalm e villaggi sterminati. Nella gioia del momento il dolore sembrava appartenere al passato. Pochi si domandavano chi avesse vinto veramente a Saigon; quasi nessuno prevedeva che altri problemi fossero appena iniziati. Tredici giorni prima – il 17 aprile – i Khmer Rouge entravano a Phnom Penh. La capitale della Cambogia era caduta. Nessuno più proteggeva Lon Nol. Dopo averlo incoraggiato nel colpo di stato del 1970, gli Stati Uniti lo avevano abbandonato. Il dittatore scappava verso l’Indonesia, le Hawaii, la California. Non gli erano serviti gli oroscopi degli indovini, le adulazioni dei cortigiani, la ferocia anticomunista. I suoi nemici – le truppe irregolari di Pol Pot – anticipano i compagni vietnamiti; liberano la capitale e promettono ugualmente riso e pace. Sono giovani, senza divisa, con i sandali ricavati dagli pneumatici, male armati, con scarso supporto esterno. Solo la Cina di Mao li finanzia e li arma. La Cambogia è un piccolo paese, sembra una propaggine del Vietnam. Pochi mesi prima i comunisti avevano conquistato il Laos. Le ex colonie francesi erano finalmente indipendenti. L’imperialismo sconfitto sul campo; i popoli d’Indocina padroni del loro destino. Tutti dicevano così, dai comunisti ai socialisti, dalla «New Left» ai liberal americani. Il primo allarme viene dal Vietnam, dove l’emozione e la gioia durano poco. La pacificazione, la riunificazione di due metà ancora eterogenee si rivelano difficili. Il sud mercantile, sorretto dai dollari, dimentico del rigore confuciano, invaso da un incosciente consumismo, non accetta i limiti imposti dal Nord. Rifiuta, perché non li conosce: i razionamenti, le tessere alimentari, il rigore e la disciplina. Bisogna dunque imporglieli, e gli ufficiali del Nord sono pronti a farlo. Prima con gli interrogatori, poi con le detenzioni e i campi di lavoro. Vi finiscono non solo i collaborazionisti, i torturatori, i traditori. Anche gli ex Vietcong, i militanti del FNL, vengono colpiti. Bisogna garantire l’ordine, vanno evitate le vendette personali, affermano i nuovi governanti. Non è più tempo di guerriglia, ma di stabilità. Non si tratta di conquistare un paese ma di ricostruirlo. Può farlo solo una classe dirigente coesa, disciplinata, abituata al comando, senza indugi nell’attuare soluzioni radicali come le confische delle terre, le nazionalizzazioni, l’impostazione dunque di un collettivismo radicale. Il FNL deve dimenticare – gli viene ricordato senza possibilità di mediazione – le ambizioni plurali, l’inclusione di ceti sociali diversi, la tolleranza religiosa. Paradossalmente, la pace viene affidata a una classe dirigente che ha conosciuto – seppur eroicamente – soltanto le armi, le privazioni e la resistenza. Un paese devastato dal conflitto annaspa nel dopoguerra. Non riesce a uscire dalla spirale di povertà e illibertà. La riunificazione assume oggettivamente la forma di una conquista del Sud da parte del Nord. Almeno fino al 1986 – con l’adozione del Doi moi,  una politica economica che ribalta la precedente impostazione, dando fiato all’iniziativa individuale pur mantenendo un sistema a partito unico – il Vietnam vive di stenti e dissipa la simpatia internazionale che aveva conquistato. Sembra veramente che abbia vinto la guerra e perso la pace. I motivi sono molti, la realtà è complessa. Probabilmente la ragione principale di questa scelta – autonoma ma sostanzialmente obbligata – è stata l’alleanza con la potenza che si avviava a perdere la Guerra Fredda. L’allineamento con l’Unione Sovietica – così forte da diventare automatico – è apparso una riconoscenza per l’aiuto prestato, una traiettoria ineludibile verso il campo socialista, una presa di distanza dall’ingombrante vicino cinese, un ricordo neanche lontano per la formazione ideologica stalinista dei dirigenti. Tuttavia l’Urss non aveva risorse da condividere, modelli vittoriosi cui rifarsi, internazionalismo proletario dove attingere gli ideali. In cambio di fedeltà poteva offrire soltanto la sopravvivenza: armi, grano, energia. Un anno dopo la caduta di Saigon, muore il Presidente Mao, i suoi discepoli vengono arrestati, la Cina inizia ad abbracciare logiche capitaliste. Il campo socialista si sgretola, i Vietcong vengono ridimensionati. Il tragitto del Vietnam sembra avviato all’involuzione, alla perdita di speranza. Un’altra disillusione avviene alla fine del decennio. Gli scontri di frontiera tra Cambogia e Vietnam si trasformano in guerra aperta. Pol Pot non rinnega l’amicizia con la Cina, ricorda il terzomondismo contadino, tenta di affermare una società rurale innervata da un comunismo primitivo. Non ci sono spazi per esitazioni: Cambogia Anno Zero. La spietatezza degli eccidi, le Urla del Silenzio, la ferocia implacabile verso i nemici sono ricordi indelebili. Il fanatismo della Rivoluzione culturale, alla quale i Khmer Rossi si ispirano, sbiadisce di fronte all’incisività del loro esperimento. Nel novembre 1978 il Vietnam invade la Cambogia, la sconfigge presto, costringe Pol Pot nella giungla, conquista Phnom Penh e vi instaura un governo amico. Due alleati fino a pochi anni prima nella lotta contro lo stesso aggressore, pur allo stremo delle forze, si combattono tra loro. Come è possibile? Il Vietnam attacca per mettere fine alla carneficina in Cambogia, per riaffermare la sua potenza regionale, per non avere nemici alle frontiere. Tuttavia, ugualmente importante è la procura data da Pechino (e incredibilmente dai governi occidentali in funzione antisovietica) a Phnom Penh per resistere e da Mosca ad Hanoi per eliminare un nemico pericoloso e incontrollabile. In aggiunta, Pechino invade il Vietnam nel febbraio 1979, «per impartirle una lezione». I suoi soldati s ritirano in poche settimane e, come gli americani, dopo aver dichiarato che gli obiettivi erano stati raggiunti. Vietnam, Cambogia e Cina, tre stati comunisti, che dovrebbero trovare un nemico comune nel campo avverso, si sparano addosso. Lo sconcerto nell’opinione pubblica è palpabile, quello tra i militanti drammatico. Sembra evidente che le categorie analitiche classiche siano inadeguate a comprendere le dinamiche asiatiche e del sottosviluppo. Le società orientali appaiono di difficile comprensione. Il realismo politico – costantemente in agguato – emerge e sconfigge le posizioni ideali. La critica dell’economia politica è insufficiente, dovrebbe sconfinare in ambiti inconsueti, propri della sociologia, dell’antropologia, della psicologia. È un terreno minato per capisaldi consolidati. Ma è un esercizio valido per non rimanere colti tra la sorpresa e la sterilità del dibattito. In Asia orientale i rapporti di produzione sono stati differenti e la sovrastruttura svolge un ruolo centrale, come un titanico mantello adagiato sulle società. Nessun luogo al mondo è così diversificato come il sud-est asiatico, la regione di Vietnam e Cambogia. Vi si trovano una pluralità di sistemi politici, forme di governo, lingue parlate, religioni professate, costumi tramandati. Le rivalità – o le contraddizioni – non esistono soltanto tra produttori e imprenditori, ma investono le etnie e le forme della società civile. Sarebbe meglio aggiungere strumenti di analisi a quelli tradizionali, non per smentirli, ma per non lasciarli soli, sostanzialmente impotenti a capire eventi epocali che rimangono incomprensibili solo perché diversi. Romeo Orlandi è Presidente del think tank Osservatorio Asia, Vice Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN, economista e sinologo. Ha insegnato Globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi Master post universitari.

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