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    Iran e Israele di fronte all'ordine geopolitico occidentale Donata Vanerio L'Iran si trova di fronte alla volontà delle potenze occidentali di distruggere ogni dissenso al proprio feroce ordine economico, sociale e geopolitico, mantenuto a tutti i costi nella profonda irrazionalità e palese ingiustizia – da Gaza alle politiche migratorie alla gestione del cambiamento climatico o all'approfondimento delle disuguaglianze –.  Decenni di politica aggressiva da parte delle potenze statunitensi ed europee nella regione – che hanno lasciato un'enorme scia di sangue e una pericolosa destabilizzazione in Medio Oriente e nel sistema capitalista globale – non hanno prodotto alcun cambiamento nella postura dell'Occidente. Questo articolo è apparso su Sidecar , il blog della New Left Review , rivista bimestrale pubblicata a Madrid dall' Instituto Republica & Democracia  di  Podemos  e da  Traficantes de Sueños , ed è pubblicato con l'espressa autorizzazione del suo editore. L'allargamento della guerra dalla Palestina all'Iran, iniziata il 13 giugno, evidenzia un'ossessione israeliana che dura da quattro decenni. Mentre l'amministrazione USA negoziava in malafede con l'Iran sul suo programma nucleare, il regime israeliano ha approfittato di una pausa nei negoziati per bombardare Teheran, assassinando scienziati di spicco, un alto militare e funzionari, alcuni dei quali partecipanti attivi ai colloqui. Dopo diverse smentite poco convincenti, Trump ha ammesso che gli Stati Uniti fossero informati in anticipo dell'attacco. Ora l'Occidente appoggia l'ultima offensiva di Israele, nonostante ciò che Tulsi Gabbard, il direttore dell'intelligence nazionale nominato dal thycoon , abbia dichiarato il 25 marzo: «La comunità dei servizi [che riunisce le attività delle diciotto agenzie di spionaggio statunitensi, tra cui la CIA e la NSA] continua a credere e a ritenere che l'Iran non stia costruendo un'arma nucleare e che il leader supremo Khamenei non abbia autorizzato il programma di armi nucleari, che ha sospeso nel 2003». Gli ispettori dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica sanno perfettamente che non esistano armi nucleari. Hanno semplicemente agito come insider  complici di Stati Uniti e Israele, fornendo i ritratti degli scienziati senior, uccisi nei raid. L'Iran si è tardivamente avveduto dell’insensatezza della loro presenza nel paese, redigendo un dispositivo normativo per l’espulsione. I leader non avevano nulla da guadagnare sacrificando questa parte della propria sovranità, ma si sono aggrappati alla flebile speranza, per metà pura convinzione, che – se avessero fatto ciò che volevano gli americani – avrebbero potuto ottenere la revoca delle sanzioni e una pace garantita dagli States.  Il passato in tal senso non è stato foriero di buoni consigli. Il governo eletto dell'Iran fu rovesciato nel 1953 con l'aiuto occulto di Stati Uniti e Gran Bretagna e l’opposizione laica interna fu distrutta. Quando, dopo un quarto di secolo di dittatura sostenuta dall'Occidente, la dinastia Pahlavi fu finalmente rimossa – un anno dopo la rivoluzione del 1979 – l'Occidente, di concerto con l'Arabia Saudita e il Kuwait, finanziò l'Iraq per lanciare una guerra contro l'Iran e rovesciare il nuovo regime. Otto anni, mezzo milione di morti, la maggior parte iraniani. Centinaia di missili iracheni colpirono città e obiettivi produttivi, per lo più petroliferi. Nelle battute finali, gli Stati Uniti distrussero quasi metà della marina iraniana nel Golfo e – non modo, sed etiam  – abbatterono un aereo di linea civile. La leale Gran Bretagna contribuì ad insabbiare il tutto.   Da allora, la politica estera della Repubblica islamica ha sempre messo al centro la sopravvivenza del regime. Durante la guerra Iran-Iraq, i chierici non hanno esitato a comprare armi dai nemici dichiarati, compreso Israele. La solidarietà con le forze di opposizione è stata frammentaria e opportunistica, priva di una strategia antimperialista coerente, se non quella dimostrata nel ruolo solitario – ma cruciale – di difensori dei diritti dei palestinesi in una regione in cui tutti i governi arabi hanno capitolato di fronte alla potenza egemone. Il 15 giugno, poco dopo l'attacco israeliano, si è svolta a Gaza una straordinaria processione di più di cinquanta asini, guarniti e drappeggiati con mantelli di seta e raso; mentre venivano condotti per le strade, i bambini li accarezzavano con autentico affetto. Perché? «Perché – ha spiegato l'organizzatore – ci hanno aiutato più loro di tutti gli Stati arabi messi insieme». Dopo le invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq a guida stelle e strisce, gli iraniani speravano senza dubbio che – dopo aver collaborato con Washington al rovesciamento di Saddam Hussein e del Mullah Omar – questo avrebbe dato loro un po' di respiro. Per molti versi, la "guerra al terrorismo" non è stata una circostanza sfavorevole per la Repubblica islamica. Il suo prestigio nella regione è salito insieme ai prezzi del petrolio, i suoi nemici a Baghdad e Kabul sono stati brutalmente eliminati e i gruppi sciiti che aveva sostenuto dal 1979 sono saliti al potere nel vicino Iraq. È difficile credere che né il Politbjuro di Bush (Cheney, Rumsfeld, Rice) né i consiglieri arabi non ufficiali con sede negli Stati Uniti (Kanaan Makiya, Fouad Ajmi) potessero prevedere questo esito, ma sembra che sia stato così. Il primo straniero non occidentale a visitare la Zona Verde come ospite d'onore è stato il Presidente Ahmadinejad. Sia i nazionalisti sunniti che quelli sciiti si sono uniti per opporsi alle forze di occupazione, lanciando razzi e mortai contro l'ambasciata statunitense. È stato l'intervento dello Stato iraniano a dividere questa opposizione, facendo sì che un movimento di resistenza unito degenerasse in una guerra civile auto-distruttiva. Muqtada al-Sadr, uno dei principali leader sciiti in Iraq, era rimasto scioccato dalle atrocità di Fallujah e aveva guidato una serie di rivolte popolari contro la coalizione statunitense. Al culmine del conflitto, fu invitato a visitare l'Iran e finì per rimanervi – per esservi detenuto – nei successivi quattro anni. L’ingresso dell'ISIS sul campo di battaglia poi ha rafforzato questa alleanza tattica tra USA e Iran, con il Pentagono a fornire supporto aereo ai 60.000 militanti sciiti sul campo. La maggior parte di queste forze era sotto il comando indiretto di Qassem Soleimani, in regolare comunicazione con il generale David Petraeus. Soleimani era uno stratega di talento, ma suscettibile alle lusinghe, soprattutto da parte del Grande Satana. È stato il principale ideologo di Teheran dopo l'11 settembre, ma la vanità ostentata con le controparti statunitensi ne ha alienato alcune, soprattutto quando ha spiegato nei dettagli come gli iraniani avessero previsto e sfruttato la maggior parte degli errori dell'America nella regione. La descrizione di Spencer Ackerman è appropriata: «È stato abbastanza pragmatico da cooperare con Washington quando ciò si adattava agli interessi iraniani, come nel caso della distruzione del Califfato, e disposto a confrontarsi con Washington quando ciò si adattava agli interessi iraniani, come nel caso del sostegno di Soleimani a Bashar al-Assad in Siria o, prima, quando ha introdotto modifiche agli ordigni esplosivi improvvisati che hanno ucciso centinaia di soldati statunitensi e ne hanno mutilati molti altri. L'impunità di Soleimani ha fatto infuriare lo Stato di sicurezza e la destra. Il suo successo ha fatto male». Tuttavia, mentre il potere regionale dell'Iran cresceva, le tensioni interne erano in aumento. La Rivoluzione aveva alimentato speranze disattese poi dal conflitto con l'Iraq. Anche per questo motivo, l'Iran ha adottato una posizione più dura sulla questione nucleare, affermando il proprio diritto sovrano di arricchire l'uranio e galvanizzando così la sfiancata popolazione. In politica estera, aveva e ha uno scopo difensivo perfettamente logico: il paese si trova in una posizione vulnerabile, circondato da stati atomici – India, Pakistan, Cina, Russia, Israele – e da basi statunitensi con arsenali nucleari potenziali o effettivi in Qatar, Iraq, Turchia, Uzbekistan e Afghanistan. Portaerei e sottomarini statunitensi equipaggiati di testate atomiche pattugliano le acque al largo della sua costa meridionale. In Occidente si è completamente dimenticato che il programma nucleare fosse un'iniziativa del Sah lanciata negli anni '70 con il sostegno degli USA. Una delle società coinvolte era un feudo dello squallido Cheney – vice di Bush. Quando Khomeini è salito al potere ha bloccato il progetto ritenendolo non islamico, ha in seguito ceduto e le operazioni sono riprese. Con l'intensificarsi del programma a metà degli anni 2000, l'Iran e la sua Guida suprema hanno solo potuto constatare quanto l’Iran non si fosse spostato dal mirino di Washington. La Casa Bianca di Bush trasmetteva l'impressione che in qualsiasi momento ci sarebbe potuto essere un attacco all'Iran, diretto o per il collaudato proxy regionale, Israele – oppositore dal canto suo a chiunque ne sfidasse il monopolio nucleare in Medio Oriente –. Il governo israeliano e le sue fedeli reti mediatiche hanno descritto il leader iraniano come uno “psicopatico”, un “nuovo Hitler”. Una crisi, questa, confezionata in fretta e furia: specialità occidentale.  Gli Stati Uniti dispongono dell’atomica, così come UK, Francia ed – appunto – Israele; eppure il perseguimento da parte dell'Iran della tecnologia necessaria per il livello più elementare di autodifesa ha provocato un panico morale.  Mentre le potenze europee si affannavano a migliorare la posizione nei confronti di Washington dopo l'invasione dell'Iraq, Francia, Germania e Gran Bretagna erano ansiose di dimostrare il proprio valore costringendo Teheran ad accettare limiti severi all’attività nucleare. Il regime di Khatami capitolò immediatamente, immaginando di essere invitato a uscire dall'isolamento e dall'ostilità quasi totale. Nel dicembre 2003 l'Iran ha firmato il “Protocollo aggiuntivo” richiesto dall'UE-3 (Germania, Francia e Regno Unito), accettando una sospensione “volontaria” [sic!] del diritto all'arricchimento garantito dal Trattato di non proliferazione nucleare. Ancora, nulla di fatto: nel giro di pochi mesi, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica condannò l'Iran per non averlo ratificato, mentre Israele si vantava dell’intenzione di “distruggere Natanz”. Nell'estate del 2004, un'ampia maggioranza bipartisan del Congresso americano approvò una risoluzione per adottare «tutte le misure appropriate» per impedire il programma di armamento dell'Iran e si ipotizzò una «sorpresa di ottobre» in vista delle presidenziali di quell'anno. All'epoca, ho sostenuto sul Guardian che «affrontare i nemici schierati contro l'Iran richiede una strategia intelligente e lungimirante, non l'attuale miscuglio di opportunismo e manovre, determinato dagli interessi immediati dei chierici». Diversi intellettuali iraniani liberali e socialisti hanno risposto da Teheran per esprimere il loro forte accordo, soprattutto con le mie conclusioni: «L’aver spianato la strada al rovesciamento del regime baathista iracheno e di quello talebano afghano, oltre ad aver appoggiato le occupazioni statunitensi, non ha dato tregua all'Iran. Il vice segretario di Stato americano ha parlato di “aumentare la pressione”. Il Ministro della difesa israeliano Shaul Mofaz ha dichiarato che “Israele non accetterà che l'Iran abbia risorse nucleari. Da parte nostra, dobbiamo avere la capacità di difenderci con tutto ciò che questo comporta e va da sé che ci stiamo preparando per questa eventualità”. Hillary Clinton ha accusato l'amministrazione Bush di “minimizzare la minaccia iraniana” e ha chiesto di fare pressione su Russia e Cina per imporre sanzioni a Teheran. Chirac ha parlato di usare le armi nucleari francesi contro uno “Stato canaglia” come l'Iran. Forse si tratta semplicemente di retorica guerrafondaia, volta a spaventare Teheran e a costringerlo alla sottomissione. È improbabile che l'intimidazione abbia successo, quindi l'Occidente si imbarcherà in una nuova guerra?» La politica estera degli Stati Uniti è stata perfettamente riassunta dalla laconica dichiarazione di Bush nel 2003: «Se non siete con noi, siete contro di noi». Gran Bretagna, Canada, Israele, Arabia Saudita ed Australia non avevano bisogno di essere convinti. Ad oggi, l'Iraq non ha riacquistato la stabilità sociale ed economica prima del “cambio di regime”: più di un milione di vittime e cinque milioni di orfani sono stati il prezzo che dopo che il governo è stato falsamente accusato di possedere armi di distruzione di massa. Le compagnie occidentali ora si appropriano, in modo più o meno irregolare, della maggior parte del petrolio iracheno. A Gaza, poi, l'orrore continua. Bombe, morte, fame e una crudeltà che ricorda il trattamento riservato dalla Wehrmacht nazista agli Untermenschen – sottoproletari – slavi. Il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato un editoriale, più duro di una qualsiasi delle testate liberali della zona euro-atlantica, attaccando la patetica decisione dei leader europei di sanzionare solo i due “fascisti dichiarati” del governo di Netanyahu, chiedendo invece sanzioni complete contro Israele.  Questo è ciò che i veri sostenitori di Israele dovrebbero chiedere, invece di incoraggiarne la politica kamikaze e le campagne genocide . Dopo il successo nel radere al suolo la Striscia di Gaza e sterminarne decine di migliaia di abitanti, il governo Netanyahu ha chiaramente ritenuto che fosse giunto il momento di espandere il conflitto ad altri obiettivi. La prima è stata la campagna dell'esercito israeliano contro Hezbollah, che ha ucciso gran parte della sua leadership e ha lasciato l'organizzazione gravemente indebolita, sottomettendo il Libano – e non c'è quindi da stupirsi se da allora i giovani libanesi salgano sui tetti delle case per applaudire i droni iraniani –. Poi è stata la volta della Siria, dove Israele ha lanciato diversi attacchi senza fingere nemmeno di essere in assetto di difesa. In collaborazione con la Turchia poi – membro della NATO – e con i resti dell'apparato baathista, ha contribuito all'installazione di un governo fantoccio sotto il comando di uno scagnozzo statunitense ben addestrato, l'ex agente di Al Qaeda Jolani.  La scena era pronta per l'assalto all'Iran.  Come sempre, i doppi standard occidentali entrano in gioco quando si tratta d’Israele. Non ha aderito al Trattato di non proliferazione nucleare, non ha firmato la Convenzione sulle armi biologiche o la Convenzione di Ottawa sulla proibizione della produzione, dello stoccaggio e dell'uso di mine personali. Ancora, non ha ratificato la Convenzione sulle armi chimiche e ha ignorato il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite per decenni. Un record, che ora è aggravato dai mandati di arresto emessi dalla Corte internazionale di giustizia contro Netanyahu e Gallant per crimini di guerra e crimini contro l'umanità, oltre a un'indagine in corso per genocidio... Questo sì che è l'aspetto di uno stato canaglia. Attualmente Iran e Israele comunicano tramite droni, F35 e missili. Sia Teheran che Tel Aviv sono state colpite. L'obiettivo israeliano dichiarato di distruggere i reattori nucleari non è stato raggiunto e il vanto di Bibi di provocare un cambiamento di regime ha avuto l'effetto opposto. Le donne senza hijab hanno manifestato per le strade scandendo «Brandite l’atomica!» Una di loro ha detto a un giornalista: «In parlamento stanno discutendo della chiusura dello Stretto di Hormuz. Non c'è bisogno di discuterne. Deve essere chiuso e basta».  Trump insiste che la guerra potrà finire solo quando Teheran si arrenderà completamente. Molti iraniani ora credono che i recenti negoziati sul nucleare non siano stati altro che una manovra diversiva. Tattiche simili per realizzare l'assassinio di Soleimani nel 2020, convincendo il primo ministro iracheno a mediare i colloqui tra Stati Uniti e Iran per attirare il generale a Baghdad.  Gli iraniani finora hanno resistito all'attacco.  È Israele il paese che ha urgente bisogno di un cambio di regime. Note Del medesimo autore si consiglia la lettura di Lands Conquered  in NLR n. 151 e The Roads to Damascus  in Red Journal. Ancora: di Eskandar Sadeghi-Boroujerdi, Iran e Israele sull'orlo del baratro  in Diario Red; Controllo dei danni nella Repubblica Islamica dell'Iran  e Le regole del gioco  in El Salto . Di Souleiman Mourad, Hezbollah imbrigliato in Red Newspaper . Di Susan Watkins, Il Trattato di non proliferazione contro le armi nucleari  in NLR n. 54.

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    Terroristi Donata Vanerio Proponiamo un nuovo articolo di Alessandro Stella, pubblicato su Lundimatin , che analizza criticamente l’uso del termine terrorismo . L'autore evidenzia come questa parola venga spesso impiegata per etichettare, screditare e criminalizzare gli oppositori politici, oltre che per legittimare interventi militari e guerre in diverse parti del mondo. Questa strategia comunicativa è trasversale e viene adottata tanto dai regimi democratici quanto da quelli autoritari. Torniamo così a puntare l’attenzione sulla Palestina, dove i riflettori sono nuovamente accesi: i bombardamenti sulla Striscia di Gaza continuano senza sosta, mentre circa 6.000 prigionieri palestinesi restano detenuti nelle carceri israeliane. Dal 7 ottobre 2023, quando i militanti di Hamas e di altri gruppi della resistenza palestinese hanno sfondato in vari punti i muri del ghetto-prigione a cielo aperto che li rinchiudeva da 17 anni, per poi colpire a morte 1200 israeliani tra militari e civili e rapirne 240, il mondo intero è chiamato a qualificare questi atti come terroristici. Chi non lo farebbe si renderebbe complice dei suddetti terroristi e sarebbe condannato al silenzio e all'infamia pubblica. È evidente che uccidere non solo soldati – ma anche altri uomini, donne e bambini – sia un'azione terroristica. Secondo il Larousse: «il terrorismo è un insieme di atti di violenza (attentati, prese di ostaggi, et cœtera) commessi da un'organizzazione per creare un clima di insicurezza, esercitare un ricatto su un governo o soddisfare un odio nei confronti di una comunità, di un paese, di un sistema». Il significato non ammette ambiguità: è ben più che fare paura, è inculcare terrore nell’altro, nel nemico designato. Seguendo questa definizione, è patente che le azioni commesse il 7 ottobre 2023 dalla Resistenza palestinese siano state azioni terroristiche. Allo stesso tempo, dovrebbe essere altrettanto ovvio qualificare i bombardamenti indiscriminati dell'esercito israeliano su Gaza, che – dalla fatidica data – hanno già ucciso e ferito almeno dieci volte più palestinesi, come atti terroristici. Distruggere con le bombe interi quartieri, seppellirne sotto le macerie gli abitanti, bombardare ospedali, scuole, luoghi di culto, affamare, privare d'acqua, spingere le popolazioni all'esodo, sono ovviamente atti terroristici.Allora perché tutti i media mainstream d'Europa e degli Stati Uniti riprendono e rimbalzano la distinzione posta dal governo israeliano e dai capi di Stato occidentali, parlando di «terrorismo di Hamas» e della «inevitabile risposta», della «legittima difesa di Israele», della «guerra Israele-Hamas»? Basterebbe volgere lo sguardo verso i paesi d'Africa, d'America Latina, d'Asia, dove non solo le popolazioni ma anche i loro leader rifiutano questa dicotomia semantica di parte. È che, dalla sua invenzione e utilizzo, la qualificazione di terrorismo ha servito a delegittimare e criminalizzare individui e gruppi di opposizione ai regimi in carica che hanno fatto ricorso alla violenza. Passando oltre l'etimologia del lemma, che lo farebbe risalire all'epoca giacobina – alla ghigliottina – al terrore esercitato dallo Stato francese post-rivoluzionario, «terrorista» è stato utilizzato in Europa per più di un secolo prima per designare gli anarchici regicidi, poi i resistenti ai nazisti e fascisti, poi i resistenti algerini e altri militanti dei movimenti anti-colonialisti, successivamente applicato ai militanti dell'ETA, dell'IRA, della RAF, delle Brigate Rosse, di Action Directe. Ma – ed è importante sottolinearlo in questo momento storico – anche per stigmatizzare gruppi sionisti (in particolare l'Irgoun, guidato da Menahem Begin dal 1944 al 1948) che combattevano contro il colonialismo britannico in Palestina. Poi contro i resistenti palestinesi alla colonizzazione sionista (Fatah e Yasser Arafat). La traiettoria, il destino di questi due uomini – Menahem Begin e Yasser Arafat – illustra compiutamente la questione del cosiddetto «terrorismo». Begin, il 22 luglio 1946, coordinò l'attentato dell'Irgoun contro l'hotel King David a Gerusalemme che causò 92 morti, tra cui 28 britannici, 41 arabi, 17 ebrei e 5 non censiti. Begin è stato anche considerato responsabile del massacro di Deir Yassin, il 9 aprile 1948, con un bilancio di oltre100 palestinesi nel villaggio prossimo a Gerusalemme. Impegnato nella guerra del 1967, divenne poi Primo ministro di Israele, negoziando gli accordi di pace con l'Egitto e, nel 1978, ricevette perciò il premio Nobel per la pace.Quanto a Yasser Arafat, dopo trent'anni di lotta contro lo Stato colonialista di Israele, dall'Egitto a Gaza, dalla Cisgiordania alla Giordania, dalla Siria al Libano, classificato come «terrorista» per decenni, ricevette anch'egli il premio Nobel per la pace nel 1994, insieme a Shimon Peres e Yitzhak Rabin, per gli accordi di Oslo. Allora? Fin dall'inizio «terrorismo» è sempre stato utilizzato dalle Istituzioni per designare, screditare, criminalizzare gli oppositori che – vessati, discriminati, esclusi, uccisi e imprigionati – hanno finito per imbracciare i fucili per difendersi. Ogni Stato ha costruito i propri terroristi per delegittimare i propri oppositori, per poterli annientare, per mantenersi al potere. La nazione turca ha designato così il PKK; la Siria le SDF e le YPG; la Russia i ribelli ceceni. Ancora, per la Cina lo sono i resistenti uiguri, per il Myanmar i resistenti rohingya, le FARC in Colombia, il Sendero Luminoso in Perù, il FPMR in Cile et cœtera. Lo Stato di Israele ne ha fatto una strategia sistemica – estensiva ed eccessiva – contro Fatah, FPLP, Hamas, la Jihad islamica. Fino a dichiarare – nell'ottobre 2021, sotto il governo di Naftali Bennett-Yaïr Lapid – «terroriste» sei ONG palestinesi a difesa dei diritti umani. È per ciò, con scandalo, che l'AFP ha tratto le conclusioni e recentemente dichiarato che: «L'uso della parola terrorista è estremamente politicizzato e sensibile. Molti governi qualificano di organizzazioni terroristiche i movimenti di resistenza o di opposizione nei propri paesi. Molti movimenti o personalità provenienti da una resistenza un tempo qualificata come terroristica sono stati riconosciuti dalla comunità internazionale e sono diventati attori centrali della vita politica del proprio paese. L'AFP non descrive gli autori di tali atti, passati o presenti, come “terroristi”. Ciò include gruppi come l'ETA, i Tigri di Liberazione dell'Eelam Tamil, le FARC, l'IRA, Al-Qaeda e i vari gruppi che hanno condotto attacchi in Europa nel secolo scorso, tra cui le Brigate Rosse, la Banda Baader Meinhof e Action Directe» [1]. n effetti, per poter parlare liberamente di terrorismo (un approccio in principio osteggiato nei nostri Stati di diritto, dove la libertà di espressione è suppostamente sacra e iscritta nella Costituzione) bisognerebbe rimuovere i segni “più” e “meno”, gli attributi “legale” e “illegale”, “istituzionale” e “non istituzionale”. Solo a queste condizioni si potrebbe allora guardare a tutti i massacri che hanno avuto luogo nella storia senza allinearsi sulla versione fornita dai poteri dominanti. Soprattutto, bisognerebbe poter parlare di terrorismo di Stato, ben più potente e mortale del terrorismo praticato dai suoi oppositori. Così potremmo leggere diversamente i massacri di massa di popolazioni civili, commessi da Stati e dalle loro armate in nome delle «imperiose necessità della guerra». Come, ad esempio, i bombardamenti delle città francesi – soprattutto in Bretagna e in Normandia – nel 1944-45 dall'aviazione anglo-americana, gli Alleati, per estromettere le truppe tedesche, causando nel contempo la morte di decine e decine di migliaia di civili francesi, vittime di «danni collaterali».«Fortemente colpito, il paese ha ricevuto il 22% del tonnellaggio di bombe sganciate dagli Alleati sull'Europa durante la guerra. Spesso maldestre, queste operazioni non hanno mancato di colpire i civili e edifici che non avevano nulla a che fare gli obiettivi dichiarati. È l'intero territorio francese a essere interessato. Oltre alle città portuali di Lorient o Brest, ad esempio, basi dei sottomarini tedeschi il cui attacco intensivo era atteso, molti altri centri urbani importanti del paese hanno subito una grande violenza. È il destino di città come Nantes, Caen, Le Havre e Marsiglia, per citarne solo alcune. Molte piccole municipalità sono state fortemente colpite, talvolta quasi completamente distrutte. I bombardamenti strategici effettuati dagli Alleati sono stati quindi un evento fondamentale della Seconda guerra mondiale per la Francia. Tuttavia, l'argomento sembra generalmente ignorato»[2]. Se partissimo dal principio umanitario che un morto è un morto, un ferito è un ferito, indipendentemente da chi l'ha provocato, dalla sua legittimità o legalità, bisognerebbe guardare allo stesso modo i massacri di civili commessi dai bombardamenti degli Alleati sulle città tedesche, Dresda e Berlino in particolare. Infine, si deve dire che le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki non sono state il ricorso obbligato della guerra per piegare il nemico giapponese, ma un mostruoso massacro della popolazione nipponica – tra 100 e 200.000 morti in un solo evento – per seminare terrore e costringerla alla capitolazione, gli Stati Uniti hanno senza dubbio commesso l'atto terroristico più mortale della storia. Che dire, infine, delle centinaia di migliaia di morti sotto le bombe in Iraq, in Afghanistan, in Siria, per combattere i terroristi e portare la «democrazia» tra i «barbari»? È che tutti questi massacri di massa commessi da Stati e dalle loro armate, infinitamente più mortali di tutte le azioni di guerriglia dei combattenti resistenti, sono rimasti e rimarranno impuniti. Perché considerati  – da questi stessi Stati – commessi in nome del diritto, della giustizia, della libertà. È inconcepibile incriminare e portare in giudizio dei «liberatori», come Churchill, Roosevelt, Truman, Bush, Blair, Obama, Sarkozy, Hollande. Mentre le prigioni di tutto il mondo sono piene di «terroristi» condannati a anni e anni di detenzione, o che aspettano un eventuale processo. È il caso in particolare di 6000 prigionieri politici rinchiusi nelle prigioni israeliane, ai quali si aggiungono 2500 altri palestinesi della Cisgiordania arrestati dal 7 ottobre scorso, a volte accusati di atti terroristici e più spesso incriminati di complicità o apologia del terrorismo. Per spaventare i resistenti, le loro famiglie e i loro amici, per impedire loro di continuare la lotta. Per imporre il silenzio e la sottomissione, il ricorso allo spettro del terrorismo appare la regola di tutti gli stati, siano essi definiti dittatoriali o democratici. Note [1] Cfr. il sito dell’AFP. [2] V. Bissonnette, « Une violence sous silence : le bombardement de la France par les Alliés », Cahiers d’histoire, vol. 36, numero 2, 2019, pp. 153–178.   Alessandro Stella  è stato membro di Potere operario e poi dell’Autonomia. Rifugiatosi in Francia all’inizio degli anni Ottanta, è oggi direttore di ricerca in Antropologia storica presso il CNRS e insegna all’EHESS di Parigi. Tra i suoi libri: La Révolte des Ciompi  (1993); Histoires d’esclaves dans la péninsule ibérique (2000); Amours et désamours à Cadix.

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    Scoraggiare ogni iniziativa, ogni attività umana Paolini Marco Sommariva ci porta ad esplorare un Primo Levi sconosciuto, diverso dal suo romanzo più conosciuto Se questo è un uomo. Quando pubblicava sotto lo pseudonimo Damiano Malabaila raccontava di mondi distopici. Raccontava di noi. Lo scrittore torinese Primo Levi è molto conosciuto per alcuni suoi romanzi – Se questo è un uomo, La tregua, Se non ora, quando? – molto meno, purtroppo, per i suoi racconti: quindici di questi sono stati scritti nell’arco di vent’anni (1946-1966) e raccolti nel volume Storie naturali, pubblicato sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila, cognome che in piemontese significa «cattiva balia». In questi scritti si trova di tutto, anche l’anticipazione di un avvenire non sempre rasserenante.  Mentre oggi ci troviamo a fare i conti con romanzi scritti dall’intelligenza artificiale, in questo libro Primo Levi già ci raccontava di poesie che sarebbero state prodotte, a breve, da un macchinario capace di scriverle in tutte le lingue europee vive o morte: «Se lei cerca un poeta meccanico vero e proprio, dovrà aspettare ancora qualche mese: è in fase di avanzata progettazione presso la nostra casa madre, a Fort Kiddiwanee, Oklahoma. Si chiamerà The Troubadour, <>: una macchina fantastica, un poeta meccanico heavy-duty, capace di comporre in tutte le lingue europee vive o morte, capace di poetare ininterrottamente per mille cartelle, da -100° a +200° centigradi, in qualunque clima, e perfino sott’acqua e nel vuoto spinto. […] È previsto il suo impiego nel progetto Apollo: sarà il primo a cantare le solitudini lunari». Mentre oggi qualcuno si sorprende nel leggere che è in atto un boom di richieste per l’ibernazione post-mortem, lo scrittore torinese ci raccontava di persone congelate e scongelate alla bisogna, in quel di Berlino nell’anno 2115: «[…] Patricia ha 163 anni, di cui 23 di vita normale, e 140 di ibernazione. Ma scusatemi, Ilse e Baldur, credevo che conosceste già questa storia. Scusatemi anche voi, Maria e Robert, se ripeto cose che già sapete: cercherò di mettere al corrente in breve questi cari ragazzi. Dunque dovete sapere che la tecnica dell’ibernazione fu messa a punto verso la metà del XX secolo, essenzialmente a scopo clinico e chirurgico. Ma solo nel 1970 si arrivò a congelamenti veramente innocui e indolori, e quindi adatti a conservare a lungo gli organismi superiori. Un sogno diveniva così realtà: appariva possibile «spedire» un uomo nel futuro. Ma a quale distanza nel futuro? Esistevano dei limiti? E a quale prezzo? Appunto per istituire un controllo a uso dei posteri, che saremmo poi noi, fu bandito nel 1975, qui a Berlino, un concorso per volontari. […] E Patricia è uno di questi […]. A quanto risulta dal suo libretto personale, che sta nel frigo con lei, è anzi stata la prima classificata. Possedeva tutti i requisiti, cuore, polmoni, reni ecc. in perfetto ordine; un sistema nervoso da pilota spaziale; un carattere imperturbabile e risoluto, una emotività limitata, e infine una buona cultura e intelligenza. Non che la cultura e l’intelligenza siano indispensabili per sopportare la ibernazione, ma, a parità di condizioni, furono preferiti soggetti di alto livello intellettuale, per evidenti ragioni di prestigio nei confronti nostri e dei nostri successori». E ancora… nel 2018 una rivista americana ha pubblicato un articolo intitolato «Anche se l’intelligenza artificiale potesse curare la solitudine dovrebbe farlo?», e la domanda nasceva dal fatto che già si riconosceva ai sistemi intelligenti la capacità potenziale di far compagnia alle persone, che già esistevano intelligenze artificiali capaci d’imparare dai comportamenti degli esseri umani e di adeguare le proprie risposte a quelle che l’utilizzatore preferisce. Bene, anche in questo caso, circa il sentirsi dare ragione da un circuito stampato, ne aveva già scritto Levi: «Ho già preparato una bozza del volantino pubblicitario che vorrei diffondere per le prossime feste […]. Una volta che la moda sia lanciata, chi non regalerà a sua moglie (o a suo marito) un Calometro tarato su una sua fotografia? Vedrà, saranno pochi a resistere alla lusinga del K 100: ricordi la strega di Biancaneve. A tutti piace sentirsi lodare e sentirsi dare ragione, anche se soltanto da uno specchio o da un circuito stampato». Per non parlare di come lo scrittore torinese sia stato capace di anticipare uno dei fenomeni più allarmanti dei nostri giorni, ossia la facilità di tarare l’uomo medio facendogli credere ciò che si vuole, compreso che un certo partito è il solo depositario della verità: «Ho insistito su quello che ritengo il fenomeno più allarmante della civiltà d’oggi, e cioè che anche l’uomo medio, oggi, si può tarare nei modi più incredibili: gli si può far credere che sono belli i mobili svedesi e i fiori di plastica, e solo quelli; gli individui biondi, alti e con gli occhi azzurri, e solo quelli; che è solo buono un certo dentifricio, solo abile un certo chirurgo, solo depositario della verità un certo partito […]». Fra le varie anticipazioni di Primo Levi c’è anche quella letta ultimamente sui giornali, la possibilità di confessarsi senza la reale presenza di un prete; oggi è l’intelligenza artificiale a entrare in un confessionale, così com’è successo a Lucerna dove un ologramma di Gesù consente ai fedeli di confessarsi virtualmente, in un racconto di Storie naturali è un confessore portatile approvato dalla Chiesa a risolvere il problema: «Mi aveva […] telefonato verso Ferragosto, per chiedermi se mi interessava un Turboconfessore: un modello portatile, rapido, assai richiesto in America e approvato dal cardinale Spellman». Infine, l’ennesimo colpo di genio: il casco da indossare per catapultarsi in qualsiasi realtà virtuale dove ogni desiderio verrà assecondato lasciandoti comodamente chiuso in camera tua. Leggete questo dialogo: «Col Torec, concluse Simpson, uno è a posto. Lei comprende: qualunque sensazione uno desideri procurarsi, non ha che da scegliere il nastro. Vuole fare una crociera alle Antille? O scalare il Cervino? O girare per un’ora intorno alla terra, con l’assenza di gravità e tutto? O essere il sergente Abel F. Cooper, e sterminare una banda di Vietcong? Ebbene, lei si chiude in camera, infila il casco, si rilassa e lascia fare a lui, al Torec».  Rimasi in silenzio per qualche istante, mentre Simpson mi osservava attraverso gli occhiali con curiosità benevola. «Lei mi sembra perplesso,» disse poi. «Mi pare» risposi, «che questo Torec sia uno strumento definitivo. Uno strumento di sovversione, voglio dire: nessun’altra macchina della NATCA, anzi, nessuna macchina che mai sia stata inventata, racchiude in sé altrettanta minaccia per le nostre abitudini e per il nostro assetto sociale. Scoraggerà ogni iniziativa, anzi, ogni attività umana: sarà l’ultimo grande passo, dopo gli spettacoli di massa e le comunicazioni di massa. A casa nostra, per esempio, da quando abbiamo comperato il televisore, mio figlio gli sta davanti per ore, senza più giocare, abbacinato come le lepri dai fari delle auto. Io no, io vado via: però mi costa sforzo. Ma chi avrà la forza di volontà di sottrarsi a uno spettacolo Torec? Mi sembra assai più pericoloso di qualsiasi droga: chi lavorerebbe più? Chi si curerebbe ancora della famiglia?». A parer mio, Primo Levi aveva visto lontano: «scoraggerà ogni iniziativa», «[scoraggerà] ogni attività umana», «mi sembra assai più pericoloso di qualsiasi droga». Non conoscete nessuno affetto da una di queste tre «sindromi», se non addirittura da tutte e tre? E proprio perché di droga si tratta, è perduto chi ne fa uso e anche chi vorrebbe smettere di utilizzarla: «[…] Simpson non prova noia durante la fruizione, ma è oppresso da una noia vasta come il mare, pesante come il mondo, quando il nastro finisce: allora non gli resta che infilarne un altro. È passato dalle due ore quotidiane che si era prefisso, a cinque, poi a dieci, adesso a diciotto o venti: senza Torec sarebbe perduto, col Torec è perduto ugualmente. In sei mesi è invecchiato di vent’anni, è l’ombra di se stesso. […] S’avvia verso la morte, lo sa e non la teme: l’ha già sperimentata sei volte, in sei versioni diverse, registrate su sei dei nastri dalla fascia nera». Nel risvolto della prima edizione Einaudi del 1966 di Storie naturali, fra le altre cose, leggiamo che «I quindici “divertimenti” che compongono questo libro ci invitano a trasferirci in un futuro sempre più sospinto dalla molla frenetica del progresso tecnologico, e quindi teatro di esperimenti inquietanti o utopistici, in cui agiscono macchine straordinarie e imprevedibili. Eppure non è sufficiente classificare queste pagine sotto l’etichetta della fantascienza». Nella prefazione di Se questo è un uomo pubblicata nel ’47, Primo Levi ha scritto: «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, […], allora, al termine della catena, sta il Lager». Cosa c’entrano adesso il risvolto del ’66 e la prefazione del ’47? Forse solo a dimostrare a certi agenti letterari sempre intenti ad appiattire ogni battito di penna, che non è vero che un autore debba scrivere sempre con identico stile e per lo stesso genere – «se scrivi gialli non puoi scrivere di Resistenza, e viceversa» – perché, sappiatelo, questo è quanto ci si sente dire negli uffici di tali signori, gli unici autorizzati a presentare un tuo dattiloscritto alle grandi case editrici. Diversamente, ce lo meritiamo che un’intelligenza artificiale ci sostituisca: è un attimo risultare più brillanti di determinati plot consolidati – pensa te! – e «suggeriti» da certi agenti letterari. E se fosse proprio il progresso tecnologico un’infezione latente che ogni tanto si manifesta e a cui spianiamo la strada? E se gli atti saltuari e incoordinati con cui ogni tanto si manifesta, fossero gli esperimenti inquietanti a cui il Potere ci sottopone quotidianamente? E se alla fine di tutto questo ci attendesse il lager? E se il Potere si fosse evoluto e affinato a tal punto da essere già riuscito a rinchiuderci in un lager senza che noi, distratti da una realtà virtuale e ammansiti da un circuito stampato che ci dà sempre ragione, ce ne rendessimo conto? Di un’altra interessante raccolta di racconti di Primo Levi, Vizio di forma, ve ne parlerò un’altra volta. Marco Sommariva (Genova 1963) è autore di numerosi romanzi e testi di critica letteraria. www.marcosommariva.com

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    La rivista DeriveApprodi [2] Vent’anni dopo la nascita della rivista, alcuni di coloro che contribuirono ad animarla scrissero di quella loro esperienza. Ne diamo conto di seguito al testo dell’editoriale. Una rivista di «vela» Mauro Trotta È possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente». Queste parole erano scritte sulla copertina del numero Zero della rivista «DeriveApprodi». Era il 1992 e in effetti stavano accadendo tante cose. In Italia crollava la Prima Repubblica e un movimento di lotta si affermava di nuovo nelle università con la Pantera. Fuori, era caduto il Muro di Berlino e, con esso, il cosiddetto «socialismo reale», iniziavano le guerre in Jugoslavia, c’era stata la prima guerra in Iraq, si discettava sul Nuovo ordine mondiale che si andava formando. C’era qualcuno che addirittura teorizzava la fine della Storia. E poi, erano finiti gli anni Ottanta, «gli anni di merda» come li definì Nanni Balestrini in una poesia letta in occasione della prima presentazione della rivista e pubblicata sul numero 1. «DeriveApprodi» è nata allora da un incontro: qualche tempo prima avevo conosciuto Sergio Bianchi che si era appena trasferito a Roma. Ci trovammo subito in sintonia, diventando amici veri, fratelli praticamente. Insieme entrammo a far parte di «Luogo comune», una splendida rivista, realizzata da un gruppo redazionale molto coeso, capace davvero di gettare uno sguardo lucido e critico sugli argomenti e i temi trattati. Ci si riuniva per discutere del numero in cantiere, tutti leggevano ogni contributo, ogni articolo, si decideva collettivamente. Tutto questo, però, aveva un prezzo: la periodicità. Non si riusciva a uscire in libreria con scadenze più o meno regolari.Con Sergio pensammo di metter su qualcosa di diverso. Una rivista di pensiero critico che però non nascesse dal lavoro di una redazione strutturata, ma rappresentasse, come scrivemmo nel primo editoriale «un punto di incontro di alcune derive esistenziali e di alcuni percorsi di ricerca, un contributo affinché nuove scoperte maturino, altre avventure comincino». Una rivista aperta a contributi differenti, di cui saremmo stati responsabili Sergio e io. Una rivista naturalmente autoprodotta – grazie agli abbonamenti preventivi che sottoscrissero parenti e amici e grazie al grande aiuto in questo senso, e non solo, dei compagni di Tradate – che sarebbe uscita tre quattro volte all’anno. Con un altro amico e compagno, che ora purtroppo non c’è più, Paolo Minervini, eravamo i proprietari della testata.Iniziò così il percorso di «DeriveApprodi», che vide coinvolti già nella preparazione del numero 0 tanti amici e compagni. Da Nanni Balestrini, che ci aiutò anche a correggere le bozze di quel numero, a Bifo, da Primo Moroni ai compagni di «Luogo Comune» (Paolo Virno, Giorgio Agamben, Lucio Castellano, Benedetto Vecchi, Lanfranco Caminiti, Andrea Colombo, Marco Bascetta ecc.), a molti altri ancora. Discutemmo del nostro progetto, ricevemmo aiuti, suggerimenti, contributi. Il progetto iniziava a prendere forma.Sergio, che trovò anche il nome DeriveApprodi, e io individuammo i temi generali di cui si sarebbe dovuta occupare la rivista: le trasformazioni nella struttura del lavoro, l’emergere di nuovi soggetti legati alla produzione immateriale, crisi della sovranità e della rappresentanza, la centralità della comunicazione e dell’informazione.Volevamo che anche l’aspetto grafico di «DeriveApprodi» fosse fortemente innovativo e, da questo punto di vista, fu decisivo il contributo di un formidabile grafico che si unì all’impresa: Massimo Kunstler, il quale disegnò la testata, creò le gabbie, realizzò le copertine, insieme a noi (in genere di notte) impaginò la rivista. Trovammo poi la tipografia grazie a Giorgino Boldrin, il distributore (Joo) e un amico giornalista che assumesse la direzione, Antonello Grassi. Così, vent’anni fa partiva l’avventura di «DeriveApprodi», che nel corso degli anni avrebbe vissuto cambiamenti e trasformazioni, sarebbe diventata casa editrice, avrebbe coinvolto tanti altri, a iniziare da Ilaria Bussoni, vera colonna portante sia della rivista (fin quando è uscita) sia della casa editrice. E oggi quella rivista, che fu scambiata da un libraio a cui portai delle copie per un giornale di vela, celebra il ventennale. E il fatto strano è che gran parte dei testi pubblicati nei suoi venticinque numeri mi sembrano ancora attuali. Così come quella frase stampata sulla copertina del numero Zero. Forse, ancora una volta «è possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente». Instabile/possibile Rossana De Simone Alla fine degli anni Ottanta Varese aveva seppellito un ciclo storico iniziato con l’insurrezione delle classi operaie provocate dall’avvento del fascismo, «la città giardino», che Benito Mussolini aveva elevato a capoluogo di provincia con l’ambizione di «italianizzare» il Canton Ticino, era passata dal fascismo al razzismo della Lega. «Abbasso lo Stato e viva l’individuo sociale e il privato» gridava Bossi, tutto poteva essere usato come grimaldello per scardinare il sistema, bisognava legittimarsi e delegittimare perché solo «quando tutti i meccanismi saranno sfasati si dovranno prendere decisioni» avvertiva Miglio.Varese è una città che aveva visto uccidere focolai di socializzazione sovversiva e una volta rimasta senza più un residuo di socialità urbana era tornata a cullarsi nella cultura del narcisismo. Una cultura che pensava di trovare le sue radici nell’ordine della sua piazza principale, piazza Monte Grappa, dove l’architettura fascista ha lasciato un fortissimo segno. Gli anni Novanta cominciavano qui come altrove con lo spazio pubblico interamente occupato dagli organi dei media e della comunicazione, capaci di penetrare stati d’animo che riflettevano l’esaltazione dell’individualismo e della proprietà privata con la diffusione di micro-imprese decentrate dalle medie e grandi fabbriche. È in questo periodo di fuga dell’individuo dal sociale e di disillusioni collettive, che eventi come il crollo del Muro di Berlino, piazza Tien An Men in Cina e il movimento della Pantera nelle università italiane, facevano presupporre che si poteva e doveva voltare pagina, ed è in questa atmosfera che la rivista «DeriveApprodi» mi arriva fra le mani. Un incontro felice non solo perché come si leggeva nella copertina del numero zero era «possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente», ma perché il tempo tornava a suscitare emozioni, la voglia di nuove relazioni affettive e, prima ancora che un sentire comune, un agire comune, rispondeva alla necessità di intercettare nuovi linguaggi  che incorporavano l’aspetto immateriale della produzione. Da questo punto di vista «DeriveApprodi» dava voce a interpretazioni diverse provenienti dal corpo sociale produttivo che sperimentava e alimentava l’economia della conoscenza attraverso dinamiche centrifughe e centripete, movimentando il territorio urbano non come ferraglia pensante ma come insubordinati capaci di una autonoma produzione del comune. Elementi chiave di un nuovo progetto costituente non potevano che essere gli intellettuali francesi Deleuze-Guattari. Foucault da coniugare con il pensiero post-coloniale e la riscoperta di Frantz Fanon. Ma poi come non riconoscere che solo il partire da sé del pensiero femminista potesse captare i mutamenti nella percezione del corpo, la sua indisponibilità all’identità unitaria, i tentativi di assoggettamento da parte delle relazioni di potere? Non ancora risolto il problema del rapporto capitale-lavoro e/o capitale-vita risultato della finanziarizzazione dell’economia, che già le frontiere indebolite dallo sgretolamento degli Stati, imponevano l’argomento dello spettacolo mediatico del naufragio, delle migrazioni vissute troppo spesso come avvelenamento di una convivenza sociale già distrutta dalla frammentazione.Viceversa era necessario ci fosse un approdo al naufragio possibile di tutti poiché è la vita di ognuno a rischio di instabilità. Quell’instabilità che provocava le rivolte nei quartieri urbani di grandi metropoli, espresse con  violenza da giovani che si rifiutavano di riprodurre il modello di genitori supersfruttati e maltrattati, rivolte che poco si conciliavano con quelle degli intermittenti precari, dell’intellettualità collettiva esposta come altre alla crisi di un sistema in via di decomposizione. Sarà la nuova guerra al terrorismo a svelare la simbiosi tra multinazionali e politici statunitensi, a far emergere i retroscena della deregulation e del sistema dei fondi pensione di quella «nuova economia» degli anni Novanta che si era presentata come la più democratica ma che aveva preso in ostaggio i lavoratori e le loro pensioni. Quando il potere diviene immateriale la rete, sistema nervoso attraverso il quale circola l’informazione, diventa modello organizzativo, ma quando la capacità di dissuasione del potere, e il modello di diplomazia coercitiva  mostra la sua inefficacia, arriva il ricorso della forza come accaduto in Iraq o a Genova. I numeri della rivista sui movimenti d’Europa e negli Stati Uniti, Canada e Australia sono piccoli capolavori. Freddi, forse un po’ troppo fitti, ma esuberanti. Quell’esuberanza che si stempera nella malinconia dell’ultimo numero, quello della fine. La malinconia è una passione che rimane costantemente incostante, creatrice perché capace di trasformarsi, di divenire altro. Il tempo, è certo, ha subito una accelerazione. Personalmente ho salutato con simpatia e un sospiro di sollievo la svolta effettuata dalla casa editrice che aveva deciso, più o meno con l’accordo da parte di tutti coloro che la arricchivano, di cessare l’uscita periodica della rivista. Un diverso approccio ai movimenti era cominciato, più riflessivo, di ricongiunzione della memoria che solo i libri possono offrire, senza dimenticare che il tempo, appunto, impone nuove sfide. Ma con quel coso lì che robe si possono fare? Massimo Kunstler Mi vedevo spesso con Sergio, abitavamo talmente vicino che a piedi ci voleva un minuto. Avevo già sentito parlare di lui, ma ci siamo incontrati solo per caso verso la fine degli anni ’80. Sergio condivideva un appartamento con dei miei carissimi amici a Roma. Era il tipo di persona che mancava da tanto nel mio allora esagerato giro di conoscenze, fatto di esagerate frequentazioni e pochi veri amici. Dopo oltre un decennio avevo ritrovato qualcuno con cui poter comunicare, ed essere accettato, per il visionario che ero, al di fuori dei canoni dell’allora imperante edonismo reaganiano, detto tanto per intenderci.Avevo trovato un compagno di merende – forse più di apertivi e cucina. Si parlava con il buon Sergio. Parlavamo in continuazione. Non di ricordi e vecchi tempi, ma di cosa fare. Ora. Passava spesso a trovarmi a fine giornata. A volte mi trovava ancora affaccendato sul mio Mac. Guardava, annusava, pensava. Poi, stappata una bottiglia di buon vino, si decideva il menu della serata e si cominciava a parlare mentre si cucinava.  Nel corso del tempo, a tante merende, aperitivi, cene e ottime bottiglie di rosso – quasi sempre rosso, perché le cene erano belle corpose – e tantissime parole, chiacchiere e conversazioni seguirono altrettante merende, aperitivi e cene con parole, chiacchiere e conversazioni, ma vini anche bianchi.Intanto il Bianchi (Sergio) continuava a guardare il mio Mac, annusando e pensando. Fino a quando, una sera, smette di guardare il Mac e guarda me…  Ascolta… – dice – ma con quel coso lì che robe si possono fare? Avevo già capito tutto da un bel po’, sapevo dove andava a parare. Di lì a poco uscì il numero zero di DeriveApprodi, della cui veste grafica, Sergio e il sottoscritto, siamo certamente gli unici irresponsabili. Ben scavato vecchia talpa! Franco Berardi (Bifo) Cominciammo a pubblicare questa rivista all’inizio degli anni Novanta per riprendere il filo di una ricerca che nel decennio precedente si era ingarbugliato e perso nelle carceri speciali in cui il potere aveva rinchiuso centinaia di intellettuali. Volevamo riprendere il filo della ricerca autonoma: autonomia della società dal capitale, autonomia del sapere dalla legge del profitto, autonomia della mente e del cuore dall’economia. Gli anni Novanta sono stati un decennio di straordinaria intensità. Crollato il regime statalista autoritario che aveva abusato del nome di comunismo, l’evoluzione del capitalismo conobbe una svolta straordinaria, che prese nome di globalizzazione. L’intelligenza tecno scientifica, sposata alla creatività e sospinta da intensi flussi di capitale dedicati alla ricerca, dispiegò le tecnologie di teletrasmissione simultanea dell’informazione digitale. Questo rese possibile una nuova forma di sfruttamento deterritorializzato del lavoro, e permise di allargare enormemente il mercato del lavoro, togliendo forza di contrattazione al lavoro operaio occidentale. Un arricchimento straordinario e un impoverimento senza precedenti furono resi possibili, nel tempo, da questa nuova condizione. La conoscenza ampliata senza più limiti spaziali, da una parte. Il lavoro precarizzato, frammentato, ridotto in servitù, dall’altra parte. Il pensiero sociale si trovò di fronte a una situazione difficile da interpretare secondo le categorie ereditate dal ventesimo secolo. Occorreva qualcuno che cercasse di collocarsi a questo livello. DeriveApprodi nacque per provarci.Rifiutammo di farci nostalgici difensori della composizione sociale del passato, e delle sue forme di identità e di ideologia. Rifiutammo la nostalgia del comunismo storico. Ma nel far questo ci guardammo bene dal credere nelle illusioni della new economy, che prometteva un’espansione infinta sul piano economico e una nuova felicità nella competizione generalizzata. Cominciammo a studiare le forme emergenti della precarietà e del lavoro cognitivo in rete. Cercammo di affrontare la questione migrante dal punto di vista delle culture post-coloniali e dal punto di vista della composizione del lavoro. La rivista ebbe fin dall’inizio un pubblico per lo più giovane, intelligente, smaliziato. Il pubblico che veniva fuori dal movimento della Pantera, che nel 1990 aveva posto con chiarezza preveggente il problema dell’autonomia della ricerca, e aveva individuato la tendenza pericolosa della politica (di destra e di sinistra) a considerare il campo della conoscenza e della ricerca come un campo riducibile al mercato, alla competizione economica, alla crescita infinita. La rivista non si lasciò catturare dalla nostalgia degli anni Settanta, ma non accettò il cinismo che dominava nella chiacchiera intellettuale. E alla fine incontrò il movimento che dava forma soggettiva di massa alle intuizioni complesse che avevamo cercato di elaborare. Quando esplose l’insurrezione di Seattle, nel novembre del 1999, ci venne voglia di dire: ben scavato vecchia talpa!Il movimento cosiddetto no global, che in realtà era un movimento di critica e trasformazione interna alle forme della globalità culturale e tecnica, tentò di rendere possibile una via d’uscita progressiva, egualitaria, umana, dall’agonia del moderno. Quel movimento riuscì a diffondere una consapevolezza ampia del carattere non naturale, non inevitabile del capitalismo, e riuscì perfino a far comprendere che la globalità della rete poteva funzionare come fattore di liberazione e di autorganizzazione autonoma della ricerca. Ma non riuscì a consolidare quella consapevolezza in istituzioni del sapere e dell’agire solidale, perché la guerra ripiombò sul mondo, dopo l’11 settembre del 2001, e iniziò il processo di smantellamento e sottomissione dell’intelletto generale. Da meno vecchi a più giovani Pino Tripodi Quando vent’anni fa nasce DeriveApprodi eravamo anagraficamente meno vecchi. Convivevano più nidiate sovversive in quell’avventura. I ventenni con le unghie già graffianti del movimento della Pantera, i trentacinquenni sempre più autonomi del movimento 77 e qualche decano delle storie precedenti. Convivevano tutti nel pentolone messo assieme per forza ciclopica dalla cocciuta volontà del Bianchi recalcitrando non poco, però. Ché pochi esclusi – il Sergio, l’io, il Bifo… – avevano doppia tessera in tasca. Quella tosta dell’identità – il simulacro di un’antica forma partito, l’icona di un qualche collettivo politico o centro sociale, la parentela stretta con qualche sparuta micro organizzazione – e quella spuria di DeriveApprodi, una specie di amante disinibita tenuta come carta jolly per fare le porcate che in famiglia non è lecito fare.Con le armate di volta in volta cangianti, si confezionava la rivista (e poi i libri della casa editrice, nelle intenzioni e fors’anche nella realtà una rivista all’ennesima potenza) DeriveApprodi, la più importante assemblea di Movimento prodotta in Italia negli ultimi vent’anni.Chi volesse conoscere le posizioni di una delle tante anime del Movimento italiano può rivolgersi alla relativa parrocchia – se per pura sventura sopravvive ancora; chi invece desiderasse cogliere con uno sguardo il panorama di tutto il Movimento e seguirne le storie, le relazioni, le differenze ontologiche come quelle di lana caprina non può che rivolgersi a DeriveApprodi. Ghigno della storia: DeriveApprodi, per quel carattere di contenitore-assemblea che l’ha contraddistinta, è sempre stata accusata di confusione mentre appare oggi come un elemento di chiarezza. Come ogni assemblea, DeriveApprodi è stata contemporaneamente rappresentazione – ovvero petulante litania delle posizioni, delle identità e delle rappresentanze costituite – ed espressione, ovvero puntellato universo mai sintetizzabile di teoria politica, di discorsività, di pratica sociale. Nel suo nome, DeriveApprodi ha indicata la sua programmatica e sublime condanna: luogo di derive, impossibile e inconosciuto luogo di approdo. Sbrindellato ma preciso e ben orientato legno di naufragio, festoso e desiderante, per tutte le derive singolari e collettive dei movimenti che furono, e assenza genetica e congenita di ogni possibile approdo. Ai movimenti è dato solo di naufragare, sempre, ai suoi becchini – le organizzazioni – può esser dato di approdare, solo. Sull’antagonismo tra movimenti e organizzazioni, sull’insopportabilità di ogni aspetto identitario, sul bigottismo coglione di ogni appartenenza si è costruita l’etica e l’estetica di DeriveApprodi. I pezzi migliori della collezione DeriveApprodi sono infatti quelli da cui emerge ciò, non a caso i medesimi nei quali si dà un cortese vaffa alla zavorra – e alle medaglie – del nostro passato. DeriveApprodi è stata una freccia bidirezionale con il cuore – grande, troppo grande – rivolto al passato e la mente – piccola, troppo piccola come lo è sempre la nostra mente – rivolta al futuro. Vent’anni dopo si assiepano alle nostre porte nuovi ventenni che ci chiedono del passato. È un indizio preciso che i loro movimenti non avranno futuro.Vent’anni dopo si assiepano alle nostre porte nuovi ventenni che ci chiedono del passato. È un indizio preciso che i loro movimenti non avranno futuro. Vent’anni dopo molti di noi hanno superato l’età oltre la quale è una vergogna vivere. Come noi ci siamo lanciati in una ribellione totale verso le sragioni del nostro tempo, così oggi i nostri corpi si vendicano di noi con le medesime modalità di quel giudice che accoglieva nel suo ufficio inquisitorio gli autonomi con il manifesto dell’Autonomia su cui era scritto: Pagherete caro, Pagherete tutto. A questa età rivolgere la mente al proprio passato è un’idiozia su cui possono allignare solo rancore, nostalgia, boria, altri sentimenti tipici di reduci e combattenti. L’unica possibilità per sopportare la vergogna del vivere è quella indicata da Andrea Pazienza che spero di citare con buona memoria: “Chi aveva vent’anni nel 77 ne ha diciotto vent’anni dopo”. Vent’anni fa eravamo meno vecchi, ora siamo più giovani. Non diamo vanto al progressivo rincoglionimento dei corpi – e del passato –  siamo legno – sempre più marginale e sempre più discreto – per continuare a naufragare in un mondo nel quale tutti gli approdi che abbiamo conosciuto – paradigmi e organizzazioni, stati e sistemi di rappresentanza –  dopo il trionfo dei decenni scorsi, vanno implodendo seppelliti – ironia della storia – non, come avremmo voluto, dalla forza dei movimenti ma dalla propria inconsistenza e miseria. Quando uscì il numero 25, l’ultimo di DeriveApprodi, la prima di copertina aveva una grande x come a dire: basta, chiuso, è finita un’epoca. Oltre il lutto, nella quarta di copertina, mister White pose, dopo averci spaccato i maroni per anni, la festa, ovvero il programma politico del divenire che recitava: freccia tenda cammello. In quel deserto in cui il lutto e la festa si impastavano senza riuscire a coniugarsi provai a scrivere Diario del domani sul potere destituente.Anni dopo non so se c’è ancora qualche freccia nel nostro arco, di certo continuiamo a pensare – un po’ con ironia, un po’ con trattenuta rabbia – cose forse troppo stravaganti o forse troppo folli, cose obbiettivamente fuori dal tempo come cani che abbaiano alla luna non perché attendano dalla luna una conferma. Solo perché avendo scelto di non guidare mandrie, né di star dietro a qualche fottuto carro, la solitudine del cane ci tocca come ci tocca la luna che sola come noi, fa flebile luce ma ci riscalda tanto i cuori. Codici miniati e prediche ai passeri Lanfranco Caminiti Vent’anni fa stavamo attraversando il deserto. Non eravamo diretti verso la terra promessa, quella, semmai, era alle nostre spalle. Il deserto era tutt’intorno a noi, era abitato, sovrappopolato. Una civiltà era andata distrutta, una nuova specie umana emergeva dalle sue rovine, ma noi non riuscivamo a riconoscerne i volti, i corpi: tutto levigato, senza tracce né memoria. Solo noi eravamo pieni di cicatrici. Ma non ci eravamo salvati, eravamo i sommersi. Era successo troppo.Gli anni Ottanta erano stati l’apoteosi delle ideologie liberiste: il thatcherismo e il reaganismo avevano trionfato. In breve: la società non esiste, ci sono solo gli individui; i ricchi sono l’élite sociale e quelli che trainano, spendono e investono, e non vanno certo penalizzati, tassati, ma lasciati liberi di muoversi senza regole, lacci e lacciuoli; la collettività, lo Stato non può farsi carico di chi rimane indietro, ci penserà il mercato, e la disoccupazione e la povertà sono comunque endemiche; ci saranno opportunità e possibilità di arricchimento per tutti, se riusciamo a toglierci di dosso l’eredità di diritti e normative sul lavoro che pesano parassitariamente sulla mobilità del capitale e quindi sullo sviluppo. Questo era successo negli anni Ottanta, gli anni del ritorno dell’ideologia come arma letale, arma di distruzione di massa. L’occidente non può mettere ordine nel mondo, se non mette ordine in casa propria. E il socialismo aveva dimostrato il suo fallimento in termini di utilità e razionalità: aveva preteso di offrire più sicurezze e meno sperperi, invece non funzionava, nonostante un’oppressione bestiale. Aveva dimostrato anche la sua irriformabilità; era condannato a ripetersi sempre uguale (disfunzionalità e oppressione: le disfunzionalità erano sempre colpa di un qualche permissivismo che andava spazzato via). Non c’erano alternative, solo il default. Il 1989 era stato il default del comunismo reale: a Mosca come a Pechino. Un default insanguinato. Ora scoppiavano le crisi a catena dentro il suo mondo, la Jugoslavia, anzitutto, la Cecenia, la Georgia. Una doppia crisi – quella dello sviluppo e quella del progresso –, scoppiata negli anni Settanta e che investe contemporaneamente il capitalismo e il socialismo, cerca una risposta nell’azzeramento della storia. La storia finiva perché ricominciava all’indietro.Insomma, era stato il tempo delle nuove e vecchie geo-ideologie: l’occidente era tornato ai fondamentali del mercato, l’utile, l’interesse individuale; e, prendeva consistenza, si espandeva l’ideologia della religione come guida politica, dopo la rivoluzione khomeinista: l’islam riscopriva il Corano – e le sue versioni – come interpretazione politica del mondo, come nuova soggettività storica. La Cina, come il Brasile, come l’India, possono profittare di questa crisi.Quella che era rimasta stritolata era l’ideologia sociale, il comunismo, la geo-ideologia dell’est europeo e asiatico, del Terzo mondo, dei paesi emergenti. Qui la storia finiva in un vicolo cieco.Gli anni Novanta si trovano in questo passaggio. Ed è qui che prende corpo il clintonismo. Il clintonismo non c’entra niente con l’esperienza europea della socialdemocrazia, del riformismo laburista: questi dovevano far fronte all’incombenza del socialismo, quello sta dentro la crisi del capitalismo.Il clintonismo (e Blair, Prodi, Schroeder, fino a Zapatero) è l’idea di poter governare il passaggio, di poter pragmaticamente fare fronte a quella crisi degli anni Settanta, la crisi del capitale: scarsa produzione, scarsa occupazione. E di poter acconciare in modo meno traumatico la svolta liberista. Il clintonismo è speculare alla svolta cinese, l’idea di poter accomodare la fine del socialismo in modo meno traumatico da quello sovietico. Era questo il deserto. Alla fine degli anni Ottanta, ci ritroviamo nel deserto delle idee in occidente.Nella teorizzazione della fine delle idee. Il conflitto si sposta dal lavoro (che ha subìto la più grande ristrutturazione dall’introduzione ottocentesca delle macchine) e diventa questione marginale: la riduzione del lavoro diventa riduzione della sua soggettività politica; un andamento ciclico. Mentre l’attenzione torna tutta sulla geo-politica, sulla forza, sulla guerra e sulla pace. Anche il capitale si sposta dal conflitto – non solo con il lavoro ma anche con le nuove tecnologie – arrivando sulla finanza. La finanza è ancora appartata, poco visibile. Ma è qui che si gioca la globalizzazione. È qui, e non sulla mobilità delle merci o del lavoro – che già c’erano state nella commercializzazione mondiale dell’impero britannico e nelle nazioni-impero – la differenza sostanziale.Il pensiero politico italiano è il più attrezzato di tutti. Dicono dipenda da una lunga tradizione. Io credo piuttosto dipenda solo dalla straordinaria contingenza degli anni Settanta. Come Lenin riuscì a trasformare un paese industrialmente arretrato – dove mai avrebbe dovuto esserci l’affermazione del proletariato industriale – nell’officina del bolscevismo, nel posto più avanzato della sperimentazione sociale di un ordine nuovo, così l’onda lunga del biennio ’68-69, fino al Settantasette, aveva trasformato il paese più cattolico del mondo nel posto della legislazione più avanzata in termini di divorzio e aborto, e di una tolleranza culturale e sessuale inimmaginabile altrove, il paese con il più forte partito comunista occidentale nel posto dove la critica ai suoi princìpi, ai suoi riferimenti, alle sue politiche era di massa ed era libertaria non reazionaria, il paese più malfermo nei fondamentali dell’economia e dove la distribuzione della ricchezza era ancora ferma al latifondo nel posto del benessere più diffuso ed equo.La dolce vita italiana era iniziata negli anni Settanta, quell’altra era una manfrina per pochi. Ora, nel deserto c’era rimasto solo il pensiero politico. A iosa, strabordante, eccedente. Ma sommerso. Che succede quando hai un patrimonio teorico enorme ma non il tempo storico? Ti chiudi in convento e lo conservi. Ne fai codici, digesti, pandette. Metti i monaci a lavorarci sopra, a arricchire il lascito con miniature e mappe e disegni.Che succede quando hai una religione ma non i fedeli? Predichi ai passeri, sperando che un giorno acquisiscano la parola.Questo erano le riviste degli anni Novanta. Questo era «Derive Approdi», come le altre. Codici miniati e prediche ai passeri. Pochi altri ferventi monaci arrivavano, pronti a perpetuare il lavoro, ma le chiese restavano vuote.Ci si passava l’un l’altro le profezie, come fossero terzine di Nostradamus capaci di indovinare gli accaduti. Era così. Tra le oscure righe, la profezia era chiarissima. Ma restava una pratica di iniziati. Di illuminati. Di massoni. Poi gli anni Novanta finirono.E finirono con Seattle. I passeri arrivavano in stormo e facevano un gran baccano.

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    Primo Maggio. Saggi e documenti per una storia di classe  Pubblichiamo una scheda sulla rivista «Primo Maggio» scritta da Primo Moroni per il catalogo della mostra, presentata a Tradate (Va) nel 1983, Gli anni affollati. La rivista politica antagonista negli anni 70, a cura del Centro sociale di Tradate e del Centro di documentazione di Varese. È, negli anni Settanta, la più ragguardevole espressione teorica dell’operaismo italiano. «Primo Maggio» nasce nel 1973 come rivista dedicata soprattutto alla riflessione teorica e storico-politica. Si colloca, fin dall’inizio, in una posizione autonoma all’interno del Movimento, cercando di muoversi negli spazi aperti dalla frattura culturale e politica mondiale degli anni Sessanta e per quanto riguarda l’Italia, dalle specificità delle esperienze di operai e studenti e dei gruppi extraparlamentari. Si tratta di spazi che la rivista riesce a occupare con la sua funzione critica, anche se con una periodicità non proprio martellante. L’intenzione su cui «Primo Maggio» nacque era stata quella di rivisitare i temi principali della storia del rapporto tra classe e capitale e delle strutture istituzionali e politiche attraverso le quali esso si era espresso nel Novecento. L’idea cardine di «storia militante», attorno a cui si sviluppava una parte del lavoro della rivista in quella direzione, veniva dal rapporto intellettuali-politica definitosi negli anni Sessanta e dalle opinioni maturate sull’esperienza dei gruppi extraparlamentari nei primi anni Settanta. Nuovi temi vennero quindi imposti rapidamente dal golpe cileno, dalla crisi petrolifera, dalla ristrutturazione mondiale dell’economia e della finanza. E il modo in cui crisi e scontro di classe si sviluppavano in Italia portò a sua volta su «Primo Maggio» l’analisi più ravvicinata del sistema politico e della composizione di classe e un intervento più diretto nel dibattito politico corrente. Per questi temi e per il modo in cui sono trattati, la rivista trova un ventaglio di lettori molto ampio, anche se non particolarmente numeroso, visto che venderà al massimo 4300 copie.Nella storia della rivista stessa, pubblicata sul numero 19/20, a conclusione dell’esame dei suoi lettori, gli estensori del saggio affermano abbastanza giustamente che «Primo Maggio» ha trovato aree di consenso in tutta la sinistra, istituzionale e no, e in tal senso è stata una rivista unica nel suo genere. Tra i contributi maggiori di «Primo Maggio» l’analisi della forma denaro in quanto chiave di lettura sia del nuovo imperialismo monetario, sia delle nuove egemonie politiche sul piano internazionale, i contributi alla storia del movimento operaio internazionale – valga su tutti la prolungata attenzione sull’Industrial Workers of the World – e gli esempi di impiego delle fonti orali. Inoltre la proposizione di temi trascurati dalla sinistra, come quello dei trasporti, l’analisi delle trasformazioni tecnologiche e i loro risvolti sociali, la ricostruzione storico-politica dei percorsi individuali e collettivi che hanno attraversato il Movimento e la sinistra negli ultimi vent’anni.  In allegato i pdf dei 29 numeri della rivista, i 2 quaderni e i 2 opuscoli.

  • konnektor

    Il culmine del potere, della distruzione e della guerra in Medio Oriente Roberto Gelini Israele, Stati Uniti e Unione Europea intendono subordinare il Medio Oriente al disegno imperiale e coloniale occidentale attraverso la distruzione o la cooptazione servile: la sottomissione dell'Iran è il correlato geopolitico esatto del genocidio di Gaza. I disegni del potere geopolitico occidentale smentiscono assolutamente qualsiasi pretesa democratica di un ordine internazionale praticabile e l'impossibilità di quest'ultimo indica con estrema chiarezza quale sia il modello che le classi dominanti e dirigenti europee e statunitensi hanno in mente per organizzare internamente le rispettive società, ancora definite nazionali per pura pigrizia mentale e politica. Questo articolo è apparso su Sidecar , il blog della New Left Review  ed è pubblicato con il permesso espresso del suo editore. L'attacco israeliano contro l'Iran, lanciato mentre continua il genocidio contro il popolo palestinese, segue un copione tristemente familiare. Come nelle precedenti campagne perpetrate in Libano e Gaza, Israele sta applicando la ben nota strategia della «decapitazione», concepita per procedere all'eliminazione di figure chiave dell'establishment politico e della sicurezza del Paese, terrorizzando al contempo la popolazione civile. Sebbene sia inquadrata nel linguaggio ingannevole della «prevenzione» o della «non proliferazione», l'escalation israeliana mira a un progetto molto più ampio e ambizioso: non solo fermare il programma nucleare iraniano, ma smantellare l'Iran come attore regionale sovrano in grado di resistere al dominio statunitense-israeliano. Questo programma di cambio di regime non dovrebbe sorprendere nessuno che conosca la storia recente della regione. Ha lasciato una scia di distruzione in Iraq, Libia, Siria, Palestina e Libano. In una sola notte, Israele è riuscito ad assassinare Hossein Salami, comandante in capo dei Corpi della Guardia Rivoluzionaria Islamica (CGRI); Mohammad Bagheri, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate iraniane; Amir Ali Hajizadeh, comandante delle Forze Aerospaziali del CGRI; Fereydoun Abbasi, ex capo dell'Organizzazione per l'Energia Atomica Iraniana, e Mohammad Mehdi Tehranchi, presidente dell'Università Islamica Azad. Ali Shamkhani, ex segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale iraniano e consigliere principale della Guida Suprema, che aveva svolto un ruolo centrale nei recenti negoziati con gli Stati Uniti, era stato inizialmente dato per morto, ma ora si ritiene che sia sopravvissuto per miracolo all'attentato contro la sua vita. Oltre ad attaccare impianti nucleari e militari, Israele ha lanciato una pioggia di bombe su edifici residenziali in zone densamente popolate, uccidendo 224 persone e ferendone circa 1200 nei primi tre giorni di ostilità. Il fatto che un'operazione di così alto livello abbia potuto essere condotta senza essere rilevata dall'Iran evidenzia una grave falla dei servizi segreti iraniani e indica probabilmente una profonda infiltrazione del Mossad, insieme all'intelligence statunitense. Gli attacchi sono avvenuti dopo la ripresa dei negoziati sul nucleare tra Teheran e Washington, iniziati a metà aprile. È passato quasi esattamente un decennio da quando il governo Rouhani ha firmato il Piano d'azione congiunto globale (PAIC), in base al quale si concordava di limitare l'arricchimento dell'uranio in cambio della revoca delle sanzioni: un accordo che è rimasto in vigore fino al 2018, quando Trump si è ritirato unilateralmente e ha adottato la strategia della “massima pressione”, imponendo sanzioni volte a impoverire la popolazione iraniana e ad alimentare i disordini interni. Durante questo periodo, l'Iran ha continuato a cercare vie diplomatiche per preservare il proprio diritto all'arricchimento dell'uranio per scopi civili sotto il regime di supervisione internazionale. Ha dovuto affrontare una pressione considerevole, sia da parte delle élite che della popolazione in generale, per ripristinare un qualche tipo di accordo negoziato. Così, quando Trump è tornato alla Casa Bianca quest'anno e ha dato segnali che un nuovo accordo poteva essere raggiunto, il governo di Pezeshkian ha accettato di avviare nuovi colloqui. Ora è assolutamente chiaro, tuttavia, che questa diplomazia non è mai stata seria. Per gli Stati Uniti, l'obiettivo non era quello di raggiungere un accordo, ma di forzare la resa. Dietro il discorso di Trump sulla «negoziazione di accordi» si nascondeva una richiesta massimalista: non solo che l'Iran abbandonasse il suo programma nucleare civile, ma anche che smantellasse il suo arsenale missilistico e sciogliesse le sue alleanze regionali. Questo è ciò che Netanyahu ha ripetutamente definito «l'opzione Libia». Non si tratta di una distensione o di una normalizzazione, ma di una capitolazione totale, qualcosa che Teheran non avrebbe mai accettato. Alla luce di tutto ciò, la teatralità della presunta «rottura» di Trump con Netanyahu sembra ora più una manovra strategica che una vera divergenza politica: un mezzo per disorientare gli iraniani mentre si preparava la guerra. Gli attacchi aerei, gli omicidi e gli atti di sabotaggio di Israele, volti non solo a degradare le capacità difensive del suo nemico, ma anche a seminare paura e confusione tra la sua popolazione, hanno colto di sorpresa l'Iran. I suoi leader hanno tardato a rispondere, ma si sono gradualmente adattati alla nuova realtà. La strategia a lungo termine sviluppata a Washington e Tel Aviv è consistita nell'utilizzare la guerra ibrida come mezzo per invertire lo sviluppo: svuotare lo Stato e la società iraniani, isolarli diplomaticamente e renderli vulnerabili all'incursione militare, affinché la Repubblica Islamica potesse essere finalmente rovesciata. Israele ha anche utilizzato vari metodi di soft power, come il sostegno fornito al figlio in esilio dell'ex scià, una figura con scarso peso politico in Iran, ma utile alla propaganda straniera, poiché appare spesso sui media occidentali per annunciare che gli iraniani stanno per sollevarsi per rovesciare «il regime» e sostituirlo con un altro allineato con l'Occidente. Questa fantasia porta il marchio inconfondibile del neoconservatorismo dei primi anni 2000. Si tratta di una versione riscaldata delle stesse illusioni che hanno sostenuto l'invasione statunitense dell'Iraq: che uno Stato distrutto e frammentato potrebbe, con l'acquiescenza o addirittura il sostegno della sua popolazione, ricostituirsi come un docile avamposto per il capitale occidentale, aperto alla privatizzazione, disposto a consentire il saccheggio dei beni del Paese e gestibile per organizzare la proiezione del potere geostrategico. È tornata di moda anche la tattica di utilizzare la disinformazione per fabbricare il consenso alla guerra, come nel caso delle affermazioni di Netanyahu secondo cui l'Iran possiede già l'arma nucleare e intende fornirla ad Ansarallah nello Yemen. Stiamo entrando in un territorio talmente fantastico che il «dossier sospetto» iracheno e le «armi di distruzione di massa che Saddam Hussein avrebbe potuto utilizzare in 45 minuti» sembrano quasi pittoreschi al confronto. Tuttavia, Netanyahu e Trump sembrano aver sottovalutato la resilienza del nazionalismo iraniano nelle sue varie forme. I loro attacchi hanno già avuto un importante effetto di unione attorno alla bandiera. Anche tra coloro che sono profondamente delusi dalla Repubblica Islamica, compresi ex prigionieri politici, hanno risuonato gli appelli all'unità nazionale e alla difesa del Paese. È sempre più evidente che non si tratta semplicemente di una guerra contro la Repubblica Islamica, ma contro l'Iran stesso, che mira a trasformare il Paese in un mosaico di enclave etniche, divise al loro interno e troppo deboli per godere di uno sviluppo sovrano, figuriamoci per lanciare una sfida regionale. Saddam Hussein nutriva ambizioni simili, ma non sono mai state realizzate. Israele, a quanto pare, spera di trionfare dove altri hanno fallito.  Con l'aumentare del numero delle vittime civili, circolano ampiamente immagini dei defunti: un bambino con la sua uniforme di taekwondo, una bambina ballerina con un vestito rosso, una pattinatrice artistica di 16 anni, un grafico affiliato a un'importante rivista, una giovane poetessa. Il dolore e l'indignazione si sono diffusi in tutto il Paese mentre Israele ha ampliato la sua campagna contro le infrastrutture civili iraniane, compresi depositi di carburante e aeroporti, attacchi ai quali si aggiunge il bombardamento in diretta della televisione nazionale. Il governo ha risposto all'aggressione lanciando attacchi contro Tel Aviv e Haifa, dimostrando la sua capacità di infliggere costi prima impensabili per Israele, ma l'asimmetria rimane profonda. L'Iran non ha un ombrello nucleare, né alleanze permanenti, né la NATO; Israele ha il sostegno incondizionato degli Stati Uniti, difese aeree avanzate, scambio di informazioni in tempo reale e quasi totale impunità diplomatica. L'Iran lotta per la deterrenza; Israele, per il dominio illimitato. Le implicazioni sono ovvie. Per decenni gli esperti hanno avvertito che trattare la diplomazia come una trappola e i negoziati come una copertura per la coercizione avrebbe costretto l'Iran a optare per la deterrenza nucleare. Ora ci stiamo avvicinando a quella soglia. Al momento della stesura di questo articolo, non vi sono ancora indicazioni che l'Iran abbia deciso di fabbricare un'arma nucleare e il Paese continua a cooperare, sebbene sotto una pressione crescente, con quella che molti considerano un'Agenzia internazionale per l'energia atomica politicamente compromessa. Tuttavia, sono sempre più numerose le voci iraniane, sia nell'élite politica che nell'opinione pubblica in generale, che sostengono che se l'Iran avesse compiuto questo passo molto tempo fa, non si troverebbe in una situazione così precaria. La Corea del Nord, sostengono queste voci, ha compreso meglio la logica del potere statunitense e ha agito di conseguenza. L'opinione prevalente in questi ambienti è che, se l'Iran continua ad avere la capacità tecnica, ora è il momento di usarla per ottenere l'arma atomica. Nel frattempo, una questione fondamentale è se l'Iran possa mantenere la sua attuale campagna di ritorsioni. A meno che non imponga un costo sufficientemente alto a Israele, rischia di incoraggiare il suo nemico e aumentare l'intensità dei nuovi attacchi. È probabile che i pianificatori iraniani stiano valutando se sia possibile mettere in piedi la loro base industriale, seguendo l'esempio della Russia. Si tratta di un compito difficile per uno Stato da tempo indebolito dalla corruzione e dalla cattiva gestione endemica, ma la necessità può essere madre dell'invenzione. Decenni di sanzioni hanno costretto l'Iran a coltivare un nascente complesso militare-industriale nazionale che, sebbene lungi dall'essere perfetto, è in grado di esercitare una deterrenza asimmetrica pagando un alto costo in termini di vite umane. C'è anche grande incertezza sul fatto che la strategia di decapitazione di Israele porterà alla frammentazione e alla paralisi della fazione iraniana, o se darà il via a una generazione più giovane di guardie rivoluzionarie meno caute e più disposte a intensificare il conflitto. Anche se è improbabile che si verifichi un cambiamento di regime su larga scala, una guerra di questa portata rimodellerà quasi certamente la Repubblica Islamica. Potrebbe approfondire la militarizzazione dello Stato e della società e rafforzare ulteriormente i Corpi della Guardia Rivoluzionaria Islamica al centro della vita politica ed economica iraniana. Come ha osservato Charles Tilly, «la guerra ha creato lo Stato e lo Stato ha creato la guerra». L'idea che una forza democratica solida o un movimento sociale progressista possano fiorire in tali condizioni sembra fantasiosa. In ogni caso, questa svolta degli eventi probabilmente ritarderà di decenni la lotta per i diritti civili e per l'instaurazione di un sistema più democratico in Iran. L'Iran ha anche un'opzione di ultima istanza per difendersi: la chiusura dello Stretto di Hormuz, un punto strategico attraverso il quale transitano ogni giorno circa 21 milioni di barili di petrolio, una cifra che rappresenta circa il 20% del consumo mondiale di petrolio liquido e di gas naturale liquefatto. I mercati sono già nervosi di fronte alla possibilità che tale misura venga adottata. Anche se si tratterebbe di un'escalation estrema, l'Iran potrebbe considerarla necessaria se gli Stati Uniti decidessero di intervenire militarmente a favore di Israele. A quel punto, entreremmo in un terreno pericoloso e senza precedenti. Lo Stato-caserma israeliano ha chiarito che non si accontenta di una superiorità militare schiacciante nella regione, ma mira anche a rendere i suoi vicini permanentemente incapaci. Israele e il suo padrone supremo non tollereranno un Iran sovrano e indipendente in grado di limitare, anche se modestamente, la loro libertà d'azione. Non si tratta di un fallimento diplomatico. È la chiusura calcolata della diplomazia. Non è una deviazione dalla politica abituale, ma il culmine logico di un consenso che dura da decenni a Washington e Tel Aviv, secondo cui nessuna potenza indipendente in Medio Oriente deve trovarsi in condizioni di sfuggire all'architettura della subordinazione. Note Si consiglia la lettura di Eskandar Sadeghi-Boroujerdi, « Iran e Israele sull'orlo del baratro », Diario Red; Controllo dei danni nella Repubblica Islamica dell'Iran » e « Le regole del gioco », El Salto. Souleiman Mourad, « Hezbollah imbrigliato » e Tariq Ali, « Le vie per Damasco », Diario Red. Susan Watkins, « Il trattato di non protesta contro le armi nucleari », NLR 54.

  • post-poetica

    Serie limitrofa Greco Una poesia di Luca Zanini 1 tendere l'orecchio" le] persone dentro] i libri contabili] non per esempio non impressionano la pellicola sono in sottoscale fanno gli anniversari con]" lo stucco dorato la sparachiodi hanno i sensi vietati il quartiere chiuso d'inverno le allergie fanno il resto reati rapidi lo [fanno  2 forever sta nelle scritte dappertutto i]  cavi lasciati nelle pozze dei semi alleggeriscono – o i draghi flambè dei cinesi e del monopoli il marcapiano un soggetto a caso degli anni settanta si studia e si prende [le misure consultando il manuale si notano di più  3 una più densa matassa-i fori le porte girevoli – i manager di carrube amano i -flutti le acerbe ricorrenze con fondi statali possono rimanere gli anni migliori nella sezione lo] scambio per i  superflui [l'ordine  del – a capo alla televisione danno [i] tàssi d'interessante stress delle pasticche eurovisione con bandierine 4 patteggia armeggiano – o] un dato preciso non si può fare caduti i termini anche] i più cauti distribuiscono non c'è la consegna la catena inceppa una debolezza una carta fluorescente. A] rivelare i cani dai terrazzi Luca Zanini , Bergamo bassa, 1963.  Scritture di ricerca, alcuni riferimenti:  slowforward.net  (fa parte della redazione)  https://slowforward.net/tag/luca-zanini/ ; suoi materiali in   gammm.org ,  ilcucchiaionellorecchio.it ,  lamorteperacqua.wordpress.com ,  utsanga.it ,  multiperso.wordpress.com , pontebianco.noblogs.org ,  compostxt.blogspot.com , e in altri spazi, come Utopie del desiderio , Esiste la ricerca / MTM - manifatture teatrali milanesi, Poème de Terre. La sequenza Delle vite scientifiche è leggibile in mastodon.uno/@gregorsx . Una serie di materiali continui e discontinui è in  noblogo.org/lucazanini/ . Altre partecipazioni: L’intervallo#382 di Antonio Syxty, 2024, Briefe in «Bina» n. 83, La parola s’industria, in «l’immaginazione», n. 326, 2021. Sotto_controllo, in «l’immaginazione», n.  342, 2024. Un testo in Multiperso, antologia di microfinzioni (pièdimosca, 2022) e L’ordine sostituito (déclic edizioni, 2024). Su invito è presente a RicercaBO 2015 Laboratorio di nuove scritture. Ha letto anche nella rassegna Riassunto di Ottobre, voci della scrittura contemporanea, Bologna, 2017.

  • archivi

    Perché rileggere «Primo Maggio» white Questo testo è in relazione alla pubblicazione del podcast Primo Moroni editore della rivista «Primo Maggio» È negli anni Settanta la più ragguardevole espressione teorica dell’operaismo italiano, e mantiene la propria presenza anche nei momenti più duri degli «anni di piombo». «Primo Maggio» nasce nel 1973 come rivista dedicata soprattutto alla riflessione teorica e storico-politica. Si colloca, fin dall’inizio, in una posizione autonoma all’interno del Movimento, cercando di muoversi negli spazi aperti dalla frattura culturale e politica mondiale degli anni Sessanta e per quanto riguarda l’Italia, dalle specificità delle esperienze di operai e studenti e dei «gruppi». Si tratta di spazi che la rivista riesce sostanzialmente a occupare con la sua funzione critica, anche se con una periodicità non proprio martellante: nei primi dieci anni della sua vita ne escono 20 numeri. L’intenzione su cui «Primo Maggio» nacque era stata quella di rivisitare i temi principali della storia del rapporto tra classe e capitale e delle strutture istituzionali e politiche attraverso le quali esso si era espresso nel Novecento. L’idea cardine di «storia militante», attorno a cui si sviluppava una parte del lavoro della rivista in quella direzione, veniva dal rapporto intellettuali-politica definitesi negli anni Sessanta e dalle opinioni maturate sull’esperienza dei gruppi nei primi anni Settanta. Nuovi temi vennero quindi imposti rapidamente dal golpe cileno, dalla crisi petrolifera, dalla ristrutturazione mondiale dell’economia e della finanza. E il modo in cui crisi e scontro di classe si sviluppavano in Italia portò a sua volta su «Primo Maggio» l’analisi più ravvicinata del sistema politico e della composizione di classe e un intervento più diretto nel dibattito politico corrente. Per questi temi e per il modo in cui sono trattati, la rivista trova un ventaglio di lettori molto ampio, anche se non particolarmente numeroso, visto che venderà al massimo 4300 copie. Nella «storia» della rivista stessa, pubblicata sul numero 19/20, a conclusione dell’esame dei suoi lettori, gli estensori del saggio affermano abbastanza giustamente che «Primo Maggio» ha trovato aree di consenso in tutta la sinistra, istituzionale e no, e in tal senso è stata una rivista unica nel suo genere. Tra i contributi maggiori di «Primo Maggio»: l’analisi della forma denaro in quanto chiave di lettura sia del nuovo imperialismo monetario, sia delle nuove egemonie politiche sul piano internazionale Quindi, i contributi alla storia del movimento operaio internazionale – valga su tutti la prolungata attenzione sull’ Industrial Workers of the World – e gli esempi di impiego delle fonti orali. La proposizione di temi trascurati dalla sinistra, come quello dei trasporti. Infine, nei suoi ultimi numeri «Primo Maggio» – a fianco dell’analisi delle trasformazioni tecnologiche e dei loro risvolti sociali – ha iniziato un coraggioso lavoro di ricostruzione storico-politica dei percorsi individuali e collettivi che hanno attraversato il Movimento. Che cos’è la storiografia militante [1] Bruno Cartosio, introducendo sul numero 1 della rivista un saggio sulle lotte guidate dagli anarco-sindacalisti americani nel primo quindicennio del Novecento, scrive che «l’insorgenza di nuovi modi di lottare e di nuovi soggetti sociali a protagonisti delle lotte impose allora, come ora, la modifica delle categorie di giudizio necessarie per l’organizzazione del nuovo». Centrale, nel brano, e nell’impostazione del lavoro storiografico di «Primo maggio», è proprio quel ora come allora; la produttività-legittimità dell’indagine esige questo nesso («molto di quello che loro hanno portato nella fabbrica va riportato dentro la fabbrica e attorno ad essa», p. 44), in quanto la storiografia militante pone al suo centro le lotte, e lotte che hanno per protagonisti «dell’insubordinazione capitalistica» la figura «dell’operaio massa dequalificato, sprofessionalizzato, del disoccupato bianco e nero, del sottoproletariato nero dei ghetti urbani». Si tratta insomma di rintracciare e valorizzare nella storia di classe americana situazioni, comportamenti, modelli d’organizzazione del tutto alternativi al modello europeo e terzinternazionalista, soprattutto in quanto sembrano fortemente anticipatori della situazione italiana degli anni Sessanta e Settanta). Ciò coincide con il porre come indispensabile un nesso tra storiografia e lotte presenti: le lotte presenti e passate reciprocamente si spiegano; sono le urgenze pratiche e teoriche del presente a spingere sulle tracce delle lotte passate utili a rileggere il presente, e viceversa. Per esempio, una rassegna storiografica dal titolo Per la storia degli anarchici spagnoli è introdotta da questa considerazione: si tratta della storia «più vicina alla nostra storia recente, alle scoperte e alle speranze legate alle lotte del 1968-69 e poi ai tentativi di organizzazione e di progetto politico scaturiti da quegli anni» (numero 6, p. 79); e così Marco Revelli introduce un suo saggio notevole, dal titolo Fascismo come rivoluzione dall’alto , affermando che «tentare di leggere con l’occhio di oggi il ciclo di lotte degli anni ’20 non è forse operazione scorretta»; saggio dichiaratamente in risonanza con l’analisi dell’«uso capitalistico della crisi» degli anni Settanta che la rivista va conducendo sul piano della crisi finanziaria e dei mutati rapporti fra politica ed economia. I tratti fondativi della concezione storiografica di «Primo Maggio» trovano un’ulteriore limpida esemplificazione nell’uso della storia orale, che diviene una delle novità metodologiche di maggior rilievo della rivista, soprattutto grazie alla partecipazione al lavoro redazionale di Cesare Bermani. La fonte orale viene presentata e vissuta come lo strumento più adatto, per sua natura, a permettere una ripresa della parola dal basso, sottraendo la storia del proletariato e delle sue lotte al dominio delle verità ufficiali, e delle distorsioni che le carte di polizia o le memorie di funzionari e dirigenti di partito implicano. Bermani scrive, paradigmaticamente, che «la storia orale sarà attendibile solo se il ricercatore è anche un militante, e in quanto tale riscuote la piena fiducia del testimone. La storia del e per il movimento operaio e contadino non può che essere una storia scritta da un militante per i militanti» (…) «la funzione che viene ad assumere lo storico di portavoce e generalizzatore di esperienze non è di poco conto se è vero, come è vero, che soltanto se ciò avviene va avanti la scienza operaia, una scienza che è sempre in funzione di un’attività pratica, una scienza che denuncia, trasforma, genera lotta» per cui allo «storico, militante tra i militanti, è demandato il compito di farsi portavoce delle esperienze della classe e di apprestare canali idonei alla loro circolazione e generalizzazione all’interno di essa e nelle sue organizzazioni». Sullo stesso argomento, Bologna scrive, in una lettera a Bermani, «mi sembra importante sottolineare come la storia orale implichi un rapporto fiduciario che ne fa uno strumento valido solo di una storia militante, di una storia di compagni scritta da compagni. Non ci interessa la fonte orale “in sé” ma la fonte orale come rapporto di militanza».Ciò che qui viene affermato per la storia orale è in realtà estensibile alla intera concezione di storiografia militante come viene propugnata dalla rivista, fin dall’incipit della quarta di copertina: «storia di lotte, scritta da compagni per compagni».In sintesi, alla ricerca storiografica sembra dunque competere una funzione di laboratorio, di riflessione che deve prima di tutto rispondere alle urgenze delle lotte in corso. Questo strettissimo nesso fra lotte presenti e riflessione storiografica rappresenta, dal mio punto di vista, la principale spiegazione del fascino della concezione del lavoro storiografico propugnata da «Primo Maggio»; collocandosi nel punto più lontano da qualunque esigenza di neutralità e di asettica scientificità (liquidate con un certo sprezzo come tipiche della «storiografia accademica»), questa impostazione abolisce d’un sol tratto, per chi vi aderisca, domande ricorrenti tra gli storici (almeno quando sono giovani e idealisti) grossolanamente riassumibili nella questione «a che serve, a chi serve il mio lavoro?». Legittimità, utilità, correttezza dell’agire storiografico sono qui verificate esclusivamente dal suo essere interno e in risonanza con le lotte in corso. Dunque, nell’accezione proposta da «Primo Maggio», la committenza era indiscutibilmente data, studiare la classe coincideva con lo studio delle sue lotte, della sua alterità, verificando la capacità delle lotte di produrre identità e organizzazione (o studiando i motivi per cui questi passaggi non si erano determinati); dunque studiare la classe, ben più che un mestiere, diveniva un prender parte, pur con vari distinguo e perplessità, alla lotta in corso; né era allora dubitabile, per me e per molti altri, che di lotta di classe si trattasse, e che l’alterità operaia rispetto al capitale fosse, oltre che una realtà, una buona causa. Questo nesso strettissimo tra ciclo di lotte e lavoro storiografico era appunto ragione di fascino, ma, come spesso accade, coincideva anche con la massima debolezza di questa impostazione. Debolezza ben visibile soprattutto su due piani. 1. Anzitutto, come lo stesso Bologna avrebbe sottolineato di lì a pochi anni, i tempi della ricerca e della riflessione storiografica sono per loro intima natura diversi da quelli delle lotte operaie e del conflitto sociale; ancor più lo sono i tempi in cui la riflessione storiografica può essere metabolizzata, entrare in circolo, interagire effettivamente con i movimenti, con le lotte, con gli ipotetici, e normalmente inconsapevoli, committenti di quelle indagini e di quelle riflessioni. Non è dunque un caso che pressoché tutti i saggi storiografici presentati su «Primo Maggio» siano caratterizzati dall’essere, più che il risultato di indagini originali, proposte interpretative, riletture, secondo prospettive a volte radicalmente innovative, di questioni ampiamente note e già dibattute; oppure sintesi, rassegne, a volte molto stimolanti, di problemi di storia operaia fino a quel momento del tutto trascurati dalla storiografia nazionale (è il caso, soprattutto, delle incursioni nella storia delle lotte negli Stati Uniti). Ma proprio l’urgenza, il legame strettissimo con l’attualità e la qualità delle lotte in corso abolisce il tempo e lo spazio per progettare, promuovere, mettere in circolo ricerche innovative e originali all’altezza delle ambizioni della rivista.2. Né è questo il limite maggiore, se è vero che a partire da questa impostazione diventa ineludibile la domanda: che si fa, quando arriva una sconfitta epocale, quando le lotte si frantumano e poi si inabissano? Se storiografia operaia e storiografia militante coincidono, e sono una funzione delle lotte e della costruzione di una «scienza operaia», in assenza di un soggetto collettivo che esprima una potenzialità di lotta, la storiografia militante sarebbe priva di senso e di scopo, e a essa subentra la «storiografia accademica», che si occupa di operai, mestieri, storie e memorie individuali, trattando di storia operaia come di un qualunque altro oggetto. Con tipica, radicale consequenzialità, nel 1984 Sergio Bologna, in uno degli ultimi numeri di «Primo Maggio», constatata la pesantezza della sconfitta politica che si è consumata nel decennio trascorso, scrive: «dobbiamo ammainare la bandiera straccia di “storia militante”, bruciarla. Tanto, sappiamo come vanno le cose: ci sarà sempre qualche raccoglitore di cimeli che le conserverà nel cassetto». Affermazione particolarmente amara e drastica, che implicherebbe la rinuncia alla possibilità di una qualunque storiografia operaia non accademica. I progetti della storiografia militante si erano fondati sull’ipotesi di una propria immediata utilità, nel dotare le lotte in corso di modelli teorici e di esperienze storiche, in una fecondazione continua. Venuta meno la composizione politica di classe, e poi lo stesso aggregato di forza lavoro che la esprimeva, vengono meno la possibilità e l’utilità di una storiografia operaia militante. Almeno, di quella accezione di storiografia militante. In realtà, come lo stesso Mario Tronti ha sottolineato qualche anno fa, è facilmente constatabile «la presenza, l’esistenza, nascosta nelle pieghe della cultura contemporanea, di una serie di ricerche, di ricostruzioni, di analisi, di riflessioni, riguardanti la storia della classe operaia. Questi studi sono più diffusi di quanto non si creda. È solo il clima culturale, e il dominio in esso di un punto di vista superficialmente post-operaio, che non li fa vedere». Di che storie si tratti, se coloro che se ne fanno carico si sentano raccoglitori di cimeli, o piuttosto protagonisti di una battaglia di lungo corso, di resistenza culturale, a queste questioni forse il convegno offrirà qualche risposta. Resistere alla rimozione delle lotte, della loro legittimità e grandezza, delle potenzialità, delle contraddizioni che hanno innescato, resistere al trionfo dell’esistente come dotato di necessità e di razionalità indiscutibile, rappresenta, a mio avviso, una forma di militanza, che fa della storiografia operaia una pratica comunque dotata di una sua specificità.Per altro, resta vero che in assenza di un ciclo di lotte, di un movimento chiaramente identificabile, qualunque militanza diviene più difficile da precisare, da definire, e resta potenzialmente sospesa tra un volontarismo individuale e un lavoro intellettuale onesto ma autoreferenziale. Insomma, secondo me potrebbe non essere inutile tornare a riflettere, anche, sulle possibili declinazioni del concetto di militanza dello storico di classe operaia, o anche, naturalmente, dell’obsolescenza del concetto stesso.  Note [1] da: Santo Peli, La rivista «Primo Maggio» (1973-1989), DeriveApprodi (prima gestione), 2010 Sergio Bianchi  nel 1992 ha fondato (con Mauro Trotta) la rivista «DeriveApprodi». Nel 1998 è stato cofondatore della casa editrice DeriveApprodi nella quale ha assunto le cariche di direttore editoriale e amministratore unico fino al 2023. In quei 25 anni la casa editrice ha pubblicato un migliaio di titoli. Nel 2020 ha progettato e realizzato la rivista on line di dibattito politico-culturale «Machina». Ha curato i saggi: L’Orda d’oro  a firma di Nanni Balestri e Primo Moroni; La sinistra populista ; (con Lanfranco Caminiti) Settantasette. La rivoluzione che viene e Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie , voll. I, II, III; nanni balestrini – millepiani. È autore dei saggi: Storia di una foto ; (con Raffaella Perna) L e polaroid di Moro; Figli di nessuno . Storia di un movimento autonomo. È inoltre autore del romanzo La gamba del Felice  (Sellerio).

  • konnektor

    Al limite: su Trump e la socialdemocrazia Thomas Berra Matthew Karp analizza la politica di Trump negli Stati Uniti a partire da una profonda critica alle compagini democratiche. Trump svolge il ruolo di rivitalizzare una sinistra americana che soffre di una importante empasse interna. L'articolo è uscito per la prima volta su Sidecar la rivista di New Left Review Il mondo politico statunitense oggi può dirsi diviso non solo tra destra e sinistra, ma anche lungo un altro asse: i massimalisti e i minimalisti di Trump. I massimalisti tendono a vedere il tycoon come un agente o un tramite di una rottura storica improvvisa – che si tratti della trasformazione del sistema partitico, della distruzione della democrazia americana o dell'implosione dell'ordine mondiale liberale – . I minimalisti non vedono il presidente USA come una rottura fondamentale, piuttosto come un simbolo raccapricciante di sviluppi di lungo corso, o un sintomo di crisi che affliggono altri settori: un buco nero che distoglie l'attenzione dai veri problemi politici. Non si tratta di una distinzione puramente partitica o ideologica, il che è uno degli aspetti che la rende interessante. Ci sono molti massimalisti liberali ben noti, naturalmente – alcuni di loro si sono recentemente trasferiti in Canada per paura o in segno di protesta contro lo status quo – e ci sono anche massimalisti conservatori, per lo più editorialisti di destra che hanno mobilitato pochi voti ma hanno avuto un impatto enorme sulla struttura e sul tenore della politica anti-Trump. Nonostante alcuni disaccordi, i massimalisti liberali e conservatori sono uniti nel considerare il presidente stesso come la questione principale – spesso l'unica – della politica nazionale; entrambi si sono affrettati inoltre ad arruolarsi nella “guerra al fascismo”, spesso brandendo la parola con la “F” come un bastone per disciplinare la sinistra alle elezioni e altrove. Tuttavia, esiste anche un minimalismo contrapposto del centro, articolato da James Carville, che a febbraio ha consigliato ai democratici di “girarsi e fingersi morti” – cosa che, a quanto pare, sanno fare bene – perché l'amministrazione Trump sarebbe “crollata” nei trenta giorni successivi. Anche il Senato democratico sembra contenere una buona dose di minimalisti. Secondo loro, Trump è il peggior nemico di se stesso e in ogni caso non rappresenta una vera rottura con la politica tradizionale; i democratici devono semplicemente tenere un profilo basso e prepararsi per una vittoria schiacciante nelle elezioni di medio termine del 2026. I massimalisti di sinistra si dividono sostanzialmente in due fazioni. Quelli che hanno celebrato Trump per aver demolito l'ordine neoliberista, dipingendo il presidente del reality show come una figura storica di grande importanza – «l'anima del mondo che cavalca una scala mobile dorata», come ha detto lo scorso novembre il podcast Aufhebunga Bunga. Poi, i sinistroidi dell'«emergenza nazionale» che vedono l'attacco del presidente agli attivisti studenteschi, all'immigrazione clandestina e ai diritti civili come una crisi urgente che supera ogni altro livello di analisi e richiede una risposta immediata. Entrambi vedono in Trump una chance per la sinistra. Per i primi, le conseguenze offrono la possibilità di raccogliere alcuni frammenti del malcontento nel sistema neoliberista ormai in frantumi, aprendo la possibilità di una sorta di riallineamento con la rivolta della classe operaia contro i democratici. Per il secondo, è l'occasione per un ampio fronte popolare contro Trump in nome di una forma di antifascismo che permetterà alla sinistra di esercitare una certa influenza insieme agli alleati liberali. Qui, tuttavia, intendo sostenere un minimalismo progressista – critico e qualificato – facendo luce su alcune questioni chiave dei primi mesi dell’attuale presidenza. In primo luogo, i dazi. Nel «giorno della liberazione», Trump sembrava aver dato il via alla demolizione dell'economia internazionale che molti massimalisti temevano e alcuni speravano. Tuttavia, al primo segnale di nervosismo dei mercati obbligazionari, ha cambiato rotta, passando dal riallineamento commerciale globale a una semplice guerra commerciale con la Cina, per poi fare marcia indietro anche su questo poche settimane dopo. Restano in vigore dazi significativi sulla Cina e sono probabili ulteriori manovre tariffarie, ma un cambiamento trasformazionale sembra fuori discussione. A Wall Street, quello che il Financial Times ha soprannominato “il commercio del taco”, basato sulla teoria che Trump si tiri sempre indietro, ha riportato i mercati ai livelli pre-dazi. In secondo luogo, il DOGE (Department of Government Efficiency) [1]. Con Elon Musk che ha ufficialmente lasciato il progetto, non è troppo presto per valutarne l'impatto. Secondo il tracker del NYT, oltre 58.000 dipendenti federali sono stati licenziati e altri 149.000 sono in programma per essere tagliati (metterei i dipendenti che hanno accettato il buyout in una categoria leggermente diversa). Ciò equivale alla cessazione di circa il 7% di una forza lavoro civile federale di 3 milioni di persone; il 7%, forse non a caso, corrisponde all'aumento della forza lavoro federale nell'era post-Covid, tra il 2019 e il 2023. Non si tratta di un semplice ritorno al Trump 1.0. Il DOGE ha distrutto l'USAID oltre ogni possibilità di rinascita giudiziaria, ha quasi strangolato i finanziamenti federali alla scienza e ha lasciato una scia di caos, disfunzioni e sofferenza in tutto il servizio civile. Ma suggerisco di prendere sul serio il verdetto dei sostenitori ideologici più accaniti dei tagli al governo, come Jessica Riedl del Manhattan Institute, che hanno definito l’iniziativa come “teatro politico” piuttosto che un vero tentativo di riorganizzare la forza-lavoro federale, per non parlare di ridurre lo Stato. Il risultato più significativo è stato il traumatismo dei dipendenti federali liberali. Nella misura in cui aveva una qualche logica, al di là della gratificazione dell'ego di un importante donatore, il DOGE è servito a Trump per colpire bersagli facili, infuriare i democratici e poi dire alla propria base e alle frange ideologiche della coalizione: «Non dobbiamo fare tutti questi tagli a livello legislativo, non saremo in grado di farlo, perché invece stiamo facendo il DOGE». I numeri sono minimi, i sentimenti no. Poi c'è il Congresso: remissivo, inerte, quasi patetico. Ma ciò che il Congresso non ha fatto è significativo. Rispetto ai primi cento giorni di Roosevelt, Reagan e persino Obama nel 2009, l'azione del Congresso è stata praticamente nulla. I repubblicani hanno apparentemente una tripletta di governo, ma la blitzkrieg di Trump è avvenuta quasi interamente tramite ordini esecutivi, un segno di debolezza, non di forza. Il <> che è stato approvato a fatica dalla Camera  rappresenta probabilmente il culmine, se non la summa, dell'agenda legislativa del primo mandato di Trump. È un brutto pasticcio, ma anche estremamente familiare. Vasti regali alle aziende e ai ricchi, simbolici doni per i lavoratori e tagli crudeli per i poveri, pagati con un'esplosione del debito e mascherati dal linguaggio del patriottismo: non si tratta di una rottura storica, ma del modello prevedibile di governo repubblicano da oltre mezzo secolo. L'elemento di gran lunga più rilevante del disegno di legge è la proroga di 3,8 trilioni di dollari dei tagli fiscali di Trump del 2017, di per sé un commento alla mancanza di nuove priorità sostanziali da parte dell'amministrazione. Altre disposizioni, come una tassa sulle dotazioni destinata alle “élite woke” dell'Ivy League, sono più simboliche che realmente trasformative. La caratteristica più dura del disegno di legge della Camera – i tagli al Medicaid che potrebbero negare l'assistenza sanitaria a milioni di persone – potrebbe non sopravvivere al Senato. Ma anche questo attacco diretto ai poveri e ai malati non è un artefatto del trumpismo, bensì il feroce anti-welfarismo che ha governato la destra repubblicana sin dall'era di Newt Gingrich. Se nel 2025 ci sarà un riallineamento ideologico degno di nota, sarà solo sotto forma di una ribellione MAGA contro i tagli al Medicaid. Infine, ci sono le elezioni speciali dello scorso aprile. I democratici sono diventati un partito che prospera su questi eventi in deroga: più bassa è l'affluenza, meglio è. In questa occasione, sembrava possibile che, dopo tutto il clamore e i milioni investiti da Musk nel Wisconsin, le dinamiche potessero essere diverse, che potesse esserci un'ondata di sostegno popolare per l’operato del presidente. Ma mentre i repubblicani sono riusciti a generare un'affluenza più alta, c'è stata anche un'affluenza più alta per i democratici, il che ha significato che praticamente tutti i margini di Trump, compresa la Florida, sono stati dimezzati. A questo proposito, comunque, Chuck Schumer de i minimalisti del Senato democratico hanno ragione: le leggi della gravità politica sembrano rimanere le stesse del 2022 e del 2018. Secondo i mercati delle scommesse, le probabilità che i democratici riconquistino la Camera nel 2026 sono ora circa dell'80%. Riflettendo sul “fenomeno Trump”, mi è venuto in mente Lost Highway (1997) di David Lynch. La pellicola inizia con un musicista jazz che vive in una versione asettica e ultramoderna della California. Non ha un legame profondo con la moglie e non riesce a dare il meglio di sé nel talamo. L'atmosfera del film è pesante, il ritmo lento. È una serie di sequenze opprimenti e soffocanti in cui l'eroe non riesce a superare lo stallo. A metà del film – con la cifra tipica del regista – il protagonista si trasforma senza alcuna spiegazione in un altro personaggio, un giovane meccanico catapultato in una classica trama noir, con tanto di triangolo amoroso. La moglie si reincarna in una femme fatale disperatamente innamorata di lui. Lui finalmente la ricambia, ma è minacciato da un gangster feroce, un cattivo caotico e ringhioso che lo bracca. Slavoj Žižek – che ha scritto un intero libro su Lost Highway – vede questa trasformazione come una sorta di slittamento, il gangster come una proiezione delle inibizioni e delle ansie che tormentavano il musicista jazz. Il fallimento nell'agire, nell'essere un agente nel mondo, è stato trasposto sulla figura criminale.  Questa è la funzione che Trump svolge oggi per molti, non solo nel mondo liberale ma anche tra alcuni massimalisti di sinistra. Trump incarna l'azione, il potere, il movimento, l'eccitazione: un incitamento all'insurrezione aperta contro i fascisti, forse, o almeno un sintomo del crollo del liberalismo. Ma questo potrebbe essere in definitiva un modo attraente e conveniente per esternare una empasse interna: la profonda e scoraggiante frattura tra la sinistra storica e la classe operaia. Questa è <> storia della politica americana e del privilegio dagli anni '70: un dramma cupo e di lunga durata in cui Trump non è il protagonista. Il mostruoso spettacolo del trumpismo, che è già riuscito a rivivificare Canada ed Australia, offre certamente opportunità politiche di qualche tipo. Ma per coglierle dobbiamo riconoscere e affrontare questa marea prossima a travolgerci. Note [1] Il Department of Government Efficiency (lett. "Dipartimento dell'Efficienza Governativa"), in sigla: DOGE, formalmente US DOGE Service Temporary Organization (lett. "Organizzazione temporanea del servizio DOGE negli Stati Uniti"), è un'organizzazione temporanea nata su iniziativa della seconda amministrazione Trump e guidata da Elon Musk.  Matthew Karp è professore associato di storia all'Università di Princeton, specializzato nello studio della guerra civile americana e del suo rapporto con il mondo del XIX secolo. È autore di This Vast Southern Empire: Slaveholders at the Helm of American Foreign Policy (2016).

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    Il falcone maltese # 3: dal ritorno all’ordine alla critica sociale: manieri, cottages e bassifondi Roberto Gelini Mauro Trotta nella sua rubrica <> ci porta ad esplorare un altro tipo di letteratura crime noto come hard boiled . Si passa da un romanzo giallo dove l’indagine è mirata a ripristinare l’ordine costituito in un ambiente patinato e borghese, ad un ambiente fatto di bassifondi e dove i protagonisti sono gangstar, criminali, dark lady. Gli esponenti principali di questo filone sono Dashiell Hammett e Raymond Chandler. Chandler non scriverà solo romanzi ma sarà anche sceneggiatore di diversi film tra cui lavorerà alla sceneggiatura di una delle pellicole più note di Alfred Hitchcock, L’altro uomo . Al momento della nascita del poliziesco, è possibile rintracciare nelle opere elementi di resistenza all’avvento del capitalismo. Elementi che abbiamo visto all’opera nel singolo autore – da Poe a Conan Doyle – ma che possiamo ritrovare anche nella costellazione di personaggi che, all’inizio del Novecento, si affiancano a Sherlock Holmes nel raggiungere elevatissimi livelli di popolarità all’interno del panorama narrativo del crime . Condividono, infatti, il grande successo del detective per eccellenza, figure che non si ergono assolutamente a difensori della società ma, all’opposto, sono criminali, nemici pubblici. Certo, si tratta di villain  particolari, ladri gentiluomini e spietati trasformisti come Arsène Lupine, ideato da Maurice Leblanc, e Fantômas, creatura di Marcel Allain e Pierre Souvestre. Ben presto, però, anche la letteratura di consumo, e il poliziesco in particolare, dovrà essere adeguato alla nuova ideologia che va informando il mondo sviluppato.  Dal 1848, l’anno delle rivoluzioni, si erano viste all’opera le nuove classi rivoluzionarie. Non solo la borghesia, che ormai reclamava la totalità del potere politico dopo aver conquistato quello economico, ma soprattutto il proletariato che spingeva nel nome di una società socialista. Si affermava la cultura di massa, ma sulla scena della storia si affacciavano anche e soprattutto quelle che qualcuno ha definito «le classi pericolose». Si trattava, allora, di difendere lo stato delle cose, garantire la nuova morale borghese e, soprattutto, consolidare il potere acquisito anche a livello dell’immaginario collettivo. È in questo contesto che prende piede il poliziesco classico, il whodunit , l’enigma della camera chiusa. Lo schema di base è semplice: il delitto mette in crisi l’ordine costituito, che deve essere restaurato scoprendo il colpevole ed «eliminandolo» dalla scena sociale. La razionalità – la stessa razionalità del sistema capitalistico – consente all’investigatore di svelare l’arcano e ripristinare l’ordine violato. Certo, da sempre, il delitto rappresenta una ferita dell’ordine sociale, anche in Poe o Conan Doyle. Adesso, però, la garanzia di difendere lo status quo, a livello simbolico, diventa centrale nell’economia di valori trasmessi dal romanzo poliziesco. Non a caso le storie si svolgono sempre in un contesto borghese o aristocratico, quasi a sottolineare quale ordine è in pericolo e quale società è sempre comunque in grado di difendersi. Gli autori sono quelli del periodo d’oro del giallo, scrittori del livello di Agatha Christie, con i suoi Hercule Poirot e Miss Marple, S. S. Van Dine, creatore di Philo Vance e autore delle Venti regole per scrivere romanzi polizieschi . Ambientati originariamente in Inghilterra o negli Stati Uniti, i romanzi di questo tipo, incentrati comunque su un mistero, continuano ancora oggi – chiaramente con le dovute modifiche – a essere prodotti. Inoltre, nel periodo d’oro, va diminuendo l’opposizione protagonista-poliziotti, fino ad arrivare a una sorta di integrazione con Ellery Queen, dove il protagonista è il figlio dell’ispettore capo della squadra Omicidi e chiaramente collabora con la polizia.  Del resto, forse, il genere poliziesco potrebbe nascere da un’altra integrazione in qualche modo sorprendente, quella tra ladro e gendarme. Si tratterebbe di spostare la sua origine più indietro nel tempo, prima di Poe fino al periodo napoleonico, a François Vidocq, ladro, criminale, evaso, capo e fondatore della Sûreté  francese, in cui arruolò parecchi ex criminali. Nel 1828, dopo essersi ritirato dalla polizia, Vidocq pubblicò le sue memorie, che ebbero un grandissimo successo. Fondò nel 1833 anche il Bureau de renseignements pour le commerce, la prima agenzia di investigatori privati di Francia. Mentre il giallo – incentrato sulla risoluzione di un mistero, di un crimine che viola l’ordine del mondo e che va dunque ricostruito scoprendo e punendo il colpevole – continua per la sua strada arrivando fino a oggi, qualcosa di nuovo si affaccia sulla scena del romanzo poliziesco.  Si tratta di un nuovo tipo di crime story, completamente agli antipodi di quello che è ormai il romanzo poliziesco tradizionale. Se questo si svolge in ambienti medio alto borghesi o addirittura aristocratici, il romanzo nuovo spesso vede personaggi che si muovono nei bassifondi, nei luoghi più pericolosi della città. Protagonisti e comparse non sono gentiluomini azzimati e gentildonne sofisticate, circondati dalla loro servitù, ma in genere gangster o mezze tacche del crimine. L’azione non si sviluppa seguendo esclusivamente le volute dei ragionamenti del detective, ma per tentativi concreti, andando a cercare indizi e risposte nei luoghi più diversi e consumando la suola delle scarpe, per così dire, e facendo a botte più che mettendo in moto «le celluline grigie». Emerge, poi, una figura ormai mitica della letteratura poliziesca – e non solo – la «dark lady», la «femme fatale».  Il nuovo giallo nasce negli Stati Uniti ed è subito noto col nome di «hard boiled». I suoi esponenti più importanti sono senza dubbio Dashiell Hammett e Raymond Chandler. La sua nascita è rintracciabile a partire dagli anni Venti del Novecento. Hammett crea Continental Op nel 1923 e Sam Spade (il detective protagonista di The Maltese Falcon ) nel 1929. È stato lui stesso investigatore privato e ha lavorato per la mitica agenzia Pinkerton. Ha un’esperienza diretta, dunque, della materia che tratta nei suoi libri. È stato iscritto al Partito comunista degli Stati Uniti d’America. Negli anni Cinquanta si rifiutò di rispondere alla commissione per la repressione delle attività antiamericane del famigerato senatore Joseph McCarthy e fu condannato a sei mesi di carcere per oltraggio alla corte.  Raymond Chandler inventa la figura di Philip Marlow tra il 1938 e il 1939. Nel suo saggio La semplice arte del delitto  attacca soprattutto per il suo scarso realismo il romanzo poliziesco tradizionale ed esalta la figura del suo predecessore Dashiell Hammett: «Hammett ha restituito il delitto alla gente che lo commette per un motivo, e non semplicemente per fornire un cadavere ai lettori; e con mezzi accessibili, non con pistole da duello intarsiate, curaro e pesci tropicali». Lavorerà come sceneggiatore a Hollywood e non si occuperà soltanto della versione cinematografica dei propri romanzi, ma parteciperà alla sceneggiatura di altri capolavori del cinema giallo. Collaborerà, infatti, con Billy Wilder alla sceneggiatura di La fiamma del peccato , tratto dal romanzo di un altro grande esponente dell’ hard boiled, James M. Cain, e lavorerà alla sceneggiatura di uno dei film più noti e più belli di Alfred Hitchcock, L’altro uomo , noto anche col titolo di Delitto per delitto , ispirato abbastanza liberamente da Sconosciuti in treno  di Patricia Highsmith. Mauro Trotta ha lavorato per vent’anni nel campo della comunicazione e dell’editoria. Ha partecipato insieme a Sergio Bianchi alla fondazione della rivista «DeriveApprodi». Da oltre vent’anni collabora alla pagina culturale de «il manifesto». Dal 2005 insegna materie letterarie nei licei e negli istituti letterari. Ha partecipato, curato e pubblicato libri sulla pubblicità, sui movimenti e sugli anni settanta.

  • comp/art

    Istanbul: cronaca di una generazione dietro le sbarre momenti in cui un giovane in costume da derviscio rotante si annoiava, immortalati dal fotoreporter della Reuters Ümit Bektaş L’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu candidato del CHP all’elezioni presidenziali del 2028 ha innescato una serie di proteste che si sono diffuse in tutta la Turchia. Il sindaco di Istanbul,  ancora in carcere, insieme ad altri suoi sostenitori è stato accusato di favoreggiamento al terrorismo. Ceyda Baytas ci racconta i giorni della protesta, del protagonismo dei giovani, degli artisti e della generazione Gezi Park. Ci racconta che in Turchia si scende in piazza per denunciare l’autoritarismo di Erdogan ma è la protesta di tutti coloro che nel mondo assistono alla trasformazione delle democrazie in finzione: <<[...] se c’è qualcosa che la Generazione Z ha insegnato al pubblico è come la repressione generi reinvenzione. Non è solo la rabbia a essere diversa, è l’articolazione di quella rabbia. E non si tratta solo una storia turca, ma di una storia globale.>>. Sì, tutto questo è iniziato con İmamoğlu. Sì, riguarda Istanbul. Sì, a vent’anni non ci si aspetta che io scriva questo articolo. Eppure, lo faccio. Eppure, riguarda ogni città sotto il peso di un governo che ha dimenticato di essere al suo servizio. Riguarda ogni studente che continua il proprio percorso quando il diploma che otterrà non sarà nemmeno certo di essere valido tra qualche anno. Riguarda ogni donna che marcia, ancora e ancora, rifiutandosi di essere messa a tacere. Ogni artista che continua a dipingere. Il mondo dovrebbe guardare. Non solo per la storia distopica di Türkiye, ma perché offre uno specchio a ciascuno. Uno specchio che riflette quanto fragile diventi una democrazia quando le definizioni di diritti, legge e giustizia si confondono, quando la finzione diventa legge. Quello che verrà dopo non è scritto. Ma non sarà silenzioso. Non più. Sono stata picchiata e arrestata. Dopo il mio arresto, un poliziotto barbuto, alto un metro e novanta, mi ha toccato il seno. Ho avuto paura e mi sono fatta la pipì addosso. Le poliziotte mi hanno pressata per non fare denuncia... Sono stata ammanettata dietro la schiena e un poliziotto ha premuto il piede sulla mia testa... La mia famiglia non è stata avvisata. Ho dovuto aspettare 24 ore in una cella di detenzione con i vestiti bagnati di urina.  Testimonianza di una manifestante di Istanbul Istanbul non è mai stata estranea alla resistenza. Eppure, l’attuale ondata di disordini è diversa da qualsiasi altra. È una reazione esplosiva dopo anni di oppressione politica, depressione economica e di palese smantellamento della democrazia, che ora sta raggiungendo un punto di rottura di fronte alla brutalità dello Stato. Il grilletto? Il bersaglio politico di Ekrem İmamoğlu, sindaco di opposizione di Istanbul, candidato per le prossime elezioni presidenziali del 2028. Per anni, il governo ha cercato di rimuoverlo dalla sua posizione, temendone l’influenza sul cuore della cultura e dell’economia della Turchia. Dopo la vittoria alle municipali del 2019, dove ha vinto non una, ma due volte con una percentuale del 54,22%, gli attacchi alla sua persona hanno preso una brutta piega. Il culmine è stato quando le autorità dell’Università di Istanbul hanno dichiarato che la sua laurea non era valida, ostacolando così la sua possibilità di candidarsi alle elezioni presidenziali. Lo scandalo ha suscitato un’immediata indignazione popolare che si è espressa inizialmente attraverso i social. Invalidare la laurea di İmamoğlu significava cancellare la scelta democratica e inaugurare un pericoloso precedente per il quale nulla sarebbe stato più certo. Se è possibile alterare un diploma, cos’altro si può manipolare? La situazione è peggiorata quando, nel giro di pochi giorni, il 19 marzo alle 7.00 del mattino, Ekrem İmamoğlu è stato arrestato con l’accusa di «costituzione e guida di un’organizzazione criminale, frode e appropriazione indebita, collaborazione con organizzazioni terroristiche». Mentre il Tribunale ha respinto l’accusa di terrorismo, İmamoğlu è stato ritenuto colpevole di altri reati. Nella stessa operazione sono stati arrestate oltre un centinaio di persone. I leader del CHP hanno condannato gli eventi etichettandoli come «tentativo di colpo di stato». Nel giro di pochi giorni, Istanbul è diventata irriconoscibile. Milioni di abitanti hanno occupato le strade. Tra studenti, lavoratori, insegnanti, c’erano i figli di coloro che una volta avevano protestato al Gezi Park. E, oggi come allora, l’attuale sfida riecheggia quella dei genitori e il governo risponde con la forza, ignorando le istanze collettive. La risposta è stata rapida e spietata. Migliaia di poliziotti dispiegati durante la notte hanno trasformato le aree chiave delle proteste in zone militari. Il ruolo della polizia è andato oltre il controllo della folla: cannoni ad acqua, gas, lacrimogeni, proiettili di gomma. La volontà era quella di disumanizzare le persone con arresti privi di accuse e detenuti privi di avvocati. Le stazioni di polizia erano sovraffollate, mentre gli agenti recintavano letteralmente la folla chiudendola in spazi pubblici e parchi. Le barricate di veicoli blindati bloccavano piazza Taksim, le aree di protesta venivano interrotte. L’accesso ai social media, come X, è stato interdetto. Il messaggio di chi detiene il potere è chiaro: qualsiasi forma di resistenza è accolta con la più feroce brutalità. Ma gli abitanti di Istanbul hanno rifiutato il silenzio. Le proteste si sono rapidamente diffuse in tutta la Turchia e nel mondo. Man mano che crescevano, anche le tattiche di forza aumentavano. Il silenzio non era più un’opzione e la gente trovava nuovi modi di protestare, scioperare e farsi sentire. momenti in cui un giovane in costume da derviscio rotante si annoiava, immortalati dal fotoreporter della Reuters Ümit Bektaş Nel processo di arresto di Ekrem İmamoğlu, gli studenti hanno marciato con slogan e striscioni vicino all’Università di Istanbul, a Saraçhane e in piazza Beyazıt. La polizia antisommossa, equipaggiata con caschi e scudi, ha cominciato a usare una violenza sproporzionata per disperdere i gruppi. Ogni civile è stato trattato come minaccia da neutralizzare. I manifestanti si rifugiavano negli androni, alcuni negli alberghi. Non importava dove cercassero rifugio, nessuno si sentiva davvero al sicuro. La polizia arrestava chiunque rifiutandosi di fornire giustificazioni legali chiare. 301 studenti sono stati arrestati. Tuttavia ai sensi dell’articolo 3 della legge turca sulle riunioni e le manifestazioni (2911 sayılı Toplantı ve Gösteri Yürüyüşleri Kanunu), tutti hanno il diritto di organizzare dimostrazioni e marce pacifiche senza autorizzazione preventiva, purché siano disarmate e non violente, per scopi non considerati criminali dalla legge. Costoro provenivano da diversi background, in vari settori di studio e regioni, con un pensiero comune: l’impegno per i valori democratici e la volontà di opporsi all’ingiustizia del governo. Mentre urlavano a gran voce «hak, hukuk, adalet (diritti, legge, giustizia)», 301 di loro venivano caricati e fermati. In carcere alle donne è stato negato l’accesso ai prodotti igienici essenziali durante il ciclo mestruale. Sono state lasciate senza cibo e acqua fino a 18-20 ore. Alcuni rapporti indicano che gli studenti condividevano la cella con assassini e criminali di professione. Il gruppo di advocacy legale SOL Hukuk ha denunciato gli abusi da parte dei «capi-cella» e ha richiesto il trasferimento degli studenti. Alla Centrale della polizia di Vatan, le condizioni erano ancora peggiori: temperature sotto lo zero, nessun letto e isolamento. Domenica 23 marzo, quindici milioni di cittadini di tutta la Turchia e del mondo hanno partecipato a un voto ufficiale per esprimere il loro sostegno a Ekrem İmamoğlu mentre protestavano contro l’invadenza del governo. Le primarie inizialmente pianificate dal CHP per nominare İmamoğlu candidato presidenziale, si sono trasformate in un atto di solidarietà non solo nelle 81 province della Turchia, ma anche all’estero. Da Londra a Boston, file interminabili di persone hanno espresso il proprio voto simbolico. È stato implementato un sistema a doppia sezione per garantire l’inclusività. Una sezione era designata ai membri registrati del CHP, mentre una sezione di «Sostegno e Solidarietà» accoglieva i non membri e i sostenitori internazionali. I risultati hanno segnato una vittoria collettiva. In molti luoghi, le schede stampate con un solo nome – Ekrem İmamoğlu – sono finite rapidamente, e il tempo di votazione è stato prolungato a causa della folla. I video hanno inondato i social media dove, in più epicentri del movimento, come Kadıköy a Istanbul, le file si estendevano per interi isolati sin dalla luce dell’alba. Tuttavia, i momenti più toccanti sono stati quelli delle storie personali. Votanti anziani, in sedia a rotelle o con serbatoi di ossigeno portatili, insistevano per partecipare di persona. In ogni fila c’erano anche adolescenti che non potevano votare, ma volevano fare il loro «coming of age» politico. Saraçhane resistance. Source unknown I media filogovernativi hanno ignorato il voto, le proteste e gli arresti. In alcuni casi li hanno dipinti come «provocazione». Le principali fonti di informazione sono rimaste in silenzio sull’argomento, mentre altre trasmettevano soap opere. Le proteste principali, come quelle a Saraçhane, con milioni di persone in strada brutalmente picchiate, hanno avuto una copertura quasi nulla sui canali statali. Questi si sono concentrati su storie neutre o irrilevanti, creando l’illusione di una provocazione da parte dei manifestanti. Solo una manciata di piattaforme giornalistiche come Sözcü TV e Halk TV ha osato documentare le proteste con piena trasparenza. La loro ricompensa? Divieto di pubblicazione.Nello stato distopico della Turchia di oggi, i paralleli con 1984 di George Orwell sono innegabili. RTÜK (Consiglio Supremo della Radio e della Televisione) ha inflitto multe a stazioni come Now TV o Halk TV per violazioni gravi e ha imposto un blackout di dieci giorni a Sözcü TV per la sua trasmissione in diretta delle proteste. Accusando di «incitare l’odio e l’ostilità pubblica», RTÜK ha anche dichiarato che se le violazioni fossero continuate per una terza volta, Sözcü TV sarebbe stata soggetta a una sanzione di revoca della licenza. Dopo il riconoscimento del crescente blackout mediatico, il leader del CHP, Özgür Özel, ha dichiarato pubblicamente che stavano monitorando le emittenti che censuravano le proteste e gli incontri dell’opposizione. Contemporaneamente veniva compilata una lista. Per indebolire l’influenza del governo sui media e sul commercio, Özgür Özel ha organizzato un boicottaggio nazionale di diverse aziende e marchi visti come sostenitori del potere centrale. Tra i principali obiettivi c’erano anche i media compiacenti. La lista di Özel comprendeva il boicottaggio di aziende come Espressolab, una catena di caffè molto popolare per i suoi legami con il governo, e D&R, una catena filogovernativa di librerie. Lo sciopero dei consumi non è stato solo un atto simbolico, ma un tentativo di sfidare le strutture di potere che sostengono la narrativa ufficiale. Per il pubblico, si è trattato di un’opportunità di partecipare a un’azione diretta contro il mantenimento di un regime autoritario e violento. Rifiutandosi di comprare dalle aziende in elenco, i cittadini hanno inviato un potente messaggio. La gente consumava quello che aveva in casa, si scambiava i prodotti, non comprava più arrangiandosi alla meglio per giorni. I siti web di diverse aziende sono stati temporaneamente chiusi, causando significative interruzioni nelle vendite. Il punto di svolta è arrivato il 2 aprile, quando il boicottaggio economico si è esteso su larga scala in tutto il Paese. Una rete interuniversitaria, composta da studenti provenienti da vari istituti della Turchia, ha proclamato la data del 2 aprile, come giorno ufficiale per un boicottaggio economico nazionale. Questo non si è limitato alle sole attività commerciali menzionate da Özgür Özel, ma ha interessato tutto il paese. Con l’aumentare del tempo trascorso in carcere dai loro compagni, la Generazione Z è diventata sempre più consapevole del potere che deteneva. Questo innovativo appello all’azione si è diffuso a macchia d’olio. Migliaia di persone hanno condiviso i dettagli dello sciopero dei consumi sui social media. Grazie alla tecnologia, gli studenti hanno raggiunto milioni di utenti in tutto il Paese. I social media sono diventati la spina dorsale di questo movimento, con video virali, storie e post ripubblicati, e audaci scritti sul boicottaggio che sono circolati alla velocità della luce, superando i tradizionali mezzi di organizzazione delle proteste. Nati nell’era digitale, gli studenti hanno sfruttato le loro capacità su internet per mobilitarsi e coordinarsi in modo più efficace di qualsiasi generazione precedente. Tra i più accesi critici della repressione governativa figurano artisti, attori e altre personalità culturali. In Turchia, dove l’arte svolge da tempo un ruolo cruciale nel plasmare l’opinione pubblica, molti di questi individui hanno offerto il loro sostegno allo sciopero economico sui social. Attori e attrici di spicco, in spettacoli in corso, sono stati licenziati e arrestati. Questo approccio punitivo non si è limitato a loro ma ha coinvolto anche i loro partner e sostenitori incappati in reazioni analoghe. Fan e concittadini si sono mobilitati sui social media esprimendo loro solidarietà. L’atto riflette un modello più ampio degli sforzi governativi volti a mettere a tacere e censurare le voci dei cittadini. Eppure, nonostante queste difficoltà, i social media hanno fornito immagini di bar, attività commerciali e mercati chiusi, a testimonianza del successo dello sciopero. Il 2 aprile, la spesa con carta di credito in Turchia è diminuita significativamente rispetto alle medie nazionali di gennaio e febbraio. È stata registrata una diminuzione di circa il 38% delle transazioni. Ciò che ha distinto la protesta sono stati i metodi avanzati di organizzazione e mobilitazione. A differenza delle generazioni precedenti, che si affidavano alla leadership dei politici, gli attivisti di oggi sono sempre più lontani dai partiti convenzionali. Non aspettano che i politici costruiscano il loro futuro, ma desiderano costruirlo insieme, mano nella mano. Molti studenti hanno espresso la loro crescente frustrazione all’idea di seguire ciecamente figure politiche, che ritengono lontane dal comprendere i loro bisogni. Non hanno paura di far sentire la propria voce, nonostante i tentativi di metterla a tacere. Stanno ridefinendo il panorama politico, rimodellando il significato di «apoliticità» nel mondo distopico della Turchia, poiché per molti il ​​silenzio non è più tollerato.Quello che succederà in seguito è incerto. Ma una cosa è chiara: c’è speranza nonostante la risposta del presidente, il quale ha intimato altri arresti se dovessero esserci nuove proteste. Seguiranno ancora i blackout mediatici e il tentativo di mettere a tacere. Ma se c’è qualcosa che la Generazione Z ha insegnato al pubblico è come la repressione generi reinvenzione. Non è solo la rabbia a essere diversa, è l’articolazione di quella rabbia. E non si tratta solo una storia turca, ma di una storia globale. Riguarda la lenta combustione dell’autoritarismo, la normalizzazione della brutalità della polizia, i modi del silenzio venduti come scudo. Riguarda i giovani che dovrebbero essere a scuola, uscire con gli amici, trascorrere il Bayram a casa con la famiglia, incontrandosi per strada anziché dietro le sbarre. Sì, tutto questo è iniziato con İmamoğlu. Sì, riguarda Istanbul. Sì, a vent’anni non ci si aspetta che io scriva questo articolo. Eppure, lo faccio. Eppure, riguarda ogni città sotto il peso di un governo che ha dimenticato di essere al suo servizio. Riguarda ogni studente che continua il proprio percorso quando il diploma che otterrà non sarà nemmeno certo di essere valido tra qualche anno. Riguarda ogni donna che marcia, ancora e ancora, rifiutandosi di essere messa a tacere. Ogni artista che continua a dipingere. Il mondo dovrebbe guardare. Non solo per la storia distopica di Türkiye, ma perché offre uno specchio a ciascuno. Uno specchio che riflette quanto fragile diventi una democrazia quando le definizioni di diritti, legge e giustizia si confondono, quando la finzione diventa legge. Quello che verrà dopo non è scritto. Ma non sarà silenzioso. Non più. Ceyda Baytaş è una giovane artista e narratrice turca. Studia alla NABA di Milano. Questa è la sua prima pubblicazione.

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    Il popolo vs l'abisso: la Dichiarazione di Sarajevo del Tribunale di Gaza Thomas Berra Di fronte al genocidio perpetrato dall'Occidente e da Israele contro il popolo palestinese e all'inerzia dei governi, il Tribunale di Gaza riconosce che la sfida della giustizia spetta al popolo, alla resistenza legittima, agli atti di solidarietà, alla società civile, ai movimenti sociali e alle persone coscienti di tutto il mondo. Questo articolo originariamente pubblicato su Mondoweiss  è stato ripubblicato con l'espressa autorizzazione del suo editore Un tribunale del popolo  Quasi sessant'anni fa il mondo ha assistito con orrore alla brutale aggressione perpetrata dagli Stati Uniti nel corso di una serie infinita di atrocità commesse contro il popolo vietnamita. Queste atrocità, e l'apparente impunità di cui godevano gli Stati Uniti nel commetterle, erano davvero intollerabili per un numero immenso di persone. Poiché nessuno Stato, gruppo di Stati o istituzione internazionale venne in aiuto del popolo vietnamita, fu presto chiaro che la libertà sarebbe potuta arrivare solo dalla resistenza popolare organizzata all'interno del Vietnam e da un movimento di solidarietà globale organizzato al di fuori dei suoi confini. In questo contesto, Bertrand Russell, eminente filosofo e intellettuale britannico, istituì il primo “tribunale popolare” come espressione organizzata dell'indignazione morale. Nel 1967 il filosofo si presentò davanti al Tribunale Russell e dichiarò: «Noi non siamo giudici. Siamo testimoni. Il nostro compito è quello di rendere l'umanità testimone di questi terribili crimini e di unirla a favore della giustizia».  Oggi, un altro tribunale popolare segue le orme di Russell, questa volta per affrontare il genocidio che il regime israeliano sta commettendo in Palestina, l'ideologia razzista che lo sostiene e la complicità delle potenze e delle corporazioni imprenditoriali occidentali che lo rendono possibile. Il Tribunale di Gaza  Costituito nel novembre 2024 e riunito per la prima volta a Londra nel febbraio 2025, il Tribunale di Gaza ha appena tenuto la sua prima riunione pubblica a Sarajevo (26-29 maggio 2025), durante la quale ha adottato la Dichiarazione  di Sarajevo. Il Tribunale di Gaza è stato creato da un altro celebre intellettuale pubblico, questa volta il professor Richard Falk, eminente professore di diritto internazionale, ex relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Palestina e attuale presidente del Tribunale di Gaza. Il Tribunale di Gaza riunisce pensatori e attivisti palestinesi e di tutto il mondo per affrontare non solo gli orrori coloniali e genocidi perpetrati dal regime israeliano in Palestina, ma anche la complicità degli Stati, delle grandi aziende, dei media e dei gruppi di potere che agiscono come delegati di Israele in Occidente, nonché l'inerzia o la risposta inadeguata della maggior parte dei paesi e delle istituzioni del mondo, sia a livello nazionale che internazionale.  Il Tribunale di Gaza è strutturato in tre “sezioni” ed esamina questioni relative (1) al diritto internazionale, (2) alle relazioni internazionali e all'ordine mondiale, e (3) alla storia, all'etica e alla filosofia, analizzando tutti gli aspetti coinvolti nella lotta contro il genocidio e per la libertà della Palestina. Tenendo conto delle testimonianze dei sopravvissuti, delle testimonianze degli esperti e dell'analisi dei suoi membri, il Tribunale di Gaza convocherà infine un “giuria di coscienza”, che si pronuncerà alla fine di quest'anno. Al momento, il Tribunale sta raccogliendo il relativo fascicolo probatorio. La Dichiarazione  di Sarajevo, adottata dal Tribunale di Gaza il 29 maggio 2025, riassume la sua concezione della risposta morale globale adeguata alla Nakba, che oggi si sta perpetrando in Palestina. Perché un tribunale?  Il lavoro del Tribunale di Gaza si basa su una premessa fondamentale: che il popolo palestinese è costituito da esseri umani dotati di diritti umani, tra cui il diritto all'autodeterminazione, il diritto di tornare alle proprie case in qualsiasi parte della Palestina storica, il diritto all'uguaglianza davanti alla legge e il diritto di vivere liberi dalla paura e dal bisogno. Il Tribunale di Gaza riconosce che l'allineamento delle forze reazionarie che stanno perpetrando il genocidio in Palestina rappresenta attualmente una minaccia esistenziale per la sopravvivenza del popolo palestinese, per la pace e la sicurezza internazionali e per il progetto di un ordine internazionale giusto. Il Tribunale di Gaza parte ugualmente dal riconoscimento che i governi e le istituzioni internazionali, apparentemente istituiti per mantenere la pace e la sicurezza e promuovere i diritti umani e il diritto internazionale, hanno fallito nel porre fine all'impunità del regime israeliano e nel rispondere in modo efficace al genocidio e a un secolo di persecuzione coloniale in Palestina. In quanto tale, il Tribunale di Gaza riconosce che la sfida della giustizia spetta al popolo, alla resistenza legittima, agli atti di solidarietà, alla società civile, ai movimenti sociali e alle persone coscienti di tutto il mondo. Comprende la necessità di mobilitare il potere di milioni di persone per sfidare i crimini del regime israeliano e dei suoi complici, per isolarlo e per dissentire attivamente dalla complicità dei nostri governi e delle nostre istituzioni. Il Tribunale di Gaza intende contrastare le forze del male con le forze della giustizia, esercitando pressione su tutti i settori coinvolti e chiarendo in modo inequivocabile che il genocidio non sarà normalizzato, che l'apartheid non sarà normalizzato, che il colonialismo non sarà normalizzato e che la Palestina sarà libera. Questo è il grido di coscienza del Tribunale di Gaza. Un appello a tutte le persone perbene affinché si oppongano all'anarchia e alla brutalità dei potenti attori coinvolti nel genocidio perpetrato in Palestina, in primo luogo il regime israeliano, ma anche gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania e i loro collaboratori.  Cosa non è il Tribunale di Gaza  Sebbene il Tribunale di Gaza possa contare su alcuni dei più competenti avvocati e giuristi internazionali del pianeta, non è un meccanismo giudiziario o giuridico formale, ma un'assemblea della società civile, dei movimenti, dei pensatori e degli attivisti, e delle persone coscienti determinate a porre fine agli orrori che tutti siamo costretti a vedere in Palestina. Il Tribunale di Gaza non ritiene inoltre che per agire debba attendere che si pronunci uno o l'altro dei tribunali internazionali esistenti, il che potrebbe richiedere anni. Di fronte a un'esigenza storica come il genocidio, i membri del Tribunale di Gaza ritengono che la deferenza passiva nei confronti delle istituzioni ufficiali sia moralmente indifendibile.  A differenza di un tribunale, il Tribunale di Gaza parte dal riconoscimento della realtà del genocidio, dell'apartheid e del colonialismo dei coloni, che i suoi membri considerano realtà innegabili. Questi crimini sono stati confermati da tempo da importanti organizzazioni per i diritti umani, da organismi delle Nazioni Unite e da esperti di genocidio e non ammettono più alcun ragionevole dubbio. Infatti, questa aggressione perpetrata a Gaza è stata giustamente definita «il primo genocidio trasmesso in diretta su Internet». Mentre le istituzioni ufficiali discutono all'infinito, se sta calando la notte, il popolo palestinese sa che l'oscurità è già qui e questo significa che tutti noi abbiamo l'obbligo morale di trovare il modo di riportare la luce. Pertanto, il Tribunale di Gaza ritiene che sia un imperativo morale urgente affrontare questi crimini ora, con tutto il potere e la determinazione che possono essere mobilitati nella società.  Il Tribunale di Gaza si differenzia anche da molte istituzioni ufficiali perché non cade nell'evasività morale così comune tra i governi e le istituzioni ufficiali, compresi gli uffici politici delle Nazioni Unite. Il Tribunale di Gaza rifiuta l'applicazione retorica dell'approccio “di entrambe le parti” a una situazione come quella che prevale in Palestina, in cui le due parti sono la parte colonizzatrice e la parte colonizzata, la parte occupante e la parte occupata, la parte oppressiva e la parte oppressa, la parte perpetratrice del genocidio e la parte vittima dello stesso. Il Tribunale di Gaza non riconosce inoltre alcuna eccezione che esenterebbe Israele dal rispetto del diritto internazionale, così spesso invocata dalle potenze occidentali sia per rafforzare l'impunità dello Stato israeliano, sia per proteggere i singoli autori israeliani dalla corrispondente responsabilità. Ma o la legge è reale e si applica a tutti allo stesso modo, oppure è una menzogna, un'arma perfida di oppressione e sottomissione nelle mani del potere. Il Tribunale di Gaza si schiera chiaramente dalla parte dello Stato di diritto. Il Tribunale di Gaza respinge infine gli ordini di silenzio imposti dal regime israeliano, dai suoi alleati occidentali e dai suoi rappresentanti, nonché dai media complici. Il Tribunale di Gaza parla apertamente delle cause profonde, delle parole che gli Stati e le istituzioni ufficiali spesso si rifiutano di pronunciare, come sionismo, colonialismo dei coloni, etnosupremacismo e apartheid, perché sono alla radice del problema. Il Tribunale di Gaza affronta direttamente il genocidio, senza distogliere lo sguardo, senza ricorrere ai soliti trucchi retorici («solo un tribunale può dichiarare il genocidio»), che i funzionari dell'ONU usano spesso per eludere la questione.  Il Tribunale di Gaza lo fa non solo perché è moralmente giusto, ma anche perché riconosce la semplice verità che nessun conflitto può essere risolto senza prestare attenzione alle sue cause profonde. E a questo punto dovrebbe essere chiaro a tutti che la crisi palestinese non si risolverà riportando in vita il cadavere putrefatto del processo di Oslo, istituendo bantustan palestinesi o brandendo la promessa amorfa di una soluzione a due Stati in un momento indeterminato del futuro. Come dimostra la sua Dichiarazione  di Sarajevo, il Tribunale di Gaza dice la verità ad alta voce e ha il coraggio di esigere giustizia reale invece di retorica vuota o premi di consolazione assolutamente privi di significato. Una dichiarazione di coscienza e un appello all'azione.  La Dichiarazione  di Sarajevo si propone quindi come antidoto alla confusione morale, alle narrazioni distorte e alla complicità silenziosa che hanno dominato le posizioni ufficiali negli ultimi diciannove mesi, anzi, negli ultimi settantasette anni. La Dichiarazione  di Sarajevo è un appello alla coscienza, che affronta direttamente la lotta contro l'oscurità, la malvagità del regime israeliano, la sua ideologia e le sue azioni, nonché contro i suoi collaboratori. E fornisce una piattaforma per l'azione collettiva su cui le persone possono organizzarsi. Pertanto, nella Dichiarazione  di Sarajevo, il Tribunale di Gaza dichiara la sua indignazione morale per il genocidio e gli innumerevoli crimini commessi dal regime israeliano, la sua solidarietà con il popolo palestinese e il suo impegno a lavorare con i partner della società civile mondiale per porre fine al genocidio e garantire che i responsabili e i facilitatori siano chiamati a rispondere delle loro azioni, che le vittime e i sopravvissuti ottengano riparazione e che sia creata una Palestina libera. La Dichiarazione  di Sarajevo chiede la fine immediata di questi crimini, compresa l'occupazione, l'assedio, l'apartheid e il genocidio, nonché la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi. Essa invita inoltre tutti i governi e le organizzazioni internazionali ad agire. Denuncia tutti coloro che si sono resi complici dei crimini del regime israeliano, dagli Stati alle aziende mediatiche, alle industrie belliche e agli innumerevoli altri attori coinvolti nel genocidio palestinese. È importante sottolineare che la Dichiarazione  di Sarajevo esprime la convinzione che la lotta contro tutte le forme di razzismo, intolleranza e discriminazione includa necessariamente il rifiuto egalitario dell'islamofobia, del razzismo anti-arabo e anti-palestinese e dell'antisemitismo, nonché il riconoscimento dei terribili effetti del sionismo, dell'apartheid e del colonialismo dei coloni sul popolo palestinese. La Dichiarazione  di Sarajevo rifiuta esplicitamente «l'ideologia distruttiva del sionismo, come ideologia ufficiale del regime israeliano, delle forze che hanno colonizzato la Palestina e hanno stabilito lo Stato di Israele sulle sue rovine, e delle attuali organizzazioni e rappresentanti filoisraeliani». Chiede inoltre la decolonizzazione di tutto il territorio, la fine dell'ordine etnosupremazista e la sostituzione del sionismo con un sistema basato sull'uguaglianza dei diritti umani per cristiani, musulmani, ebrei e membri di altre confessioni. La Dichiarazione  di Sarajevo, esprimendo preoccupazione sia per le carenze del sistema internazionale che per gli attacchi contro le istituzioni internazionali che hanno sfidato il genocidio e l'apartheid in Palestina, chiede misure immediate per isolare, contenere e chiedere conto al regime israeliano. A tal fine, chiede il boicottaggio universale, il disinvestimento, le sanzioni, l'embargo militare, la sospensione della sua presenza nelle organizzazioni internazionali e il perseguimento penale degli autori di crimini di guerra, crimini contro l'umanità, genocidio, gravi violazioni dei diritti umani e complicità. La Dichiarazione  di Sarajevo denuncia l'ondata di persecuzioni e repressioni scatenata contro i difensori dei diritti umani, gli attivisti per la pace, gli studenti, gli accademici, i lavoratori e i professionisti, e rende omaggio a coloro che, nonostante queste persecuzioni, hanno avuto il coraggio e la convinzione morale di alzarsi e far sentire la propria voce. La Dichiarazione  di Sarajevo denuncia anche la tattica di diffamare come “antisemiti” o “sostenitori del terrorismo” tutti coloro che osano alzare la voce contro il regime israeliano e i suoi crimini. La Dichiarazione  di Sarajevo onora «la coraggiosa resistenza e la resilienza del popolo palestinese, nonché il movimento di milioni di persone che si solidarizzano con esso» e riconosce il diritto del popolo palestinese alla resistenza armata in conformità con il diritto internazionale. Ricorda che il diritto palestinese all'autodeterminazione è «jus cogens erga omnes, non negoziabile e assiomatico». La Dichiarazione  di Sarajevo rispetta ugualmente «le aspirazioni palestinesi e riconosce la piena capacità di azione e leadership del popolo palestinese su tutte le decisioni che riguardano la sua vita». Sebbene la Dichiarazione  di Sarajevo critichi l'incapacità della maggior parte delle istituzioni internazionali di agire in modo efficace contro il regime israeliano e i suoi crimini, riconosce anche gli attori internazionali che hanno agito con principi. Elogia la Corte internazionale di giustizia per la sua storica causa di genocidio contro il regime israeliano e per i suoi pareri consultivi storici sulla Palestina. Riconosce il Sudafrica per aver portato la causa di genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia. E chiede che venga accelerato il procedimento dinanzi alla Corte penale internazionale contro i responsabili israeliani, che gli Stati membri adempiano al loro obbligo di arrestarli e che gli Stati Uniti cessino la loro persecuzione della Corte. Anche le procedure speciali indipendenti del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite sono oggetto di elogio e la Dichiarazione  di Sarajevo le riconosce «per i loro contributi esperti e per le loro voci forti e fondate sui principi nel chiedere conto al regime israeliano e nel difendere i diritti umani del popolo palestinese». La Dichiarazione  di Sarajevo dichiara inoltre il suo particolare sostegno agli attori umanitari e agli organismi internazionali che hanno agito in difesa dei diritti del popolo palestinese, tra cui spicca l'UNRWA.  Non desisteremo dal nostro impegno: le parole finali della Dichiarazione  di Sarajevo La Dichiarazione  di Sarajevo si conclude con un monito: «Il mondo si sta avvicinando a un precipizio pericoloso, il cui bordo si trova in Palestina». Ritiene che le principali organizzazioni internazionali e la maggior parte dei paesi del mondo abbiano fallito nella difesa dei diritti umani del popolo palestinese e nella risposta al genocidio perpetrato dal regime israeliano in Palestina. E conclude dichiarando:  La sfida della giustizia spetta ora alle persone coscienti di tutto il mondo, alla società civile e ai movimenti sociali, a tutti noi. Come tale, il nostro lavoro nei prossimi mesi sarà dedicato ad affrontare questa sfida. Sono in gioco le vite dei palestinesi. È in gioco l'ordine morale e giuridico internazionale. Non dobbiamo fallire. Non desisteremo dal nostro impegno.  Craig Mokhiber è un avvocato internazionale specializzato in diritti umani ed ex alto funzionario delle Nazioni Unite, nonché membro del Tribunale di Gaza. Mokhiber ha lasciato l'ONU nell'ottobre 2023, dopo aver scritto una lettera molto diffusa in cui denunciava il genocidio a Gaza, criticava la risposta internazionale e chiedeva un nuovo approccio nei confronti della Palestina e di Israele basato sull'uguaglianza, i diritti umani e il diritto internazionale.

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