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- Paolo Virno

- 10 nov
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 14 nov
L’esodo come teoria politica

Riproponiamo questo testo di Paolo Virno — venuto a mancare il 7 novembre 2025 all’età di 73 anni — come un tributo alla sua vita e al suo pensiero. Virno nel testo propone l’esodo — inteso come defezione o sottrazione — come modello etico-politico alternativo alla rivoluzione e alla protesta. L’esodo, lungi dall’essere una fuga passiva, viene presentato come una pratica attiva di trasformazione che opera attraverso l’abbandono dei ruoli, delle gerarchie e delle regole esistenti. Virno richiama Walzer, Hirschman e Marx, mostrando come la defezione rappresenti una forma radicale di cambiamento che si realizza nell’abbandono dei ruoli e delle regole dominanti. Negli anni Settanta, tale logica si manifesta nella sottrazione al lavoro salariato e nella ricerca di nuove forme di vita. L’esodo diventa così un paradigma politico fondato sull’elusione, sull’abbondanza di possibilità e sulla creazione autonoma di relazioni sociali. Esso unisce lo sradicamento contemporaneo a una nuova appartenenza critica e trasformativa.
È possibile concepire l’esodo, cioè la defezione, come un modello etico-politico a tutto tondo, anziché come un imbarazzante caso limite? È possibile, inoltre, considerarlo come il modello più attuale, assai prensile rispetto a fenomeni e comportamenti «complessi»? Prima di azzardare una risposta affermativa, cautela esige che si inventi una minuscola tradizione a proprio sostegno. Pochi testi, che però tracciano un sentiero. «Esodo e rivoluzione», di Michael Waltzer (Feltrinelli1986), mostra come tutta la tradizione politica occidentale abbia attinto al biblico libro dell’Esodo, ricavandone un canovaccio soggetto a variazioni infinite. Da Savonarola ai bolscevichi, la trasformazione radicale dell’esistente si è prospettata come abbandono di un Egitto, viaggio nel deserto, speranza nella terra promessa. Ma Waltzer – ecco il punto – sottolinea che l’Esodo ben sopporta una lettura non messianica: l’arrivo a Canaan, «terra del latte e del miele», non è la fine della storia, ma la ratifica delle trasformazioni che hanno già avuto luogo durante il viaggio. Un altro testo, molto noto, è: «Lealtà defezione protesta» di Albert O. Hirschmann, dove si sottolinea come l’opzione-uscita (abbandonare, se appena possibile, una situazione svantaggiosa) può costituire una via più radicale e più impegnativa rispetto all’opzione-protesta. Dell’Esodo, Hirschmann valorizza soltanto il momento iniziale: il distacco dall’Egitto, anche senza terra promessa, è un buon modo di temperare le pretese degli oppressori. Una terza suggestione: Marx, alla fine del primo libro del «Capitale», si sofferma sui guai che all’accumulazione capitalistica provoca la fuga operaia dal regime di fabbrica. Viene meno «l’esercito industriale di riserva» (insomma la pressione ricattatoria dei disoccupati), lievitano i salari, scema la subordinazione. Marx si interessa all’esodo verso Ovest, verso la «frontiera», cui inclinarono gli operai immigrati negli Usa dall’Europa. Costoro colsero l’occasione, davvero straordinaria, di rendere reversibile la propria condizione di partenza.
Suggestioni bibliografiche a parte, la nozione di esodo permette di capire qualcosa di più delle nostre società? Acumina la vista? Va da sé che, oggi, lo spostamento spaziale è soppiantato da una diversione sociale e culturale. L’esodo, metaforico ma non meno incisivo, si compie nelle mentalità e nell’ethos: ci si affranca da ruoli, gerarchie, stili di vita.
Nessuno è in grado di spiegare i comportamenti della nuova forza lavoro, a metà degli anni Settanta, se non tiene conto della defezione. A un certo punto – diciamo attorno al fatidico ’77 – accade che, mentre il padrone rende incerto il lavoro, molti sono coloro che, invece d’intimorirsi, al lavoro si sottraggono quanto più possono. Questa deviazione dal comportamento noto e previsto sbalordisce. Cos’è accaduto? Un Egitto viene abbandonato. Vale a dire: il tempo in fabbrica è percepito come un costo umano eccessivo, da ridurre a disavventura provvisoria. Il lavoro sotto padrone, anziché fonte di dignità, sembra socialmente «parassitario». Drastica è l’inversione di aspettative: rinuncia a premere per entrare in fabbrica e restarvi, ricerca di ogni via per evitarla o per allontanarsene. La mobilità, da condizione imposta, diventa regola positiva e principale aspirazione; il posto fisso, da obiettivo primario, si tramuta in eccezione o parentesi.
È a causa di tali propensioni, assai più che non per la violenza, che i giovani del ’77 si resero semplicemente indecifrabili per la tradizione del movimento operaio. Trascurando il moto di migrazione consapevole dal lavoro di fabbrica, si guarderà sempre a quel movimento come a una banda di allucinati. Peccato non veniale. Ogni «fuga», del resto, è fatalmente scambiata per un fenomeno di emarginazione, per un comportamento periferico e ininfluente. Nessun dubbio: c’è sempre uno storico egiziano pronto a redigere una cronaca invelenita dell’Esodo ebraico. E i fuggitivi, agli occhi del paese da cui si affrancano, appaiono come la schiuma della terra.
In precedenza si è accennato all’esodo come a un eventuale, potente modello etico-politico. Se questo è il gioco, giochiamolo tutto, indicando qualche tratto distintivo del preteso paradigma. Peraltro, dare rilievo all’esodo già simula un piccolo esodo dalla teoria politica, assuefatta a progettare miglioramenti fermi restando in Egitto.
1. L’esodo è un’esperienza di conflitto – e di positiva civilizzazione – imperniata sulla continua sottrazione ai ruoli stabiliti. Nel rapporto di forza tra le classi moderne, l’elusione non conta meno dello scontro diretto. Qualche volta, di più. Comunque, il confronto in campo aperto è sorretto, non indebolito, da una concomitante defezione.
2. Esodo significa cambiare il contesto in cui è insorto un problema, anziché affrontare quest’ultimo alle condizioni predefinite. Piuttosto che ritenere tali condizioni una costante, e le mosse da compiere al loro interno come l’unica variabile concessa, si fa l’opposto. Il contesto diventa la variabile principale. Abbandonando ruoli e regole prefissati, si rendono labili i presupposti fino ad allora giudicati indubitabili.
3. L’esodo consiste, innanzitutto, in un mutamento semantico. Se si ragiona accettando l’assioma, consueto ma scandaloso, che il lavoro salariato sia un valore positivo, ne seguono certi programmi e certe lotte. Se si fugge da questo significato prevalente, cominciando a ritenere il lavoro «un genere horror alla portata di tutti», allora la rappresentazione della realtà vigente muta da cima a fondo. Cambiando discorso, si prendono iniziative destinate a sorprendere gli egiziani di turno.
4. Il modello politico dell’esodo si basa sull’abbondanza di possibilità, ora occluse ma vivide. È un processo di trasformazione che fa perno su una ricchezza latente, su una esuberanza, su un’eccedenza. Eccedenza di socialità, di saperi, di coscienza. È il contrario del «tanto peggio, tanto meglio», l’opposto di qualsiasi protesta pauperistica. L’esodo esercita una critica nei confronti tanto di Hegel quanto di Ricardo, perché colloca la crisi dello sviluppo capitalistico in un contesto di abbondanza, mentre il «sistema dei bisogni» hegeliano e la caduta del saggio di profitto ricardiana sono esplicativi solo in relazione alla scarsità dominante.
5. L’esodo richiede di sviluppare positivamente altre relazioni sociali rispetto a quelle esistenti. Ciò che, nelle rivoluzioni politiche, è il risultato augurabile, ovvero la posta in palio, nell’esodo è una condizione preliminare. I fuggitivi difendono ciò che intanto, per strada, hanno costruito. All’antica idea di fuggire per colpire meglio si unisce ora la sicurezza che la lotta sarà tanto più efficace, quanto più si ha qualcosa da perdere oltre le proprie catene.
6. Nelle metropoli contemporanee, l’esodo riflette in sé un acuminato sentimento di «sradicamento» e una strenua intenzione di appartenenza. L’apparente paradosso cela un punto cruciale. A ben vedere, le «radici» non sono divelte quando si prende congedo dai nostri egitti quotidiani (gerarchie, discipline, regole): già prima di mettersi in viaggio, non ci si sente mai «a casa propria». È per questo, anzi, che si fugge senza rammarichi.
Lo sradicamento, oggi, costituisce una condizione ordinaria, che tutti sperimentiamo a causa della continua mutazione dei modi di produzione, delle tecniche di comunicazione, degli stili di vita. Difettano, ormai, «radici» che vincolino a un luogo, a una tradizione, a un ruolo, a un partito politico. Eppure questo spaesamento, lungi dell’elidere il sentimento di appartenenza, lo potenzia: l’impossibilità di arroccarsi entro un contesto duraturo accresce a dismisura l’adesione al «qui e ora» più labile. Ciò che viene in luce è l’«appartenenza come tale», non più qualificata da un determinato «a che cosa». Ora, questa appartenenza senza oggetto può tramutarsi – gli anni Ottanta lo mostrano «ad nauseam» – nell’adesione unilaterale e simultanea a tutti gli ordini vigenti. Oppure può ospitare un formidabile potenziale critico e trasformativo, provocando una defezione di massa dalle regole dominanti, da quelle regole che ripropongono senza posa surrettizie e temibili «radici».
2 novembre 1989
Paolo Virno (Napoli, 1952 – Roma, 7 novembre 2025) è stato un filosofo e accademico italiano, docente di Filosofia del linguaggio, Semiotica ed Etica presso l’Università degli Studi Roma Tre. Formatosi nel movimento operaista, partecipò a Potere Operaio e contribuì alla fondazione della rivista Metropoli insieme a Oreste Scalzone e Franco Piperno. Dopo un periodo di detenzione negli anni Ottanta, sviluppò le sue teorie nella rivista Luogo Comune e DeriveApprodi.
Tra le sue opere principali si ricordano Parole con parole. Poteri e limiti del linguaggio (Donzelli Editore, 1995), Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee (DeriveApprodi, 2001), Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica (Ombre Corte, 2002), Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica (Bollati Boringhieri, 2013) e Dell’impotenza. La vita nell’epoca della sua paralisi frenetica (DeriveApprodi, 2022). La sua riflessione ha intrecciato linguistica, filosofia politica e teoria critica, offrendo strumenti originali per comprendere il lavoro, la soggettività e le dinamiche sociali nel capitalismo contemporaneo.

