archivi
- Sergio Bianchi
- 26 mag
- Tempo di lettura: 11 min
Aggiornamento: 3 giu
La rivista DeriveApprodi [1]

All’inizio del 1990, tra vecchi e giovani compagni sparsi per l’Italia, si discuteva delle necessità di tentare il riavvio di un percorso di riflessione critica dopo la terribile stagione della desertificazione mentale del decennio Ottanta. A tal fine si riteneva che lo strumento principe fosse ancora quello della «rivista politica». Il primo testo che qui si presenta racconta in sintesi gli antefatti che portarono al varo della rivista «DeriveApprodi» e nello specifico l’esperienza precedente di «Luogo comune». Il testo di Primo Moroni che segue ha contribuito alla fondazione della rivista, il cui numero zero fu pubblicato nel luglio del 1992 con in copertina la frase: «È possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente».
A questo testo fa seguito l’editoriale del numero zero di «DeriveApprodi» dal titolo omologazioni resistenze esodi, che non reca firma perché frutto di una discussione collettiva.
Gli antefatti
[1989] Cadde il Muro e subito dopo arrivò la Pantera. Quel movimento che aspettavamo, che chiuse quei mai abbastanza maledetti Ottanta aprendo insieme orizzonti e scenari nuovi. In un battibaleno rinacquero le riviste: «Futur antérior» a Parigi, «Altre ragioni» e «Millepiani» a Milano e molte altre più effimere. A Roma nacque «Luogo Comune», e lì dentro ci ritrovammo io, Mauro Trotta e Benedetto Vecchi. Una redazione assembleare (troppo assembleare per garantirne la continuità) composta da Paolo Virno, Marco Bascetta, Andrea Colombo, Papi Bronzini, Augusto Illuminati, Lucio Castellano, Franco Piperno, Lanfranco Caminiti, Giorgio Agamben, Massimo De Carolis, Enzo Modugno, Giovanni Giannoli, Franco Lattanzi, Massimo Ilardi e molti altri. Tra il meglio del «pensiero critico» romano. Le donne però erano pochissime: Alessandra Castellani, Bia Sarasini, Angela Scarparo. Quasi una totalità di uomini. Eggià… qualcosa voleva pur dire. «Luogo Comune» fu uno spartiacque, in soli quattro numeri costruì i paradigmi teorici che fecero da base a molto dell’agire dei movimenti nel quindicennio a venire. Seminari, riunioni, presentazioni si susseguivano. Avevamo la netta sensazione di essere finalmente usciti dal pantano, di aver ricostruito delle nuove idee-forza capaci di diffondersi socialmente. Ma dopo tre numeri la macchina si inceppò. L’assemblea redazionale era troppo ampia e i suoi discorsi prendevano direzioni disomogenee che rischiavano di creare confusione annullando la forza dei paradigmi fin lì costruiti. O almeno così pensarono alcuni, i più autorevoli però. Forse la vecchia idea che il partito epurandosi si rafforza li convinse. Così, mentre il grosso della partecipazione andava in dispersione, prepararono il quarto numero. Senz’altro il migliore, ma per paradosso anche l’ultimo.
Dopo il terzo numero non passò la proposta di formalizzare una redazione motivata con le ragioni di rendere il lavoro più efficiente e coeso. Benedetto, Mauro e io eravamo i più giovani e in accordo con la proposta della formalizzazione della redazione, pur sapendo ovviamente che non ne avremmo fatto parte, o forse Benedetto sì. Infatti poi lui seguì la fattura del quarto numero, mentre io e Mauro ci mettemmo a delirare sull’ipotesi di una nuova rivista tutta da inventare. Non avevamo il minimo dubbio sul fatto che il punto più alto dell’intelligenza analitica e della conseguente elaborazione teorica stesse nella componente, diciamo così, più omogenea di «Luogo Comune», ma eravamo anche convinti che le altre soggettività in dispersione erano comunque preziose. Inoltre, forse per il semplice fatto di essere più giovani, avevamo un occhio più attento e una qualche concreta internità a quel che il movimento della Pantera aveva prodotto, al fatto che i suoi animatori si stavano riversando nei centri sociali alfabetizzandoli, togliendoli da un difensivismo autoreferenziale che li aveva fin lì obbligati a un isolamento e a una scarsa significanza nei conflitti sociali. In sostanza pensavamo che quel ribollire di nuova soggettività in costruzione era una referenza diretta e di massa a quanto «Luogo comune» aveva elaborato. Certo, esisteva il problema di come organizzare il lavoro progettuale, e poi redazionale, evitando il guazzabuglio assembleare, di come tenere insieme e ricavare ricchezza teorica da una partecipazione larga e anche disomogenea senza che ciò fosse di impedimento alla realizzazione concreta del progetto. Discutemmo per settimane su quel rompicapo finché una sera capimmo che l’uovo di Colombo era lì a portata di mano: non si sarebbe fatta alcuna redazione fissa ma redazioni specifiche numero per numero in base alle tematiche scelte. E quella fu la formula che funzionò per 26 numeri, dal 1992 al 2005 […].
Ci diedero retta Lanfranco Caminiti e Lucio Castellano, insieme a Bifo da Bologna. Ma soprattutto sapevamo di avere l’appoggio concreto di quel placido leone di Nanni Balestrini, che di riviste ne aveva fatte fin dagli anni Cinquanta, e di Primo Moroni che scrisse il testo «fondativo» dal quale venne tratta la frase che comparve nella copertina del n. 0: «È possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente».Mentre tessevamo la rete delle collaborazioni e il recupero dei testi da pubblicare (tra i quali anche quelli di Agamben e di Negri) assistevamo sbigottiti alla velocità con la quale si sbriciolava il sistema dei partiti della prima Repubblica. Stampammo il numero 0 nell’improbabile mese di luglio del 1992. Un classico formato A4 impaginato con uno dei primi programmi di computer grafica da Massimo Kunstler, che fu autore anche del logo della testata DeriveApprodi, nominazione che decisi io col consenso di Mauro, ma che però fece incazzare Bifo che la riteneva, chissà perché, di «sapore cattolico». Riuscimmo a convincere il distributore Joo a mandarne nelle librerie 700 copie. Una roba da matti, a luglio, un prodotto del genere mischiato alle letture da ombrellone. Andarono esaurite in una settimana. Benedetto scrisse poi la recensione alla rivista su «il manifesto» dove sottolineava il fatto che quel progetto nasceva da un ambito collettivo del tutto informale costituto da quella che cominciava a delinearsi come la nuova forza-lavoro cognitiva in formazione. Il progetto consolidò una propria continuità costruendo a ogni numero della rivista una specifica rete che andava a relazionarsi alle altre già esistenti. In quegli anni il movimento era come un aereo che dalla Pantera aveva cominciato a correre sulla pista acquisendo sempre più velocità senza però riuscire a decollare. Finché arrivò la rivolta zapatista e la prospettiva di un nuovo, inedito, internazionalismo. E lì l’aereo, magicamente, si staccò da terra.
È possibile pensare che…
Primo Moroni
Si intende partire dal dato reale che considera il 1990 come massimo zenith dei processi di innovazione e modernizzazione che hanno interessato il paese Italia.
I caratteri di mondializzazione delle economie occidentali hanno costretto le forze produttive locali a un processo estremamente accelerato di trasformazioni radicali che hanno sconvolto soprattutto l’universo dei «lavori» con effetti visibili e rilevanti nella sfera del sociale e – per ora – non del tutto avvertiti nella sfera culturale.
L’impatto delle nuove tecnologie ha disegnato uno scenario di «innovazione autodistruttiva» che assume sempre più frequentemente i contorni di una metafora di «fine d’epoca». La rapida «decostruzione» della città fordista trasforma la metropoli nel luogo critico del moderno costringendo uomini e donne a continue risposte affermative o negative. Tutto ciò che sembrava solido e convincente si dissolve in continuazione trasformandosi nel suo contrario. L’infinita avventura del presente genera omologazione o – al contrario e insieme – angoscia, inquietudine come forma dell’intelligenza nel moderno.
Nello spazio vuoto della perdita di riferimenti, di bisogni post-acquisitivi, il diritto alla felicità viene surrogato dalla «merce eccellente» eroina. La forza innovativa delle trasformazioni materiali si trasforma in geroglifico sociale, diventa linguaggio. I suffissi post (post-moderno, post-industriale ecc.) sono segni vuoti che occultano i processi reali, il «pensiero debole» l’ideologia che legittima il quadro generale.
Città dell’eccellenza, città delle regole, città neofondamentalista, città di frontiera, convivono negli spazi della decostruzione. Simulazione e falsificazione, vero o falso, visibile e invisibile possono assumere valenze opposte e rovesciate.
Dentro questo universo di segni e significati non esistono nicchie di serenità che non siano – ancor più e in quanto tali – minacciate da eventi rovinosi. L’unica possibilità che individuiamo risiede nell’accettare l’avventura del moderno collocandosi nelle linee (border-line) della frontiera. Marginalità come scelta cosciente – qui e ora – progetto esistenziale che generi culture e nuove intelligenze del mondo nell’epoca della produzione immateriale.
Una rivista che da sismografo delle «mutazioni» in corso aspiri a divenire sguardo freddo, ironico e partecipato dei processi reali che non sono mai – particolarmente ora – ne positivi, né negativi, ma appunto processi. Una rivista che si inserisca – come parte del mosaico – in quel vasto anche se minoritario e di esordio, movimento di «marginalità colta» in formazione nelle metropoli europee e americane.
Per la prima volta nella storia dell’uomo il nucleo centrale della produzione viene spostato dal corpo alla mente con effetti straordinari sulla vita e l’immaginario collettivi. A fianco dei processi di liberazione dei corpi (ingegneria genetica, body-building, steroidi, transessualità ecc.) non più indispensabili all’igienismo taylor-fordista, si sviluppano nuovi territori di schiavitù o libertà che hanno come obiettivo la mente. La produzione di saperi come «merce di eccellenza direttamente produttiva» domina strategicamente il quadro dei nuovi poteri tecno-imprenditoriali.
La scienza – vissuta spesso come dato cieco – abbatte tutti i confini tradizionali della produzione intellettuale: arte e tecnologia, parola scritta e immagine, pensiero umanistico o scientifico non sono più coppie separabili e distinte, ma l’uno sfuma nell’altro e viceversa sconvolgendo la vis-immaginativa e l’universo esistenziale dei soggetti sociali. In questo ultimo decennio intere sezioni di culture sociali, politiche, artistiche sono state spazzate via dai processi alti di modernizzazione. Ciò ha innescato contemporaneamente risposte omologanti e rifiuti nichilistici.
Oggi pensiamo che sia in fase di completamento quel segmento di tempo storicamente e socialmente utile ai soggetti per metabolizzare la comprensione dei processi reali. Cogliere la vitalità di queste intelligenze in formazione è l’obiettivo ambizioso e senza soverchie illusioni di questa rivista.
Con l’intenzione di diluire queste prime ipotesi sicuramente espresse in forma fredda e necessariamente schematica, si possono indicare alcuni possibili percorsi.
È possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli europee stia emergendo una nuova percezione del presente?
– l’intelligenza tecnico-scientifica dei «grunen» tedeschi?
– la sottocultura metropolitana che si trasforma in «cultura altra» dei processi di produzione immateriale?
– la frantumazione delle rappresentanze politiche come espressione dell’incapacità di governare i processi reali?
– lo sviluppo apparentemente «infinito» del progresso tecnico-scientifico che si sofferma a riflettere su se stesso per non aver contemplato nel piano l’elemento umano?
– l’economia criminale come elemento storicamente necessario al ciclo di accumulazione ovvero il paradosso della sfera delle leggi?
– la possibilità di leggere la città attraverso i labirinti successivi?
– è possibile cioè attingere dal passato per inventare il futuro. Un passato e un futuro che convivano con il moderno?
– il sostanziale passaggio del controllo dal corpo alla mente apre spazi di libertà o terribili ipotesi di controllo globale dove il media manipolatorio assume la fisionomia del «grande fratello»?
– nelle fasi di transizione si genera la paura prodotta dal vuoto e dal vissuto di perdita delle acquisite culture precedenti. In questo vuoto si inserisce frequentemente l’artista diventando il sismografo delle mutazioni in atto. Chi sono oggi coloro che si muovono in questa direzione?
– Nelle fasi di frattura dello sviluppo del moderno esistono solo i processi alti e la loro ricaduta nella sfera dell’esclusione. In mezzo ci sono i «coni d’ombra» della «classe della maggioranza». Vi sono risorse in quei «coni d'ombra»?
La «marginalità colta» è l’unica scelta possibile per interagire coscientemente con lo scenario generale?
omologazioni resistenze esodi
I testi che compongono questo fascicolo non sottendono alcun intento costitutivo di un qualche «organico» progetto di ricerca culturale e politica alternativa, anche se siamo convinti che di qualcosa di simile si avverte sempre di più un diffuso bisogno. Qui si tratta piuttosto di qualcosa di molto più semplice e modesto: un punto di incontro di alcune derive esistenziali e di alcuni percorsi di ricerca, un contributo affinché nuove scoperte maturino, altre avventure comincino.
Crediamo che i temi qui trattati, anche se talvolta in forme contraddittorie e confuse, siano comunque importanti e vadano perciò, per quanto possibile, divulgati. Gli interventi che abbiamo raccolto provengono da un’area riconoscibile ma largamente differenziata. In queste pagine la memoria dell’epoca delle rivolte egualitarie non è perduta, ma neppure feticizzata, perché quello che oggi più ci interessa è gettare uno sguardo su quei panorami apparentemente emergenti oltre la densa cortina di banalità che soffoca le intelligenze in questa lenta lunga agonia della modernità.
In queste pagine non trovano invece alcun spazio i reiterati psicodrammi altrove messi copiosamente in scena da dirigenti e intellettuali di quel «glorioso popolo comunista» reso orfano dalla dissoluzione dei regimi totalitari dell’est europeo. Radicalmente altra è la cultura a cui si fa qui riferimento, una cultura nata proprio dallo schieramento, in tempi non sospetti, contro quegli stessi regimi la cui dissoluzione rappresenta semmai la fine tardiva di un equivoco.
Del panorama culturale italiano non ci sembra ci sia molto da dire: ai laceranti tentativi di elaborazione del lutto da parte dell’intellettualità ex e neo «comunista» fa da contraltare la continuità della chiacchiera insulsa di quell’intellettualità cortigiana nonché mediocre e volgare che, mossa dalle pulsioni della modernizzazione galoppante, negli ultimi dieci anni ha servito con zelo gli interessi del potere d’impresa, somma di tutti gli altri poteri. Immediatamente al seguito di queste due polarità corre con fiato affannoso la marea della piccola intellettualità questuante presso il ceto politico istituzionale: «un popolo di aspiranti al contributo, di subalterni che sgomitano per accaparrarsi le briciole di elargizione lasciate dalle grandi lobby, quelle che succhiano senza pietà le infinite mammelle dell’ente pubblico» (Sergio Bologna, Sulla necessità di creare un polo culturale, inedito). Interloquire in questo panorama né ci piace né ci interessa. D’altronde la cultura dell’aggressività e della competizione al comando nel decennio passato scricchiola vistosamente, seminando il panico nel corteo di quegli squali finanziari, padroni di ferriere televisive, mafiosi e narcotrafficanti di vario genere, che si sono accompagnati in lucrosi affari con buona parte del ceto politico istituzionale. Per quel che ci riguarda non nascondiamo la speranza che la falla si allarghi e che questo funereo barcone affondi con tutto il suo infame carico e la sua ancor più infame ciurma e sotto ciurma comprensiva di lacchè, portaborse, sarti, presentatori televisivi e sedicenti artisti comunque prezzolati. Amen.
Alzato lo sguardo oltre questa immediata linea di orizzonte ci si scontra con l’orrida realtà di popoli che ormai quotidianamente si macellano in nome di un’appartenenza etnica, di un fondamentalismo religioso o ideologico. Mentre frotte di incoscienti imbecilli si ostinano a definire queste carneficine «lotte di liberazione nazionale» condotte in nome dell’«autodeterminazione dei popoli», produttori e trafficanti riforniscono di armi agguerrite schiere neonaziste di mezza Europa. E a est la fioritura di nuovi Stati «indipendenti» comporta, ben al di là delle fascinazioni per il libero mercato, una proliferazione nucleare difficilmente controllabile. Il tutto sovradeterminato da quanto va configurandosi sotto il nome di «Nuovo Ordine Mondiale».
Piaccia o no, questi, e altri non meno preoccupanti, sono gli scenari con cui un pensiero critico e alternativo deve fare i conti, e nel cominciare a farli crediamo valga il metodo del pensare innanzitutto in maniera libera da ogni compromesso con quegli stessi poteri che hanno concorso a determinare una situazione planetaria di cui non è avventato prefigurare un collasso. Pensare in libertà, dunque, cominciando col porsi delle domande che siano all’altezza della portata delle trasformazioni attivate dalla fine del bipolarismo e dalla terza rivoluzione industriale, avendo a riferimento l’ipotesi che l’intelligenza creativa, la forza produttiva tecnico-scientifica dispiegata nel sociale dà segni sempre più evidenti di insofferenza verso la sua unica finalizzazione economica, verso qualsivoglia gerarchia politica e forma di organizzazione statuale. Da qui l’inizio delle domande e il percorso tutto in salita che può portare alla costruzione di un’alternativa.
Sergio Bianchi nel 1992 ha fondato (con Mauro Trotta) la rivista «DeriveApprodi». Nel 1998 è stato cofondatore della casa editrice DeriveApprodi nella quale ha assunto le cariche di direttore editoriale e amministratore unico fino al 2023. In quei 25 anni la casa editrice ha pubblicato un migliaio di titoli. Nel 2020 ha progettato e realizzato la rivista on line di dibattito politico-culturale «Machina». Ha curato i saggi: L’Orda d’oro a firma di Nanni Balestri e Primo Moroni; La sinistra populista; (con Lanfranco Caminiti) Settantasette. La rivoluzione che viene e Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, voll. I, II, III; nanni balestrini – millepiani. È autore dei saggi: Storia di una foto; (con Raffaella Perna) Le polaroid di Moro; Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo. È inoltre autore del romanzo La gamba del Felice (Sellerio).