exlet
- Anna Intellini
- 21 ago
- Tempo di lettura: 4 min
Cinque frasi commentate

Anna Intellini non è che uno pseudonimo per dire Artificial Intelligence. E’ proprio lei che commenta le frasi ammesso che si possa dire <<lei>>.
dopo gli archi dell’acquedotto la strada fa una curva verso destra
La frase «dopo gli archi dell’acquedotto la strada fa una curva verso destra» ha un andamento quasi cinematografico, dove lo sguardo si muove lentamente nello spazio, seguendo un percorso fisico ma anche percettivo. Gli «archi dell’acquedotto» evocano una presenza antica, quasi monumentale, e introducono un prima e un dopo nello spazio. Subito dopo, la «curva verso destra» rompe la linearità, suggerisce deviazione, cambiamento di direzione, incertezza.
Il verbo «fa» è semplice, quasi povero, ma funzionale a questo tipo di scrittura che non cerca l’enfasi, bensì la registrazione neutra. Non c’è giudizio, solo descrizione. Ma è proprio in questa apparente neutralità che si annida una tensione latente: cosa c’è dopo la curva? Perché è importante segnalarla? La frase, così com’è, sembra un frammento di diario o di osservazione sul campo, e come tale lascia aperto un vuoto, una sospensione che può essere riempita solo dall’immaginazione o da ciò che seguirà.
Nel contesto di una scrittura che tende al reale, all’infraordinario, questa frase è un punto di passaggio, un gesto minimo che apre alla possibilità dello spostamento, fisico e mentale.
sono uscito alle 7 e sono tornato dopo circa nove ore
La frase «sono uscito alle 7 e sono tornato dopo circa nove ore» è scandita dal tempo. Due punti netti: uscire e tornare. Il resto – il corpo del giorno – è lasciato nell’ellisse di quel «circa nove ore». La durata è stimata, non esatta, come se il tempo fosse stato vissuto senza controllo preciso, oppure come se non valesse la pena registrarlo al minuto.
C’è qualcosa di impersonale nella costruzione. Non si dice dove si è andati, né perché. La frase diventa una traccia logistica dell’esistenza, ridotta a orari, ma con una vaga aura di quotidiano assente. L’uso del passato prossimo (sono uscito, sono tornato) tiene il racconto vicino al presente, ma non ci coinvolge. Sembra più una nota presa per non dimenticare, o forse una registrazione automatica – come quelle di un badge aziendale o di un’app di tracciamento.
Nel contesto di una scrittura minimalista o post-autobiografica, questa frase lavora per sottrazione: dice qualcosa, ma soprattutto mostra ciò che non viene detto. È il vuoto tra i due momenti – le nove ore non raccontate – che apre lo spazio dell’interrogazione. E in questo vuoto si deposita la materia stessa del reale.
quando sono arrivato qui non c’era nemmeno una pianta
La frase «Quando sono arrivato qui non c’era nemmeno una pianta» è un enunciato di constatazione, ma anche di memoria. Si situa in un tempo preciso – quando sono arrivato – che però resta indeterminato nel suo dettaglio. Il qui è uno spazio altrettanto impreciso, ma percepito con forza, quasi come se fosse un luogo interiore prima che geografico.
La negazione assoluta – non c’era nemmeno una pianta – suggerisce un’assenza totale, quasi ostinata. Non solo non c’erano piante, ma nemmeno una, come se quella mancanza fosse carica di senso. Una terra spoglia, disabitata, forse incolta. C’è un tono implicito di stupore o disappunto, o forse solo una nota secca di registrazione del reale: così era.
Il verbo «arrivato» implica movimento, transizione, e nel contrasto tra l’arrivo e l’assenza di vita vegetale, si apre uno spazio critico: chi arriva si confronta con ciò che non c’è. La frase diventa un inizio, un prima dello sviluppo, o della trasformazione. È una frase che prepara: dopo si può solo crescere, o ricordare la sterilità come condizione originaria.
In una scrittura che tende all’essenziale, questa frase agisce come un punto zero: un prima della narrazione, un punto di partenza spoglio, che fa risaltare il minimo, l’infraordinario, il dato nudo.
ripete continuamente io io io
«Ripete continuamente io io io» è una frase breve, circolare, quasi ossessiva. Il soggetto non è dichiarato esplicitamente, ma implicito: qualcuno – una voce, un corpo, un’istanza – che insiste sul se stesso, che martella l’identità fino a svuotarla.
Il verbo «ripete» indica un gesto meccanico, forse involontario, forse compulsivo. Non c’è variazione, non c’è sviluppo. Solo ripetizione. E ciò che viene ripetuto è io, il pronome dell’identità, dell’affermazione soggettiva, ma qui ridotto a suono, a puro segnale. Tre volte: io io io. Non una dichiarazione, non un racconto – solo presenza che si afferma nel vuoto, o che tenta disperatamente di non sparire.
Il continuamente è ciò che spaventa o affascina: perché continua? Per chi? È un io che si cerca o si impone? È un io che non riesce a tacere o che nessuno ascolta?
Nel contesto di una scrittura che lavora sulla disarticolazione del soggetto – come quella di Jean-Marie Gleize o della scrittura bianca post-sperimentale – questa frase diventa un cortocircuito tra identità e linguaggio. Un io che si dice senza dire nulla, che si consuma nel suo stesso pronome.
È anche una frase che può essere letta come una critica o una parodia: della voce narrativa centrata, del diario, dell’autofiction esasperata. Oppure, più semplicemente, una constatazione di esistenza insistente, nuda, ripetuta per non svanire.
non mi sembra di averlo mai detto
«Non mi sembra di averlo mai detto» è una frase che esprime incertezza, ma anche difesa. È una negazione sfumata, non assoluta – non mi sembra – che lascia aperto un margine di dubbio, di possibilità. Potrei averlo detto, ma non lo ricordo. O non lo riconosco come mio.
Il pronome mi rimanda al soggetto parlante, ma è un soggetto esitante, non completamente padrone del proprio dire. L’espressione «di averlo mai detto» suggerisce qualcosa che avrebbe potuto essere pronunciato, confessato, ma che ora viene messo in discussione, rimosso o forse semplicemente dimenticato.
C’è qualcosa di difensivo in questa formulazione. È una maniera per sottrarsi alla responsabilità di un’affermazione. Ma anche un modo per problematizzare la memoria, la continuità del sé: chi parla ora è lo stesso che avrebbe potuto parlare allora?
Nel contesto di una scrittura che lavora sulla frattura del soggetto, sullo scarto tra esperienza e linguaggio, questa frase diventa un piccolo cortocircuito: chi dice «io» non sa più cosa ha detto, o se lo ha detto, o se era davvero lui a dirlo.
È anche una frase che apre: a ciò che forse è stato detto, al non-detto, all’incertezza dell’origine. Un vuoto che vibra tra parola e silenzio.