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- Mauela Gandini

- 16 ott
- Tempo di lettura: 4 min
Il museo come campo di battaglia.
Programma di disordine assoluto. Un saggio di Françoise Vergès

Il museo occidentale è un campo di battaglia ideologico, politico ed economico. Mentre oggi quasi tutti vogliono «ripensare il museo», pochi hanno l’audacia di mettere in discussione i presupposti stessi del museo universale, prodotto dell’Illuminismo e del colonialismo, di un’Europa che si presenta come custode del patrimonio dell’intera umanità.Ripercorrendo la storia del Louvre, discutendo i non detti della rappresentazione della schiavitù ed esaminando i tentativi falliti di sovvertire l’istituzione museale, Françoise Vergès delinea un orizzonte radicale: decolonizzare il museo significa attuare un «programma di disordine assoluto», inventare altri modi di percepire il mondo umano e non umano che siano in grado di alimentare la creatività collettiva e di restituire giustizia e dignità ai popoli che ne sono stati espropriati.
Il museo è un’immensa tomba. È una vetrina lussuosa e intoccabile dislocata nel mondo in più di 104.000 sedi atte alla salvaguardia di quadri, oggetti, reperti, rovine, mobili, armi. E, in molti casi, votate alla conservazione di resti umani di corpi non-bianchi – ossa, capelli, teschi – come bottino delle guerre di conquista. Il museo, espressione del modello egemonico coloniale, è luogo di soggezione e silenzio: uno sterminato catalogo, camuffato da tempio, di genocidi, furti, conquiste. Ma è anche la vetrina pulita delle nazioni. Il lato oscuro dell’istituzione museale è il soggetto del saggio Il museo come campo di battaglia. Programma di disordine assoluto, Meltemi, 2025, di Françoise Vergès, teorica femminista studiosa di pratiche de-coloniali, che apre uno squarcio sul sistema culturale conservativo come massima espressione della logica estrattivista occidentale, spazio non-neutro dalle pesanti implicazioni di economia politica. Tradotto e curato da Duccio Scotini, con un’intervista conclusiva all’autrice, il libro restituisce un percorso accidentato e pesantemente critico dell’idea di museificazione del mondo neo-liberista. L’assunto di base è che a ogni distruzione bellica o coloniale è corrisposta una pratica di conservazione, legata al diritto di trasformare un oggetto saccheggiato in un’istituzione. Il solo Museé de l’Homme possiede quasi 18.000 resti umani tra i quali crani dei capi dell’Africa occidentale, di ribelli cambogiani e di amerindiani. «Il museo – scrive l’autrice originaria dell’isola de La Réunion – ha compiuto un formidabile ribaltamento retorico dissimulando gli aspetti conflittuali e criminali della sua storia e presentandosi come deposito dell’universale, custode del patrimonio di tutta l’umanità spazio da venerare proteggere e preservare da ogni contestazione».
L’universale è per principio inattaccabile. Il Louvre di Parigi, per Vergès, è il modello guida perché è il più prestigioso al mondo e perché nasce con la Rivoluzione francese e l’Illuminismo accompagnato dal suono delle tre parole magiche: libertè, egalitè, fraternitè. E proprio in conseguenza alla rivoluzione vengono compiuti furti in nome del (falso) principio di restituzione al popolo dei beni confiscati alla nobiltà. «Senza il saccheggio dei tesori artistici europei da parte delle armate di Napoleone, senza il furto dei fregi del Partenone del 1802, senza il saccheggio del Palazzo d’Estate a Nord della Città Proibita a Pechino, a opera degli eserciti francese, tedesco e britannico del 1860, senza il furto dei bronzi del regno del Benin 1897 (per citare solo alcuni dei saccheggi più noti) il museo occidentale non avrebbe raggiunto la gloria a cui è giunto nel XIX secolo e che continua da allora». La relazione tra schiavitù, patriarcato, predazione e conservazione museale è inestricabile. La narrazione di marca eurocentrica è simile in tutto l’occidente, parla la lingua coloniale, sessista e impone modelli consumistici e di dominio. Inoltre gli oggetti depredati subiscono processi di artwashing attraverso una sorta di «pacificazione». Sterminio e conservazione sono speculari: gli animali sterminati si ritrovano nei musei, così come le comunità tribali e i loro oggetti. «Gli oggetti muoiono al museo – afferma Vergès –. Se nei paesi di provenienza hanno funzioni sia pratiche sia votive, una volta approdati al museo non possono più essere toccati, non ci si può più inginocchiare davanti alla Dea Madre, perdono la loro sacralità e diventano merce». La corsa delle grandi città alla costruzione di super-musei che permettano la getrificazione e la nascita di nuove speculazioni edilizie è un trend consolidato. In Arabia Saudita è prevista la costruzione di 200 nuovi musei.
Il Louvre di Abu Dhabi comprende strutture come botteghe, ristoranti e persino la possibilità di andare in kayak. Ma cosa si nasconde dietro agli spaventosi capitali che fanno spuntare come funghi musei e fondazioni, dal Golfo Persico alla piccola città di Arles? Dalle dichiarazioni di attivisti come BP or not BP (British Petroleum) si tratta di compagnie estrattive, criminalità e industrie delle armi. Il tentativo da parte dei musei di sciacquarsi la coscienza attraverso finte politiche decoloniali non funziona neanche come make up. Tuttavia, se non è possibile decolonizzare il museo, è possibile, per Vergès, immaginare il post-museo, fare uno sforzo straordinario di immaginazione, smarcandosi da una realtà oppressiva, conducendo una lotta radicale, costante, che cambi l’intera società. L’asimmetria della gestione dei beni artistici appare evidente nell’annientamento di Gaza e dei suoi abitanti considerati dalla classe dirigente occidentale non-uomini. Trecento, tra musei e siti archeologici della Striscia, sono stati rasi al suolo senza che nessun organo internazionale muovesse un dito, a differenza dell’Ucraina. Vogliamo continuare a vivere così? Si chiede Vergès. A fronte della distruzione, l’autrice propone, insieme a numerosi gruppi di attivisti, la pratica radicale del «disordine assoluto», teorizzata negli anni Sessanta da Frantz Fanon. Il post-museo ipotizzato dall’autrice implica la scomparsa degli oggetti (di quegli oggetti razziati e feticizzati dall’Occidente) e afferma la necessità di mostrare la vita e le storie plurali degli uomini perchè «È urgente immaginare altro!». E il museo che Vergès aveva immaginato per La Réunion sarebbe partito dalla storia della popolazione locale, dal respiro, dall’ambiente, dalla furia del tempo, assemblando frammenti, speranze e scorie provenienti dalle comunità degli oppressi.
Manuela Gandini è critica d’arte e curatrice indipendente. Collabora con «La Stampa», «il manifesto» e riviste d’arte italiane. È stata redattrice del mensile «alfabeta2». Insegna Critical Writing e History of Contemporary Art II alla NABA di Milano. Lavora con artisti che operano su temi legati all’ambiente, alla guerra e alle comunità di riferimento. È autrice di vari saggi tra i quali Ileana Sonnabend. The queen of art (Castelvecchi, 2008) e Visioni (HAZE, 2022). È curatrice di mostre nazionali e internazionali ed è autrice e interprete di un monologo (body-talk), intitolato Qualcosa ci sta sognando sull’estetica nazista e le forme dell’arte surrealista e contemporanea. È stata commissario alla Biennale di Venezia del 1993 e tiene una rubrica di arte contemporanea su Facebook e Instagram.

