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  • Immagine del redattore: Luigi Anania
    Luigi Anania
  • 15 minuti fa
  • Tempo di lettura: 4 min

Diritto al sale

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«Luigi Ananìa è un autore che scrive libri pericolosi. Che cosa si vede, se ci si sporge «dal cornicione

dell’assurdo», come scrisse lui stesso a proposito del proprio punto di vista di narratore, ai tempi della prima raccolta di racconti, Il signor Ma (2000)? Più che vedere, si percepisce il vuoto che contiene tutte le storie e forse tutta la Storia. Lo scrittore sa la presenza del non senso, fissa lo sguardo nel vuoto e prova a mettere a fuoco se non vi sia qualcosa o qualcuno che quel non senso possa rovesciare». (Silverio Novelli)

Vago nella campagna dei ruderi, degli acquedotti, delle trippe, delle frattaglie. Camminano con me un prete, un avvocato, un giornalista, un architetto e un geometra donna. Il prete indossa un vecchio saio e delle scarpe di pezza sfilacciata. Ha pelle rossa screpolata e due occhi lucidi incastonati in un capo tondo malrasato. Cerca gli insetti, li coglie, li guarda camminare sulla propria mano, poi li libera o li posa su un filo d’erba. Ogni tanto si ferma e ride.

L’avvocato ha capelli che si arricciano in trecce scomposte verso il cielo. Disquisisce sulla variabilità della legge al momento dell’applicazione e afferma che la rovina del genere umano è dovuta alla perdita della capacità di discernimento nitido. Ha in mano un piccolo temperino con il quale seziona tutti i bulbi che trova nel terreno. Quando trova dei tuberi di patata gioisce e li seziona in cubi sempre più piccoli proclamando che la società dovrebbe essere condotta da uomini che hanno dedicato tutta la loro vita all’arte del differenziare, uomini che si possano chiamare maestri eccelsi della differenziazione puntuale.


Con le braccia disegna ampie volute e urta il capo dell’architetto che gli cammina a fianco. Costui, un uomo tranquillo dai capelli impomatati, non si scompone; si passa la mano sulla giacca di smoking bianco e proferisce sottovoce discorsi che pullulano di parole con la o chiusa. Sulla spalla porta un sacco pieno di scarpe e spesso si ferma per tirarle fuori e guardarle ad una ad una. 

Il giornalista è l’unico che sembra sapere il fatto suo. Ha in mano un mazzo di chiavi che tiene ben saldo fra le dita e negli occhi mantiene ancora la voglia di sedurre. Cammina insieme al geometra donna e la erudisce sui luoghi e sui ruderi con un uso ammirato della parola. Di lei ama il nome, i lunghi capelli neri, la procacità e l’incedere da tempi moderni. Desideroso di distinguersi dagli altri, le dice più volte che lui ha abbandonato il suo lavoro non per fuggire ma per ritrovare la parola alla sua origine, la parola lontana dall’inflazione dovuta all’uso e all’abuso. Io procedo davanti a tutti e non riesco a non voltarmi per guardare la geometra donna.


L’ordine vago e sparso della bizzarra congrega si protrae da giorni e notti. Nessuno sa il senso del tutto e tutti si beano della perdita di senso. L’unico che ha dei dubbi è l’avvocato. Sostiene che la specie umana deve almeno occuparsi del procaccio del vitto e della cura del corpo e che tutti dovrebbero adoperarsi all’uopo affinché le menti non si perdano e le membra non maleodorino. Ma gli altri, presi dalle loro bizzarrie neanche lo sentono. L’architetto continua sottovoce i suoi discorsi che si fanno via via più raffinati e si concludono sempre con il pensiero che l’unica cosa è fottere. Il prete è preso da violenti attacchi di risa e il giornalista descrive come qualcosa di straordinario il pasto che ha avuto alcuni anni addietro in un ristorante là vicino. 

Arrivati alla sommità di un lieve colle, io mi addentro in una boscaglia di querce, di rovi e di ginestre. Seguo un viottolo in terra battuta e delle scale di tufo che scendono giù verso un vallone ombroso. Aprendomi un varco fra i rovi che hanno invaso il passaggio, arrivo di fronte a un enorme casa bianca a tre piani. Mi avvicino all’ingresso ed entro insieme agli altri in un vasto salone invaso dagli uccelli in amore e dal loro incessante tubare. Ci andiamo a sedere lungo i muri. La geometria si siede vicino a me e si scioglie i capelli. L’architetto svuota il suo sacco di scarpe e le dispone bene in fila lungo il salone. L’avvocato tira fuori un lungo foglio bianco con su scritto «procaccio del vitto» e invita gli altri a esprimersi in merito. Incomincia una vivace discussione nella quale ognuno si prodiga in lunghi ragionamenti che io confondo perché non riesco a separare una parola dall’altra. Mi sembra tutto avvolto dall’incessante tubare degli uccelli in amore che trascina le persone, i suoni e le cose in un vento bianco senza contorni. Guardo la fila di scarpe dell’architetto e non riesco a distinguerle confondendo i mocassini inglesi con i modelli duilio.


Le stesse persone sembrano sfumare l’una nell’altra. I corpi sembrano librarsi e volteggiare nell’aria. A un certo punto, come d’incanto, si sente una voce di donna chiara e nitida che dice: «NON BISOGNA RINNEGARE ALLA SOCIETÀ IL DIRITTO DI FORNIRE IL SALE», e i contorni delle persone e degli oggetti ritornano definiti.     


Luigi Anània si è laureato in Scienze agrarie all’Università di Firenze. Scrive racconti e fa vino rosso a Montalcino. Ha pubblicato de curato numerosi libri di narrativa. La sua ultima raccolta di racconti è da poco in libreria: Condominio aereo, Castelvecchi, 2025.

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