comp/art
- Simona La Neve
- 15 mag
- Tempo di lettura: 6 min
Alternative alla morte: Tracey Emin «so real in the dark»

Simona La Neve delinea il ritratto di Tracey Emin, un’artista britannica classe 1963. Emin attraverso le sue opere racconta le sue scelte, i suoi traumi, gli abusi, i dolori e le cicatrici dell’anima. Il suo corpo è il suo espediente narrativo. Dagli anni 2000 a oggi - descrive La Neve - l’uso smisurato del «femminile» nelle sue opere da autobiografico diviene sempre più universale. Sopravvissuta a gravi problemi di salute, Emin, dal 2011, è professoressa di disegno presso la Royal Academy di Londra
Tintinnio di monete, banconote raschiate dal pavimento e gambe divaricate. L’istantanea polaroid I’ve got il all (2000) mostra l’artista britannica Tracey Emin (1963) su un pavimento rosso scarlatto mentre, come una mitologica Danae, si fa attraversare da una pioggia d’oro in un’annunciazione di grazia e squallore. È l’autoritratto, il nudo straziante e la carne a permettere a Emin di decodificare, tramite la sua arte, il mondo che viviamo. Racconta se stessa in ogni sua scelta privata, indissolubilmente legata a quelle della sua pratica artistica. Colla nelle pieghe dei polpastrelli di un corpo già da giovanissimo straziato. Storie di abusi, dolore e cicatrici dell’anima che vengono da lei trasformate nel suo ardere d’arte. Studia incisione a Maidstone e poi pittura al Royal College of Art di Londra. Capelli corti sulle orecchie, sguardo da rocker e un corpo mozzafiato che quando sembra non essere abbastanza, subito dopo la laurea, è segnato da due aborti di cui avrà l’audacia di raccontare come «alternative al suicidio» [1]. E nonostante sia nota per le sue opere più irriverenti e anticonformiste, quando era già parte del chiassoso gruppo di artisti Young British, la sua storia è un percorso di consapevolezza della soglia tra la vita e la morte, fin dagli anni Ottanta. I Simple Minds ancora tuonavano «Love’s strange, so real in the dark», mentre Emin radicava quel suo personale rapporto con il significato della parola «fine» in tentativi sparuti di eutanasie alla sua arte. Prima, in quello che lei oggi chiama «suicidio emotivo». Sei anni in cui smette di dipingere distruggendo tutti i lavori realizzati fino ad allora – a contribuire c’è una vita disordinata che non sa dove andare, la nausea causata sia dall’odore dell’olio che da quel tanfo della trementina. E poi, nel 1993 decide di esporre in quella che lei stessa definisce un’insolita prima retrospettiva. La chiama My Major retrospective 1963-1993 anziché una proclamazione dell’inizio della sua carriera, presso la galleria White Cube. Un assemblaggio di oggetti accumulati negli anni e vecchie foto come soggetti unici. Nessun dipinto. Tutto ciò che Emin può fare per esprimersi in una vita londinese di primi anni Novanta, passa invece spesso per la scrittura traducibile con stoffa, neon o carta. Exploration of the Soul nel 1994 è tra altri suoi testi, matita, carta e orrore, nel rivelare per iscritto la possibilità di sopravvivere dal giorno in cui è nata, a quello in cui le fu strappata la verginità con la forza. Al contempo, proprio in quegli anni raggiunge la fama con le sue installazioni da bad girl. Nel 1995 presenta l’opera Everyone I have Ever Slept With 1963-1995 in cui cuce lettere alfabetiche da unire per creare una rete ammiccante di nomi, in un atto linguistico radicalmente pubblico. My Bed (1998) è poi l’altra iconica opera – dal 2015 inclusa nelle mostre In focus alla Tate Britain, accanto a Francis Bacon. Il suo letto ha lenzuola sfatte che si presentano macchiate di secrezioni corporee, un pavimento disseminato di preservativi, cicche di sigaretta e biancheria intima sporca sparsa qua e là. Tutto è funzionale a narrare questo periodo, ma il ritmo del suo operato era già cambiato da almeno due anni. Nel 1996 si proponeva nuda nella galleria d’arte per ben tre settimane – la distanza tra un ciclo e un altro – in una performance intensa dal titolo Exorcism of the last painting I ever made. Annunciava così il suo atto di riappropriazione della pittura nel riconquistarla come mezzo espressivo. Pennellate, testi e macchie del corpo possono essere ora esposte e ammirate dal visitatore che tramite spioncini, ha accesso a una vista assicurata su quella soggettività estraniante. Ma se qualcuno vede in questo atto una riproposizione femminista di quell’Etant donnés (1966) di Duchamp, seppur nel disequilibrio di sguardi, è invece nella direzione del corpo come timone della vita, che dobbiamo soffermarci. «Ora la pittura è nel mio sangue, fa parte di me, scorre in me tanto quanto il disegno. Ma mi ci è voluto tutto questo tempo per capirlo davvero e fino in fondo» [2]. La storia di Emin, nel 2011 nominata professoressa di disegno presso la Royal Academy, è quella di una donna che non può più fare a meno della materia, della pittura, dell’incisione, dei ricami, installazioni e neon. Queste sinuose calligrafie lucenti sono invero parte del suo linguaggio dagli anni Novanta, si caricano oggi di protagonismi inaspettati quando dominano gli spazi pubblici come per Sex and Solitude (2025) nell’accesso di Palazzo Strozzi a Firenze. Tutte le arti la possiedono e le permettono di esprimersi con estrema varietà e, più di ogni altra cosa, fuori dal tempo. L’opera The Doors (2003) è probabilmente uno degli esempi più evidenti: 45 ritratti di donne incorniciate in formelle di bronzo che paiano rinascimentali, seppur in una grafia insolita e che Emin definisce «comuni». Un cambiamento visibile dagli anni 2000 a oggi, è proprio nell’uso smisurato del «femminile» che da autobiografico diviene al contempo sempre più universale. Le sculture di bronzo siglano infatti, sia il suo graduale processo artistico che la volontà e il desiderio di andare oltre il machismo dell’arte pubblica, imponendo invece una certa femminilità ed eleganza. Si eleva dagli spazi privati con piccole sculture «chiuse» dentro le gallerie o, «disperse» con delicatezza negli spazi urbani come in Baby
Things (2002), al tentativo invece di abbracciare la città offrendoci nove metri di maternità. È The mother (2022) in cui Emin è sia intima che maestosa di fronte al museo di arte nel porto di Oslo. Fa emergere il bronzo come materia duttile le cui forme sono siglate dalle sue impronte, ponendosi in relazione con due dei suoi principali riferimenti: Edvard Munch ed Egon Schiele. Con la forza ispiratrice e il livore di una maga guaritrice lei narra l’arte, il dolore e il piacere di esserci, con tutto quello che ciò implica. E lei c’è, la vediamo Tracey nelle sue alternative alla morte mentre ci appare testimone, dea sacrificale che racconta l’ambiguità della nostra esistenza tramite la sua. Pelle contro pelle, nel suo carattere etico ed estetico, finanche nel routinario esporsi dei suoi post di Instagram, così riservati ed essenziali nel mostrare il suo lavoro artistico e così esplosivo nei selfie scattati durante la sua lotta al cancro. Coesistono in lei castità ed eros, iconografia cristiana e ateismo, isolamento e condivisione, buio e onorificenze. Dichiara: «La maggior parte delle persone dopo tutte le operazioni che ho subito – isterectomia, parte dell’intestino, della vescica – muore, e io invece sono qui» [3]. E mentre nella sua pittura è sempre più evidente la capacità di nascondere in un’unica immagine figurativa la mimetizzazione dell’altro da se, Tracey è un’Antigone contemporanea che commette il crimine di raccontare i tabù e trionfa nell’audacia di ammettere di averli commessi [4]. In un’epoca in cui la parola acquisisce un ambiguo scardinamento dal reale al visivo, è forse questo che vuole essere il suo più crudo contributo? La parola schietta come atto linguistico e strategia, il «dire» e il «mostrare» come alternativa alla morte. In quella che pare una dichiarazione d’intenti afferma: «Non voglio vivere con il rancore, non voglio vivere con l’odio e la paura» [5]. L’attivismo che dimostra è quello di un’insolita diva che non viene mai censurata o zittita. Pare in ogni suo gesto chiederci, in una eterogeneità di tecniche e mezzi artistici che diventano metafore visive: «C’è davvero altro che possiamo vedere intorno a noi?». Oltre alla malattia, oltre al dolore? Ancora una volta l’arte nel suo esperire contenuti tramite dee sacrificali, ci mostra lo specchio dell’oggi: sangue e corpi in un ridondante urlo di dolore e patinato silenzio. Ce ne faremo qualcosa? Intanto grazie Emin. Qualcuno di noi ti ama.
Note
[1] Emin T., Sex and solitude, catalogo della mostra a Fondazione Palazzo Strozzi, Firenze, Marsilio Arte, 2025, p. 34.
[2] Ivi, p. 33.3
[3] Pon A., Tracey Emin, La nuda verità, Elle, Arte, 14 marzo 2025.
[4] Butler J., La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, Bollati Boringhieri, Torino, p. 52.
[5] Emin T., Sex and solitude, catalogo della mostra a Fondazione Palazzo Strozzi, Firenze, Marsilio Arte, 2025, p. 31.
Simona La Neve (1985), art researcher e docente, dopo studi in architettura si specializza alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano con una tesi conservata oggi all’archivio del Mart di Trento e Rovereto. Ha svolto ricerche e progetti curatoriali anche in ambito istituzionale (Inu, Roma; Politecnico, Milano; Bocsart, Cosenza). Si occupa oggi principalmente di scrittura come pratica artistica di resistenza empirica, endogena ed esogena. È suo tra altri, il saggio per i cinquant’anni di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini («il manifesto», 19 maggio 2021).