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  • Immagine del redattore: Sergio Bianchi
    Sergio Bianchi
  • 6 ore fa
  • Tempo di lettura: 7 min

Su autoproduzione e autogestione nei Centri sociali negli anni Ottanta e Novanta (1995)

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Quanto segue è la rielaborazione di un testo scritto a seguito di un convegno sul tema dell’autogestione e dell’autoproduzione organizzato presso il Forte Prenestino all’inizio del 1995. Nonostante i trent’anni trascorsi credo che i suoi contenuti abbiano ancora una qualche attualità.

In contemporanea alla diffusione di quel testo la rivista DeriveApprodi realizzò un numero speciale dedicato ai Centri sociali in quel periodo in rilevante espansione. Il suo coordinamento editoriale vedeva la presenza oltre che di Sergio Bianchi e Mauro Trotta anche quella di Marco Philopat. Per l’occasione la grafica della rivista Andrea Wöhr realizzò un progetto speciale che non venne ripreso nei numeri successivi. La tiratura in mille copie andò presto esaurita e quel numero non fu più ristampato.Si tratta quindi, a suo modo, di una piccola rarità ora scaricabile e consultabile nel PDF a piede di pagina.

Nel rapportarmi a questo dibattito prendo per buono l’avvertimento di Sergio Bologna espresso in altra sede ma, credo, del tutto pertinente anche in questa: «È illusorio cercare ruoli in comunità precostituite come i Centri sociali. I giovani che le hanno fondate hanno fatto tutto da soli, si sono creati sistemi relazionali che li hanno strappati dall’emarginazione sociale e civile. Non hanno avuto e non hanno bisogno di noi». Per quel «noi» si intende quei soggetti delle generazioni precedenti a quella degli anni Ottanta che ha fondato l’esperienza dei Centri sociali occupati autogestiti. Chi appartiene alla storia di un movimento che ha subìto una sconfitta clamorosa, ed è stato assente dalla genesi di un movimento successivo, non ha titoli per dire cosa occorre fare, dove occorre andare. Può solo, con prudenza, contribuire a fornire elementi di dibattito, rispondere dietro richiesta più che dichiarare a priori. Prendere la parola non è quindi facile, soprattutto se quel che si ha da dire non si annota sul registro delle conferme ma su quello delle smentite, su quello della critica. Riguardo al merito del dibattito, in un primo momento il termine autoproduzione non mi ha fatto venire in mente niente che, da quindici anni a questa parte, non sia già stato detto e ridetto dalle stesse persone che hanno continuato a fare le medesime cose, nella maggior parte dei casi fatte male e in modo approssimativo, sia nelle forme che nei contenuti. Ma poi, riflettendo meglio, ho pensato: perché le tematiche dell’autoproduzione e dell’autogestione – tematiche che hanno avuto rilievo nella storia del movimento operaio, soprattutto dei suoi settori più radicali – si sono ridotte oggi a un’ideologia rozza, semplicistica, a una pratica naif del «fai da te»? Forse perché nel decennio della rivoluzione informatica – che ha scompaginato paradigmi e riferimenti concettuali consolidati e tramandati – il «movimento degli spazi sociali autogestiti» non è sorto da un progetto forte di trasformazione ma da una reazione istintiva di resistenza. Una resistenza ai ritmi e alle regole dell’economizzazione della vita nella sua interezza. Davanti a ciò la parola d’ordine di quel movimento, povera ma efficace, fu cioè quella di resistere all’omologazione imperante, punto e basta. Comprensibile, dato che sul panorama dell’antagonismo politico e culturale imperava un silenzio avvilito, un’assenza di pensiero, un contemplare attonito gli effetti devastanti di un bombardamento subìto, e riuscito. Comunque, quella resistenza ha prodotto degli effetti emersi gradualmente nel corso degli anni in termini di acquisizione di visibilità, di riconoscimento e riscontro nel valere da riferimento sociale per altri soggetti sensibili al disagio. Quei riscontri sono bastati a fondare una piccola storia, una piccola tradizione con il suo corollario di miti e rituali, insomma una specifica cultura. Una cultura però fragile, irriflessa, conchiusa perché essenzialmente fondata sull’autoreferenzialità, sulla conferma di sé data da sé o dall’immediato adiacente. Tanto è bastato a garantire la certezza di possedere un’identità piena di senso, ricca di una cultura alternativa capace di diffondersi socialmente. Il meccanismo della spettacolarizzazione, di cui si ciba quotidianamente il sistema dell’informazione, ha poi compiuto il resto: un relativo rilievo giornalistico e televisivo ha contribuito a creare la convinzione d’essere soggetti centrali nello scontro politico. Chi nasce in un fortino assediato trae la forza di resistere dagli elementi riferiti al culto dell’appartenenza familistica, clanistica. Anche quando i ponti levatoi potrebbero essere calati perché l’assedio non c’è più ha il sopravvento la coazione a ripetere forme di pensiero e di azione riferite agli elementi fondativi, costitutivi della propria identità. Quindi, i Centri sociali nati negli anni Ottanta, dove autoproduzione e autogestione sono ampiamente sperimentate, hanno dato e tuttora danno risposta a tematiche di ordine esistenziale prima che politico, si collocano cioè nello spazio della pre-politica, costruiscono aggregazione e consenso prioritariamente attorno a quella sfera. L’invenzione di un loro agire politico e culturale sconta lentezze, contraddizioni, errori, ricominciamenti. 


Abbiamo già detto come nel momento costitutivo dei Centri sociali, all’inizio degli anni Ottanta, autoproduzione e autogestione abbiano assunto un significato simbolico valevole di per sé, indipendentemente dalla qualità dei contenuti e delle forme che esprimevano. Non c’era la pretesa di possedere un progetto politico. Piuttosto che pensare di trasformare la società si pensava che da essa occorreva difendersi strappandole spazi interstiziali dove sperimentare relazioni non sottoposte ai vincoli della sua morale e delle sue leggi. L’importante era affermare un rifiuto, una sottrazione, come presupposto e requisito indispensabile alla sperimentazione di un’alterità esistenziale. Nel corso degli anni però le cose sono cambiate. La pervasività delle tecnologie informatiche applicate agli strumenti informativi e comunicativi hanno rideterminato la sensibilità sociale generale, hanno smantellato le vecchie forme nelle quali si rappresentavano le identità collettive, hanno cancellato o trasfigurato gli spazi in cui si condensavano. In breve tempo la socializzazione è diventata un bene scarso perché i suoi costi sono stati progressivamente depennati dagli indici di bilancio delle politiche sociali istituzionali. È in questa contingenza di domanda di socializzazione inevasa che i Centri sociali si sono ritrovati a valere da referenti di un’offerta capace di garantire, almeno parzialmente, il contenimento di tensioni indotte dal disagio, tensioni che avrebbero potuto sfociare in comportamenti «devianti» socialmente diffusi, difficilmente controllabili e contenibili, gravosi soprattutto sul piano economico. È forse anche per queste ragioni che il comportamento di alcuni settori della politica istituzionale nei confronti dei centri sociali è mutato e al bastone ha cominciato ad alternare l’uso della carota. Ma questo passaggio di fase è stato perlopiù frainteso da alcuni ceti politici dei centri sociali che hanno letto l’offerta istituzionale di una «trattativa» come determinata unicamente dal grado raggiunto dalla propria forza aggregativa, dall’espressione della propria rappresentanza politica reale e potenziale. Un’altra distorsione di lettura degli eventi e dei processi prodotta dall’abitudine a ragionare in termini autoreferenziali, senza tener conto della complessità delle determinazioni politiche generali. Comunque, agli inizi del decennio Novanta, sollecitati dall’irruzione del movimento studentesco della Pantera e dal crollo del vecchio sistema dei partiti, i Centri sociali sono stati messi di fronte all’urgenza di aprirsi a una socializzazione larga e indistinta o perire per assuefazione e inedia. Qui siamo all’attualità, all’irrisolutezza di questo passaggio, all’accumulo dei suoi ritardi, all’ineguatezza dell’intelligenza utile a favorirlo. Infatti, mentre con le parole si afferma la necessità di adeguare autoproduzione e autogestione al «nuovo corso» degli anni Novanta, con la mentalità si è rimasti alle sue pratiche degli anni Ottanta. La paura della «contaminazione» con tutto ciò che ha veste istituzionale arriva a impedire la cooperazione con quei soggetti che, collocati in quel campo, offrono l’occasione di un’appropriazione di saperi che valorizzerebbero le autoproduzioni favorendone uno sviluppo capace di superare le sue attuali espressioni ridotte alla fornitura di servizi sociali di basso contenuto e qualità. Spesso, all’impegno dell’autoproduzione fa da presupposto motivazionale una concezione volontaristica, miserabilista, populista, moralista, un’attrazione fatale per le tematiche riferite ai poveri, ai disperati, agli emarginati ecc. È stupefacente questo riemergere di concezioni «terzomondiste», retroterra di un agire che rischia una comunione oggettiva di intenti, e una competizione soggettiva impossibile da sostenere, con il volontarismo cattolico. Al mercato non ci si può «sottrarre» perché nel mercato ci si sta dentro, sempre e comunque. Allora, se il problema dello «stare dentro» non si pone, perché è un falso problema, il problema vero diventa unicamente come essere contro. La «sottrazione» al mercato non passa per la riduzione dei costi di produzione di una merce ottenuta dall’abbattimento del costo del lavoro vivo tramite autosfruttamento in cambio di un autoreddito da fame (così come largamente viene intesa e praticata l’autoproduzione). Ciò che si deve piuttosto sottrarre al mercato sono i «saperi alti», quelli che dentro al mercato stanno perché sinora solo lì dentro trovano le condizioni materiali per esprimere il massimo della loro potenza produttiva di ricchezza. Per concludere, alcune annotazioni sulle esperienze dell’autoproduzione. Intanto occorre dire che la gran parte di esse non si collocano dentro i Centri sociali ma, pur essendo spesso maturate al loro interno o in rapporto a essi, se ne collocano fuori bordeggiandoli anche, se non soprattutto solo, per questioni di referenza di mercato. Domandiamoci perché i soggetti che animano le autoproduzioni più significative non scelgano di collocare le loro iniziative «autoimprenditoriali alternative all’interno degli spazi sociali autogestiti.

Di seguito alcune, parziali, possibili risposte. 1) La stragrande maggioranza di questi luoghi non offrono le condizioni logistiche per impiantare un’iniziativa imprenditoriale. 2) L’ambito decisionale di quei luoghi è un’assemblea che si ritiene legittimata a discutere e prendere decisioni collettive su tutto ciò che si svolge nel luogo. Si crea pertanto una situazione di interferenza decisionale esterna e generale a chi materialmente si ritrova a gestire direttamente un’impresa specifica. Forme, contenuti, metodi e finalità dell’impresa costituita da un piccolo gruppo si ritrovano a essere vagliate da un insieme indistinto di persone che spesso non hanno neppure le competenze elementari per entrare nel merito dei problemi. 3) Qualsiasi produzione implica rapporti di mediazione col mercato «ufficiale», quindi col denaro ecc., elementi vissuti spesso ideologicamente con disagio e contraddizione. 4) Qualsiasi iniziativa imprenditoriale, pur modesta che sia, necessita la costruzione di relazioni con soggetti e strumenti esterni a quei luoghi. La loro esternità è sempre guardata con sospetto, se non addirittura considerata illegittima. Si creano pertanto condizioni di inospitalità per tutti quei soggetti detentori di saperi esterni alla quotidianità di quei luoghi che, prima di essere accettati e messi nella condizione di operare, si ritrovano nella condizione di intraprendere il defatigante processo della loro legittimazione che passa attraverso la lenta costruzione di rapporti personali fiduciari e l’accettazione del complesso cerimoniale che precede l’iniziazione all’appartenenza. 




Sergio Bianchi nel 1992 ha fondato (con Mauro Trotta) la rivista «DeriveApprodi». Nel 1998 è stato cofondatore della casa editrice DeriveApprodi nella quale ha assunto le cariche di direttore editoriale e amministratore unico fino al 2023. In quei 25 anni la casa editrice ha pubblicato un migliaio di titoli. Nel 2020 ha progettato e realizzato la rivista on line di dibattito politico-culturale «Machina». Ha curato i saggi: L’Orda d’oro a firma di Nanni Balestri e Primo Moroni; La sinistra populista; (con Lanfranco Caminiti) Settantasette. La rivoluzione che viene e Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, voll. I, II, III; nanni balestrini – millepiani. È autore dei saggi: Storia di una foto; (con Raffaella Perna) Le polaroid di Moro; Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo. È inoltre autore del romanzo La gamba del Felice (Sellerio).

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