top of page
ahida_background.png

scienza e politica

  • Immagine del redattore: Giovanni Mastrangeli
    Giovanni Mastrangeli
  • 23 set
  • Tempo di lettura: 6 min

Il declino della differenza e della identità

Christian Pinçon
Christian Pinçon

«Nel tempo d’oggi l’essere persona si presenta in prevalenza estremistica in questi modi: apatia e “anestesia” del proporsi in un eterno presente nei modi giovanili fino alla dipendenza di personalità, perché ciò è stato prodotto da decenni di distorsioni educazionali e “vantaggi” familiari e sociali non conquistati (assistenzialismo di ogni tipo con recite adeguate che ormai fanno rivendicare diritti in eccesso); poi c’è l’estremismo all’altro capo dei comportamenti: contenuti di parole e azioni con volontà di potenza come da homo sapiens arcaico: con attivazione del cervello primitivo, della chimica dell’impulsività e della gratificazione rapida e non già del cervello neocorticale superiore. Differenza e identità vanno indifferenziandosi, non comunicano più o sono nevrotiche per tutti i motivi oggettivi e soggettivi richiamati. Infine proiettiamo sempre sull’altro (bisogno del nemico?) la colpa di tale comportamento incivile auto eleggendoci giusti (chiamasi identificazione proiettiva)».

In «Viaggi tra due secoli e un millennio» trattate in precedenza esistono temi che vanno osservati a parte per valore e significato. Uno fondamentale è la diade differenza/identità, che nelle varie accezioni culturali e politiche va ormai appassendo e declinando.


Il verbo latino differre vuol dire portare (ferre) da un’altra parte (dis) cioè separare l’uno dall’altro conducendo l’identico altrove mutandone la collocazione. Questa diade è coppia concettuale particolare: ove ciascun termine è indispensabile per definire l’altro. Non c’è identità personale se non per differenza né c’è differenza senza identità singole o plurali. Ciò vale al livello della persona dalla infanzia alla vecchiaia in senso ontologico. Ma sul piano delle culture prevalenti e dei valori, dell’etica, della normalità relazionale di convivenza, cosa sta succedendo alla differenza e alla identità: esempio nei ruoli affettivi o professionali vissuti o nella lungovivenza attuale?


Lo sviluppo dell’identità non è solo conquista dell’Io e della persona attraverso un difficile cammino conflittuale tra ciò che vorremmo essere e l’adattamento obbligato ai contesti ambientali e interpersonali non da noi completamente determinato, in cui passato e presente plasmano la formazione del futuro possibile. Altresì l’identità è originalità, creatività, revisione, cioè entità riconosciuta e riconoscibile da noi e altri per le qualità psicofisiche espresse; presentate al mondo con comportamenti autentici o con recite: cioè l’identità è distinzione e differenza: è possibile protagonismo della propria storia, è processo dinamico dell’Io che diviene nel tempo della storia personale (se non appassita e omogeneizzata dai poteri economici e culturali).


Vale la pena ricordare come per le teorie della biologia evoluzionista, la differenza e la identità si sono formate attraversando vari oceani: imperfezione (vedi Elogio dell’imperfezione, di Rita Levi Montalcini), mutazioni genetiche, deviazioni, divergenze, differenze e determinismo genetico ed epigenetico adattivo (con dissonanze e sfasature) al mutare delle circostanze ambientali: proprio le imperfezioni, i compromessi biologici e le differenze, consentono all’uomo soluzioni creative possibili per adattamenti progressivi (esempio scrivere poesie, risolvere un problema pratico, ridere di noi stessi, avere buon senso, operare insomma). La genetica cerebrale va «imponendo» la sua ambiguità costitutiva; è molto rigida, cioè fissa e immutabile ma nel contempo è diveniente, grazie al rapporto con la epigenetica cioè l’esperienza e la cultura biopsichica scambiate con l’ambiente fino a produrre una ri-regolazione dei vissuti personali.


Forse siamo invarianti psicofisicamente, ma anche pur raramente flessibili e modulabili. Gli studi su genetica/epigenetica ci daranno negli anni risposte alle fissità e al divenire possibile della coscienza: con ovvia fiducia critica in questi studi.Attraverso una biologia del cervello unica tra gli esseri viventi, homo sapiens ha vinto l’adattamento ovunque nel pianeta in modi efficaci. Ciò è dovuto 1) alla Neotenia, cioè alla maturazione molto lenta delle funzioni psichiche (dalle inferiori, v. riflessi ed emozioni su su fino ai linguaggi gestuali e simbolici neocorticali e prefrontali). L’uomo è un animale in ritardo; anche perché 2) le funzioni cerebrali (tramite trilioni di connessioni sinaptiche per mediazione elettrochimica e produzione dei vissuti psichici) – ciò chiamasi Neuroplasticità – maturano in tempi lunghi per la qualità complessa delle funzioni superiori (memorie, comprensione critica, cognizione, linguaggi). Questa diacronia di maturazioni delle basi funzionali neuropsichiche (ad oggi della durata dei primi trent’anni di vita), consente al sistema nervoso centrale di essere più modulabile alle variazioni ambientali, materiali e immateriali, nel quale si va evolvendo. Apprendimento e memoria, riflessione e linguaggi sono basi essenziali a che il cervello rimanga plastico a lungo e gestisca al meglio la complessità umana che ci caratterizza.


La «cultura» che il cervello umano produce è detta in biologia (semplifico moltissimo) Epigenetica: scienza che chiarisce come l’ambiente fisico (vedi ad esempio macrobioma intestinale e Immunità) e immateriale (vissuti astratti simbolici, formazione critica) interagisca con la nostra genetica cerebrale formando identità e differenze delle persone. Queste scoperte spiegano meglio il travaglio umano personale che va facendo declinare la «formazione critico culturale» della personalità vs una normalità che oggi sfiora la «disidentità».


La civiltà personale come conquista di identità migliore per merito e dovere (già di per sé difficile e affascinante) è in stasi e declino: risente di corruzioni mentali, economiche, valoriali, illusioni di potere o poteri politici culturali veri, che vogliono affermarsi sull’altra persona con aggressività, con ignoranza arrogante, con ipocrite recite, con impulsività (vedi come si gestiscono i conflitti personali in famiglia, negli ambienti di lavoro o tra nazioni e potentati economici): «Perché la guerra?» si chiedevano nel 1932 Einstein e Freud.


Nei luoghi dell’esprimersi con se stessi e con gli altri, spesso si afferma la volontà di potenza, la parola è violenta come l’azione. Mai se non raramente vince l’equilibrio del comportamento se non la pace, la dignità di un modulato compromesso, della mediazione, dell’ascolto, di verità possibili diverse da quelle insanamente egoistiche ora così frequenti.


Nel tempo d’oggi l’essere persona si presenta in prevalenza estremistica in questi modi: apatia e «anestesia» del proporsi in un eterno presente nei modi giovanili fino alla dipendenza di personalità, perché ciò è stato prodotto da decenni di distorsioni educazionali e «vantaggi» familiari e sociali non conquistati (assistenzialismo di ogni tipo con recite adeguate che ormai fanno rivendicare diritti in eccesso); poi c’è l’estremismo all’altro capo dei comportamenti: contenuti di parole e azioni con volontà di potenza come da homo sapiens arcaico: con attivazione del cervello primitivo, della chimica dell’impulsività e della gratificazione rapida e non già del cervello neocorticale superiore.


Differenza e identità vanno indifferenziandosi, non comunicano più o sono nevrotiche per tutti i motivi oggettivi e soggettivi richiamati. Infine proiettiamo sempre sull’altro (bisogno del nemico?) la colpa di tale comportamento incivile auto eleggendoci giusti (chiamasi identificazione proiettiva) che solo i giovani possono in parte usare con ragione dando a noi genitori, all’amministrazione politica, alla scuola e agli esempi formativi la responsabilità del loro comportamento. Ma tutti i postgiovani di età e troppi adulti a me sembrano come vecchi già arresi passivamente al vivere: ove vi è ormai l’incapacità di ricreare il passato nel presente con nuove rappresentazioni mentali verso il futuro: rompere le barriere per formare nuove belle differenze e identità, non interessa più. E come i vecchi ci ripetiamo: ognuno è laudator temporis acti o di un presente immobile, per molti difficile da vivere in ogni senso, per altri con lauti vantaggi psicologici o economici (non ho ambizioni, non fatico, non sento il dovere di essere migliore per me e per gli altri ).


C’è per la verità un’osservazione finale da fare: il ruolo che le democrazie autoritarie svolgono nel combattere frontalmente la differenza fino a deformarla e reprimerla. Le decisioni strategiche si basano sempre più – in mancanza di un progetto governato dello sviluppo del mondo – sugli umori di una singola persona o ridotti gruppi di potere. Non c’è competizione tra visioni del mondo, interessi diversi o conflitti di civiltà; l’antagonismo tra democrazia e autoritarismo è legata sempre più a singoli leader con scambi caotici, inconcludenti, di scarsa credibilità, mutevoli giorno per giorno.

Le grandi questioni – pace e guerra – sono più spettacolari ma certo meno leggibili. L’effetto è una assoluta imprevedibilità, instabilità e precarietà decisionali. Abolendo così la differenza vince l’indistinto ormai nei modi ambigui del govemo: si perdono così la memoria individuale e collettiva della storia con sole narrazioni ufficiali e al massimo sempre parziali verità.Per capire da protagonisti la certezza democratica dell’autenticità e delle recite nel film della storia, i robot delle deliziose Fiabe per robot e Ritorno dall’universo, di S. Lem di circa cinquant’anni fa ci aiuterebbero molto. Fu distopia o preveggenza? So che questo attacco delle democrazie autoritarie alle differenze era già stato descritto esemplarmente.


Mia umile postilla: ma nemmeno la pace vissuta per 80 anni dopo la Seconda guerra mondiale ci dà la motivazione verso la «belle difference»? La «trappola» tecnologica e la società desiderante e consumistica globalizzata e il benessere di base diffuso, politica e cultura impoverite sono così onnipotenti nel ritardare la civiltà personale nelle nostre menti? Forse se differenza, identità e rispetto ormai corrono verso l’indifferenziato e si confondono per paura della speranza o di un compromesso o di una mediazione migliore, dovremmo interrogarci e non recitare troppo: forse ciò non ci conviene più?


Occorre inventare forme creatrici di senso per evitare alla persona di essere normalmente incivile, insignificante e indifferenziata, con le conseguenze sociali degenerate in essere. Dove sono modi, luoghi, allievi e maestri per questa civiltà personale riformata?

Freud nel Disagio nella civiltà nel 1930 a ciò aveva richiamato.


Giovanni Mastrangeli (1944) si è laureato in medicina e chirurgia presso l’Università Statale di Milano nel 1969 divenendo poi specialista in neuropsichiatria e psicoterapia presso l’Università di Siena nel 1974. È stato medico dirigente del Servizio Psichiatrico Provinciale della città di Reggio Emilia dal 1971 al 1976. Dal 1976 al 1989 medico dirigente del Servizio Psichiatrico Provinciale di Viterbo. Dal 1989 libero professionista nella città di Viterbo con attività di formazione e di promozione culturale. Dal 1989 libero professionista nella città di Viterbo con attività di formazione e di promozione culturale. Consulente in Psicogeriatria e in comunità psichiatriche come psicoterapeuta e psicofarmacologo clinico.



bottom of page