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- Paolo Virno

- 14 nov
- Tempo di lettura: 6 min
L’amicizia davanti alla morte

In questo testo del 2001 Paolo Virno riflette sull’ultimo tratto di tragitto esistenziale di un amico carissimo: Luciano Ferrari Bravo. (Il titolo del testo è della redazione)
Un anno fa, Christian telefona e dice che Luciano non ha più molto tempo. Il giorno dopo, sono a Padova. Luciano scende le scale interne del suo appartamento appoggiandosi al figlio, Federico. Molto magro, ma intatto. Nerella non gli ha preannunciato la visita. È contento dell’improvvisata, quest’uomo gentile. Parliamo, seduti nel salottino. Libri, mi chiede di mandargli un saggio su Vygotskij appena uscito. Politica, non ricordo. Rievocazioni di giornate al mare, a più riprese. Resoconti di liti e rappacificazioni. Amici che mandano saluti. Christian scherza sulla «bolla speculativa» dei mercati finanziari, evocata come un baubau dalla sinistra patetica. Luciano sorride. Più tardi, si cena insieme, in tanti. Parte il gioco delle battute e delle iperboli. Come in cella: a chi la spara più grossa. Luciano ha un gesto di insofferenza quando lo aiutiamo, «non sono mica Babbo Natale». La stanchezza prevale, deve coricarsi. Ci abbracciamo guardandoci negli occhi: un dio misericordioso mi evita di dire sciocchezze, tipo «ci vediamo presto». Soltanto due amici che si salutano una volta ancora.
Ventidue anni fa, l’estate del 1979 nel braccio speciale di Rebibbia, il G8. Dopo l’isolamento, mettono me e Lucio Castellano con gli altri imputati del «7 aprile». È l’ora d’aria, quando li raggiungiamo. Se ne stanno in fondo al piccolo cortile di cemento, appoggiati al muro per sfruttare l’ombra. Costumi da bagno, ciabatte, abbrutimento da cattività e calura. Ci vengono incontro da ogni lato, come un rimorso. Tra loro un uomo di trasandata eleganza (calzoni corti bianchi, da barca a vela), snello, con grandi baffi su un viso olivastro, asciutto. Luciano. Fino ad allora ne conoscevo soltanto i libri: in Potere operaio non ci si era mai incontrati. Cella in comune, con Toni e Emilio Vesce. Pallavolo, pacatezza, curiosità reciproca. La sua ironia vedendomi alle prese con il secondo libro del Capitale: un po’ tardi, no? Poi la diaspora: trasferimento «a strappo» che è ancora notte, ognuno in un diverso carcere speciale, Luciano a Favignana, a recitare la parte dell’abate Faria sotto il livello del mare. Di nuovo insieme tre mesi dopo, a Palmi calabro, prigione nuova di zecca per soli «politici». Dalla cella singola di Luciano, in certe giornate di gennaio con il cielo di smalto, si vedevano le isole Eolie. Molti anni dopo, dopo molto mare spartito insieme come la pagnotta dei primi cristiani, ho pensato all’incanto e allo scoramento che deve aver provato alla vista del profilo di Stromboli di là dalle sbarre.
I seminari a Rebibbia sull’incipit enigmatico della Fenomenologia dello spirito e sull’etica di Kant applicata ai «pentiti». Luciano anfibio, o almeno bifronte: metà vecchia scuola, pensiero forte, Marx Keynes Schmitt, metà Mille plateaux, rottura epistemologica del ’77, attenzione all’emergere di una «nuova specie» oltre l’epoca del lavoro salariato. Non si poteva prevedere da quale Luciano, se da Jekyll o da Hyde, sarebbe venuta l’obiezione a un argomento sbilenco. In certi casi memorabili, le due metà si coalizzavano, ibridandosi di buon grado in ossimori seducenti. È così difficile capire l’allegria e il benessere che può suscitare un passo avanti, anche solo ipotetico, nel lavoro sulle idee? Bisogna essere proprio degli spiritualisti incalliti per misconoscere il carattere corporeo, talvolta adrenalinico, di un’avventura concettuale.
Il giorno della sentenza, nel 1984, né lui né io andiamo in aula a farci impalare. Nel cortile, con la terra che in giugno è polvere e dune, giochiamo a tennis, mentre gli altri, vestiti a festa, vanno dall’oste a ritirare il conto. Le mani sudate, rigido come uno spaventapasseri reduce da un ictus, butto fuori tutte le palle. Ho preteso troppo da me stesso, non sono in grado di reggere tanto snobismo. Luciano invece si appassiona e smadonna e gioca di fino. Resterà, questa immagine di rilassatezza e virtuosismo, come un vademecum buono per affrontare ogni sorta di Giudizio Universale. Tornerà, questa immagine, a proposito del suo modo di morire, degli ultimi mesi (dal dicembre 1999 all’aprile successivo), quando discute per telefono delle aporie della sovranità e intanto ti tiene al corrente su di sé: le vie che gli restano per cavarsi dai guai, gli esiti non entusiasmanti delle cure, i primi dolori che lo sfiancano e lo allontanano, rendendo il dialogo asimmetrico.
(Dopo che morì Lucio Castellano, nel 1994, Luciano e io celebrammo insieme un sobrio rito in memoriam, percorrendo a nuoto un tunnel marino che avevamo esplorato anni addietro con il compagno nostro carissimo. Ora, di tanto in tanto, nuoto da solo in quel tratto di mare ricordando l’amico con cui ho ricordato l’amico. Per questa vertigine, i francesi hanno una buona espressione: en abyme).
Quindici anni fuori del carcere. Il miglior lettore, uno dei pochi cui si pensa mentre si scrive, presente ai bordi della pagina come il «coro di controllo» di cui parla Brecht, o il sorriso del gatto del Cheshire in Alice. Le discussioni periodiche, stagionali quanto i lavori di campagna, sempre semina e mai raccolto, i tentativi sfocati e quelli vividi di trovare la parola che squadrasse il foglio di fine millennio. Dopo la galera, Luciano non si è mai illuso che potessimo vivere una rivincita in grande stile. E ha rifuggito come la peste il risentimento astioso. Voleva un po’ di buona vita, questo sì, qualche giornata perfetta da degustare come un bicchiere di rosso o un libro ben temperato. E voleva, questo pure sì, una ricerca teorica a pieni polmoni, ambiziosa e spregiudicata, sulla grande trasformazione del lavoro, delle forme di vita, della compagine statale. L’ha voluta, una ricerca del genere, anche nell’ora del declino, essendo convinto che le faccende del mondo sublunare (leggi, governi, rivoluzioni) non diventano bazzecole neanche alla fine, se non per chi è già morto prima di morire.
Che Luciano abbia pensato con acume problemi essenziali della teoria politica, privilegiando i nodi più aggrovigliati e i paradossi meno addomesticabili, questo è noto alla parte migliore di due generazioni. In ogni caso, basta sfogliare la raccolta di scritti suoi, appena pubblicata, per rendersene conto. Ciò che qui vorrei ricordare è il modo in cui si è sforzato di riflettere sulla propria morte. Dei comportamenti si sa: pudore e decenza; risparmiare al prossimo, per quanto possibile, il disagio; l’immancabile «grazie» al medico che ha badato a lui negli ultimi giorni ciancicati e soporiferi. Ma oltre ai comportamenti, la riflessione in senso stretto. Se preferite: l’uso materialistico della cultura in una situazione di emergenza. Quando il tumore si manifestò la prima volta, e poi sembrò sconfitto, Luciano mi disse di aver riletto con voracità le pagine di Essere e tempo sulla finitezza, e il passo di Spinoza sull’eternità per gli atei, e La morte di Ivan Ilic di Tolstoj, per capire meglio quel che gli stava capitando e, anche, per sottoporre a ruvida verifica la tenuta di testi celebrati. Un doppio experimentum crucis: esperimento su di sé mediante i libri che contano, esperimento su quei medesimi libri mediante il proprio sé vulnerato. Mi colpì l’assoluta serietà del suo rapporto con le idee. Queste non se ne stavano altrove, neghittose e superflue, rispetto agli accadimenti estremi dell’esistenza, ma erano un attrezzo concretissimo, talvolta soccorrevole, semmai imperfetto come una vite spuntata. La malattia, dicono, fa piazza pulita dell’inessenziale: si vede che letture e pensieri, inessenziali non erano, per Luciano. Per un materialista come lui, era abbastanza ovvio che il verbo debba farsi carne.
Paolo Virno (Napoli, 1952 – Roma, 7 novembre 2025) è stato un filosofo e accademico italiano, docente di Filosofia del linguaggio, Semiotica ed Etica presso l’Università degli Studi Roma Tre. Formatosi nel movimento operaista, partecipò a Potere Operaio e contribuì alla fondazione della rivista Metropoli insieme a Oreste Scalzone e Franco Piperno. Dopo un periodo di detenzione negli anni Ottanta, sviluppò le sue teorie nella rivista Luogo Comune e DeriveApprodi.
Tra le sue opere principali si ricordano Parole con parole. Poteri e limiti del linguaggio (Donzelli Editore, 1995), Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee (DeriveApprodi, 2001), Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica (Ombre Corte, 2002), Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica (Bollati Boringhieri, 2013) e Dell’impotenza. La vita nell’epoca della sua paralisi frenetica (DeriveApprodi, 2022). La sua riflessione ha intrecciato linguistica, filosofia politica e teoria critica, offrendo strumenti originali per comprendere il lavoro, la soggettività e le dinamiche sociali nel capitalismo contemporaneo.

