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- Pino Tripodi

- 7 nov
- Tempo di lettura: 10 min
Popoli carnefici delle popolazioni

Pubblichiamo in anteprima un capitolo di Intelligenza autonoma di specie, un nuovo lessico della Rivoluzione, in uscita per Milieu-Pianetica.
Nel capitolo, Pino Tripodi analizza la crisi contemporanea dell’universalismo e del cosmopolitismo, mostrando come la rinascita dei nazionalismi e delle identità collettive – politiche, religiose, etniche o personali – minacci la sopravvivenza stessa della specie umana. L’autore critica la nozione di popolo e il principio di autodeterminazione dei popoli, considerandoli strumenti ideologici che giustificano esclusione, guerra e oppressione. Per Tripodi, lo Stato identitario è una “macchina di guerra” e ogni forma di diritto fondato sull’appartenenza – sia essa nazionale o individuale – porta con sé il seme del razzismo.
Egli propone invece una prospettiva “pianetica”, capace di superare i confini e riconoscere la terra come bene comune dell’intera specie, opponendo alla logica identitaria una sensibilità universale e interconnessa. Solo riscoprendo questa visione di specie, l’umanità potrà spegnere il fuoco distruttivo dei nazionalismi e accendere un nuovo fuoco di consapevolezza collettiva.
Proprio nel momento in cui la fase del macchinismo avanzato sembrerebbe imporre l’idea di reciproca connessione su tutta la superficie del pianeta, ovvero nella fase in cui addirittura l’elemento linguistico sta divenendo sempre meno identitario per via delle traduzioni istantanee artificiali, il mondo sembra essere entrato in una fase di conflittualità tra identità sbandierate, eppure evidentemente posticce, che mettono a repentaglio ulteriormente la sopravvivenza della specie sulla Terra. Si è tornati infatti a parlare di rischio di conflitto nucleare, di politiche di potenza, di sfere di influenza e di Stati identitari. Evidentemente le scuole che hanno preso in carico il compito di pensare a ciò che politicamente l’imporsi delle tecnologie digitali avrebbe comportato, ravvedendo la possibilità di una stagione di mutua cooperazione, hanno fatto male i propri calcoli. Anzitutto perché non erano istanze politiche quelle decisive a interpretare il momento storico. Il macchinismo esige la sensibilità pianetica: senza questa, è un’avventura al buio.E dunque ci troviamo nuovamente ad avere a che fare con Stati identitari e ideologie di popolo, che pensavamo superate, surclassate.Occorrerà spendere qualche parola per spiegare i motivi di un tale rigurgito.Anzitutto e detto chiaramente: Every life matters. Ogni vita conta, non solo la propria o quella del proprio gruppo, familiare, amicale, etnico, religioso, di genere, di classe.L’universalismo e il cosmopolitismo, anche per limiti interni che si tratterà di indagare, vivono gravi momenti di crisi. Dall’inizio del XX secolo, i pozzi dell’internazionalismo sono stati inquinati dal veleno del nazionalismo. Eppure, fino alla Prima guerra mondiale le cose erano abbastanza chiare.
Vi era chi riteneva che esistessero i popoli – aristocratici, borghesi – e chi invece – movimento operaio, socialisti, anarchici – pensava che gli uomini e le donne fossero tutti fratelli e sorelle. Se proprio occorreva trovarsi una distinzione congrua, essa andava cercata non nel colore della pelle, nella nazionalità o nel sesso, ma semmai nei rapporti sociali di produzione, campo in cui vigeva, e vige, una profonda differenza tra ricchi e poveri, tra sfruttati e sfruttatori.Nella carneficina del primo conflitto mondiale furono in tanti a sfidare i plotoni d’esecuzione e a fraternizzare con soldati della parte avversa. L’idea che nessuno può essere indicato come un nemico semplicemente perché ha pelle, nazionalità, sesso, religione differente si era fatta strada nel movimento operaio.Poi, perfino in quel movimento, il nazionalismo ha mietuto consensi. Nel secondo dopoguerra, buona parte del movimento antimperialista ha avuto la sua torsione nazionalista. Alla nozione, già molto discutibile, di lotta di classe, si è andata sostituendo quella di lotta di popolo. Ma popolo è una nozione antagonista alla nozione di classe. Popolo è l’esatto contrario di popolazione. Popolo è l’arma sollevata per distruggere le popolazioni, per identificarle in modo esclusivo e prioritario, per includere alcuni ed escludere molti, per fissare meriti e privilegi, per combattere in nome di qualcuno la guerra contro tutti.
Per costruire un popolo occorre un funesto demiurgo.Dove inizia un popolo, la popolazione comincia a perire, sepolta dal suo potere retorico e dai suoi miti. Che le popolazioni si riconoscano in un popolo è un effetto collaterale assai grave dell’assenza di un pensiero di specie.Dove un popolo trionfa, la popolazione soccombe. Il popolo è un fantasma che esalta ed erige il corpo dello Stato identitario, del quale non si può pensare a organizzazione più distante e ostativa della sensibilità pianetica.Il popolo d’Israele, per esempio, trionfa erigendo la sua mostruosa macchina di guerra. Il popolo palestinese trionferà solo se saprà costruire una macchina di guerra più mostruosa e più potente di quella di Israele.Ridotto all’elemento nazionalista identitario, lo Stato diviene una macchina di guerra. Senza la guerra, lo Stato identitario – sia quello ebraico, sia quello palestinese, sia quello kurdo, tamil, ecc. – non potrebbe esistere.Le città e gli Stati sono popolati da stranieri. Gli stranieri da sempre sono la linfa che nutre le città e gli Stati. Non prendere atto di questa lapalissiana verità storica è una tragedia di proporzioni enormi.Il desiderio di uno Stato – o di una città identitaria – deriva da ataviche, infondate, paure e da interessi materiali a mantenere una parte della popolazione soggiogata, minorata, priva dei più elementari diritti.
Chi desidera uno Stato identitario agogna la guerra. Chi dice popolo dice guerra. Per convincere le popolazioni a riconoscersi in popoli, si sollevano questioni che nulla hanno a che fare con la posta in gioco e che sono state l’archetipo del razzismo diffuso e addirittura istituzionalizzato.Intanto è falotica l’idea che esistano popolazioni contrassegnate da caratteri chiari e definiti una volta per tutte, di natura somatica o derivanti da tradizioni culturali e linguistiche peculiari. Le differenze di qualsiasi natura vengono inalberate per rivendicare diritti, che trascendono totalmente la difesa della presunta identità. Il diritto identitario non riguarda mai la semplice, legittima, difesa della propria identità, bensì la distruzione dell’identità altrui. Il diritto di parlare una lingua, quello di mantenere delle tradizioni, ostano la sensibilità di qualcuno solo quando si ritiene che si tratti di diritti esclusivi, riguardanti una parte della popolazione, e dai quali diritti vada esclusa la popolazione restante.
Nella lotta di popolo, la propria salvezza coincide con la morte altrui, la propria liberazione coincide con l’oppressione altrui, l’affermazione dei propri diritti comporta la negazione dei diritti altrui.
Storicamente, a determinare il salto mortale, anche all’interno del movimento operaio, dalla lotta di classe alla lotta di popolo fu proprio l’esito della Prima guerra mondiale. I vincitori di quel conflitto dovettero risolvere un problema: cosa farne dei territori un tempo inseriti nei grandi imperi collassati dalla guerra?Come si vede, è questione di attualità.La soluzione che fu escogitata, cioè l’autodeterminazione dei popoli, costituisce forse la peggiore dottrina politica del Novecento. Pur generata negli Usa, tale dottrina è stata condivisa dalla pressoché totale sfera delle ideologie politiche. Hitler e Stalin ne erano entusiasti, come lo sono e lo sono stati democratici, liberali, liberisti, socialisti, comunisti, perfino anarchici di tutto il mondo. Si fa fatica a ricordare che, dopotutto, il progetto di Hitler, chiaramente delineato nel Mein Kampf, era quello di far coincidere popolazione di lingua tedesca e Stato tedesco.Purtroppo è lezione di oggi che il bubbone nazionalista si alimenti e cresca ancora con questo principio, sempre issato su ogni barricata di qualsiasi conflitto interno o internazionale. Ucraini e russi, palestinesi e sionisti, kurdi e turchi, baschi e catalani, tamil e cingalesi, chiunque sia preso dalla patologia nazionalista non fa che issare la bandiera dell’autodeterminazione dei popoli. Il cimitero della specie è colmo di cadaveri, eppure i massacri perpetrati nel nome dell’autodeterminazione dei popoli non sembrano ancora sufficienti a ripudiare questo efferato principio. Quanti morti è costato e costa lo Stato identitario ebraico? E quanti morti costerebbe lo Stato palestinese libero dal fiume Giordano al mare come, probabilmente senza comprenderne le conseguenze, si sta urlando nelle piazze di mezzo mondo?Lo stesso diritto identitario, il diritto di autodeterminazione dei popoli, viene accampato da chi vuole impedire o limitare fortemente i processi migratori.
Essi – è bene chiarirlo – non si fermeranno, nonostante tutte le deportazioni intraprese. Vi sono elementi fattuali, nemmeno teorici, che indicano che la strada dell’autodeterminazione identitaria è un vicolo cieco. Dati incontrovertibili, di fronte ai quali le scelte da compiere rischiano di essere ben diverse dall’immaginabile.Si consideri la questione demografica, per esempio. L’asimmetria demografica tra il mondo ipersviluppato e il mondo in via di sviluppo comporta una evidenza che nessuna deportazione può scalfire: senza migrazione niente produzione. Chi non vuole migranti su quello che immagina essere il proprio territorio, manifesta il medesimo rigurgito, il medesimo principio dell’autodeterminazione dei popoli: il diritto cioè di abitare, e i diritti in generale, spetta solo agli autoctoni. In fin dei conti, nel principio di autodeterminazione dei popoli si manifesta il diritto del sangue e del suolo. Anche nel diritto di cittadinanza si corre lungo il baratro dello stesso concetto.È significativo mostrare quante contraddizioni grondino da simili premesse ideologiche. C’è chi difende lo Ius soli, cioè il diritto di cittadinanza per chi è nato in un Paese, c’è chi invece è contrario poiché, al di là del Paese di nascita, ciò che conta è la razza, la cultura, le origini.Il dibattito politico è impastoiato nella seguente querelle: i diritti di cittadinanza vanno garantiti a tutti i nativi o solo a chi è originario, non solo nativo del Paese?Se si prendono in esame le origini, quali origini vanno tenute in conto? Le origini materne, le origini paterne, le origini solo dei genitori o anche degli avi?Quando ci si dimena in un ginepraio di insensatezze, è difficile uscirne.
La questione della nascita così come quella delle origini ha un ruolo ideologico strumentale riguardo le politiche migratorie.Negli Usa sappiamo che le popolazioni native sono state e continuano a essere le popolazioni più discriminate del Paese. Dunque non di questo in realtà si tratta. I migranti non li si vogliono, ma se ne ha bisogno, e quindi la posta in gioco non è se devono o non devono arrivare. La vera posta in gioco è: devono avere pari diritti e dignità identica a chi già risiede in quel Paese?Se la risposta è affermativa, nessun diritto deve essere privilegio di qualcuno per il solo motivo di essere nato in un luogo. La terra non appartiene a chi è nato in un luogo. La terra appartiene alla terra e, in subordine, a chi ci vive e ci lavora al di là di ogni specificità, identità o provenienza. Pensare che la terra appartenga a qualcuno in modo esclusivo – perché ci è nato, perché è originario di quel luogo – è una delle radici più radicate del razzismo. La terra appartiene alla terra; dei frutti della terra, del suo spazio dovrebbe poterne goderne chiunque vive sulla terra. Che ci viva perché ci è nato, perché sono nati i propri avi, perché parla la lingua più diffusa, perché ci lavora, perché vi risiede, per i motivi più vari – ecco, questo davvero poco dovrebbe importare.Il principio dell’autodeterminazione dei popoli ha valicato la sfera politica per assumere rilevanza anche nella sfera personale, nella quale pure non smette di fare danni. Autodeterminazione del corpo, del sesso, del fumo, delle armi, di qualsiasi libertà intesa come arbitrio, cioè come possibilità di fare ciò che si vuole, senza dover tenere conto delle conseguenze sociali.
Tutto il male perpetrato nel Novecento, e oltre, da guerre e da lotte intestine insensate condotte sotto la bandiera dell’autodeterminazione dei popoli ci interroga anche oggi, quando, nonostante connessioni macchiniche planetarie, la tecnologia stessa sembra dare estro di pensarsi esclusivamente in termini appropriativi e divisivi: quali sono le ragioni della forza e dell’aggressività della peste identitaria, peste che non è solo nazionalista ma propriamente riguardante l’identità anche del singolo individuo o di gruppi che si riconoscono in determinati caratteri, che cioè sia in termini di collocazione politica internazionale o di psicologia personale? Nella questione identitaria si confondono gli affetti con i diritti. La loro sovrapposizione produce una miscela esplosiva capace di distruggere ogni società.Che i neri, i bianchi, i gialli, gli alti, i bassi, le donne, i maschi, gli animali, le piante, il pianeta, il cosmo, siano soggetti e oggetti d’amore particolare non crea alcun problema. Così come nessun problema pone l’attaccamento ai luoghi materni, alla lingua madre, agli affetti intimi e assoluti. Chiunque ha il diritto di amare di più ciò a cui si sente più legato, ma la condizione affinché ciò avvenga è che non si impediscano sentimenti e affetti simili a un proprio simile. Il proprio mondo non può coincidere con il mondo.
Nella confusione tra affetti e diritti, tra sentimenti di appartenenza e paura della diversità, la questione identitaria miete consensi.Il differenzialismo si torce facilmente in razzismo.Qualunque identità ha diritto di manifestarsi e di difendersi a condizione che non pretenda di divenire una generalità. La restituzione di ciò che si percepisce come sofferenza, derivante da una mancata riconoscenza della propria struttura identitaria, è una modalità che coglie entusiasmi a volte sprorzionatamente euforici, su ogni scala di grandezza si esercitino. Ma chi restituisce un male, che subisce o che sente di avere subito, purtroppo si fa male cento volte facendo male mille volte. Chi combatte contro la propria discriminazione e non desidera che ogni altra discriminazione venga meno, forse, è ancora soggetto discriminato, ma è già soggetto discriminante. La vittima che diviene aguzzino è peggiore di qualsiasi aguzzino. Il bene particolare che non desidera il bene universale è l’archetipo del danno.E quale sarebbe dunque l’antidoto all’autodeterminazione dei popoli? E all’enfasi di quella personalistica ed egoica?Eppure, se solo si immagina come e quanto la fase di specie, che sta compiendo il proprio salto nella fase dell’attuale macchinismo, abbia da affrontare problemi di nuova specie, a formulare una critica degli identitarismi sembra di affondare in una palta di ceneri bagnate.Ci vuole un gran falò per disperdere le ceneri del mondo. Per non farsi seppellire da esse. Tale falò, lo avvertiamo anche con inquietudine e con brividi di timore, è già acceso, ben oltre queste arcaiche convinzioni di una specie che è giunta, come si diceva, e non da ora soltanto, a un passo dal baratro.Nel fuoco della Storia c’è sempre qualcosa di indicibile che viene detto senza possibilità d’ascolto. Quel detto impossibile a sentirsi, perché si è sempre intenti ad ascoltare il crepitio della materia e non l’ardere del fuoco. Quando il bruciato diviene polvere, quando non c’è niente a riscaldare sotto la cenere, il fuoco si riprende la parola. E prova a dire l’inascoltato d’altri tempi, ciò che altri tempi hanno evitato di ascoltare. E che rischia di essere il libro scritto e mai letto del futuro che la specie attende.Si vedono ceneri ovunque. Ovunque ceneri come immense ragnatele a ghermire il mondo. La cenere sta nella confusione del mondo. Nel suo sfinimento. Adesso che il mondo è cenere, il fuoco ritorna necessario. Tocca di nuovo al fuoco di parlare.
Pino Tripodi, già fondatore di DeriveApprodi, ha pubblicato per Milieu SetteSette, una rivoluzione. La vita (2012); La zecca e la malacarne (2014), Pianetica (2022), testo cofirmato con Giuseppe Genna e Uccidere la colpa (2024).

