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- Gian Luca Picconi
- 30 giu
- Tempo di lettura: 8 min
La G di Giovenale: Statue linee

Statue linee di Marco Giovenale, analizzato da Gian Luca Picconi, è un esempio di «prosa in prosa» che decostruisce la rappresentazione letteraria attraverso ironia, autocontraddizione e linguaggio minimo. L’opera mette in crisi i confini tra letterario e non-letterario, linguaggio e metalinguaggio, rivelando la natura politica e antimercantile della scrittura sperimentale.
In un frammento dedicato alla prosa in prosa, Jean-Marie Gleize utilizza, per caratterizzare questo fenomeno, l’aggettivo antirappresentativo. Ora, in che senso la prosa in prosa può essere considerata antirappresentativa? Per dare una risposta a questa domanda, proviamo a prendere in esame un’opera come Statue linee, di Marco Giovenale.
Fin dal titolo, il libro giustappone, senza virgole, dimensioni estetiche incompossibili: il riferimento alle linee riporta infatti a un paradigma bidimensionale, contraddetto dalla tridimensionalità della rappresentazione statuaria. Ma l’assenza di coesione del titolo è anche figlia di un refuso, poi promosso a chiave d’accesso comica: Statue lignee. In questo senso non si può dire che la possibilità della rappresentazione sia assente, ma piuttosto che sia posta in crisi attraverso strategie antinomiche. Per meglio individuare alcune di queste strategie, conviene citare integralmente almeno uno dei brevi testi che compongono la silloge:
«questa prosa non contiene glutine, può essere mangiata e digerita agevolmente da persona intollerante al glutine, non contiene poesie, è una prosa, si è già premesso, è anche senza lattosio e senza lieviti, così non può crescere più di tanto, e non contiene soia né tracce di frutta a guscio, né arachidi né olio, né burro di arachidi, è completamente libera da olio di palma, frumento, farro, miglio, avena, brassicacee, riso, non ci sono fave, chi è malato di favismo può stare tranquillo, questa prosa è senza parabeni, non è assolutamente insolubile, si scioglie in un momento, tuttavia è insolvente, non paga, non può pagare, non ha i soldi, è rettangolarmente povera, fatta con mezzi molto poveri, può essere esposta all’acqua, anche al sole, non scotta, può essere toccata anche senza guanti perché non sporca, non va in giro per casa lasciando inopportuni escrementi, neanche fuori casa, questa prosa è capace di grande ritegno addirittura ritenzione così non emette liquidi, non contiene elementi radioattivi o infiammabili, questa prosa è semplice, non contiene complessità, non ha in mente alcuna complessità, non ha mente, non pensa, non contiene, in assoluto, non ha un contenuto»
In questo esempio di parlar disgiunto e oratio soluta, l’autore presenta una sequenza di asserti giustapposti tali che definirebbero, in una chiave parodicamente metatestuale, i caratteri precipui del testo stesso. È indubbiamente significativo che anche un autore di per sé allergico alla metatestualità ne fornisca un campione così evidente. L’operazione consiste nell’attribuire alla prosa una serie di prerogative normalmente connesse con l’etichettatura dei prodotti alimentari. Nella conclusione, la evidente irrelatezza dei predicati di natura commerciale che vengono attribuiti alla prosa (quasi tutti significativamente espressi in forma negativa) torna, ancora metatestualmente, a trovare una sua forma di coerenza: «questa prosa è semplice, non contiene complessità, non ha in mente alcuna complessità, non ha mente, non pensa, non contiene, in assoluto, non ha un contenuto». Ma questa coerenza, in forza di una serie ulteriore di slittamenti semantici, per una deriva letteralista, sprofonda il testo nuovamente in una serie di contraddizioni che lo rendono nonsensical. Risultano infatti equiparate le caratteristiche che devono contrassegnare il cibo per poterlo vendere a un certo pubblico di consumatori, e quelle che deve avere la prosa di ricerca per poter attivare l’interesse del proprio pubblico di fruitori. Ecco che la metatestualità confluisce in questo testo autorizzata dalla sua funzione comica. Che il comico e l’(auto)ironico rivestano un ruolo non di secondo piano nel libro, è cosa evidente e insieme da discutere.
Che significato (anche politico) ha, infatti, questa curiosa operazione comica e autoironica? La prima cosa che si potrebbe dire, è che in un’opera caratterizzata da un apparentemente debole livello di organizzazione macrotestuale, l’elemento comico realizzato attraverso una gamma disparata di incoerenze e inappropriatezze, fa sì che Statue linee possa comunque essere letto come una totalità di senso. Giovenale gioca non solo a lenire i confini tra oggetto letterario e oggetto non letterario, intervenendo a modificare gli elementi che consentono la distinzione tra i due oggetti; riduce anche o trasforma le modalità di delibazione dello statuto aletico dell’opera, attraverso l’ostensione di autocontraddizioni che l’ironia non basta a riscattare completamente: è l’applicazione di questa strategie lungo tutto il libro a conferirgli una sua consistenza macrotestuale.
Ma se l’autore di un testo che si confronta indubbiamente con l’orizzonte d’attesa della poesia si rivela autocontraddittorio, se l’opera dunque non contiene una sua verità lirica, questo è evidentemente un atto politico, anche perché ciò che si sottolinea è la natura mercantilistica, solo finzionalmente disinteressata, della poesia. Questa critica viene espressa non su un piano di immediata assertività, quanto su un piano di costruzione testuale, e quindi a livello metapoetico.
È quindi probabilmente in questa dimensione dell’autocontraddizione che si annida la antirappresentatività del libro di Giovenale: si tratta di un libro che rinuncia a curare gli assi cartesiani della testualità, ossia coesione e coerenza; ma – in modo uguale e contrario – è d’altro canto la sua successione di microelementi di incoerenza, situabili a livello di ogni singola prosa, a dare una sorta di coerenza (e quindi di chiusura) al libro. Il che significa che il volume di Giovenale ha per lo meno il non piccolo merito di farci scoprire che, in qualche modo, la coerenza e la coesione non sono nient’altro che una forma della clôture.
Ma non si tratta solo di questo. È soprattutto questa clôture recuperata a forza di infrazioni alle regole che consente, in combinazione con l’ampia instabilità nell’uso delle persone dell’enunciazione, la proiezione di simulacri di soggettività: ed è proprio nella produzione di soggettività che il testo si rivela rappresentativo. Clôture e intenzionalità sono strettamente legati all’idea di rappresentazione. Ma la rappresentazione viene messa in crisi e insieme continuamente riattivata dagli effetti di slittamento nell’autocontraddizione che l’autore dissemina nel testo.
Questa tecnica dello slittamento torna anche nel seguente frammento:
«Marco Giovenale scrive testi che non li capiscono. Vede dei video su youtube e dicono che sono lo stesso, ma non sono lo stesso. Non lo credete. Se vedo un video lo capisco, se vedo Giovenale non lo capisco. Se lo leggo. Scrive che tutti fanno su twitter ma se io faccio twitter lo ascolto e lo capisco, ma Giovenale io non lo capisco. Scrive delle parole astruse nei libri, ma anche le parole semplici non si capiscono, e questo è un modo speciale di scrivere che ha lui. Anche quando parla non si capiscono. Allora sono andato da Marco Giovenale e gli ho detto: Marco Giovenale, volevo sapere, ma perché parli così? Lui non ha capito la mia domanda, allora finalmente siamo pari»
Naturalmente, l’elemento di scarto in cui ci si imbatte dapprima è l’uso incoerente del plurale. Ma la sua vera spina dorsale è il riferimento alla figura autoriale da parte di una piattaforma enunciativa che si rivela ideologicamente a lui contraria. Proprio da questo – ossia dal fatto che la piattaforma enunciativa proietta come simulacro di soggettività la voce di un detrattore dell’autore – consegue un testo dal marcato carattere comico. La temperatura comica – una proprietà del testo, si direbbe, intensiva – è tutta data da singoli elementi continuamente rilevabili, di cui la boutade finale – «siamo pari» –, orchestrata secondo la tecnica classica del fulmen in clausula, mentre ritornando sul verbo «capire» dà forma a una Ringkomposition, costituisce la divisa che si riverbera mnesticamente su tutto il resto del testo.
Si può poi ravvisare nell’impasto lessicale uno degli elementi cruciali di unitarietà del volume: lessemi da italiano dell’uso medio e strutture che linguisticamente tendono all’oralità producono una sensazione totalizzante di grado zero del linguaggio. Questa sensazione di un grado zero – che non è la stessa cosa di una tabula rasa – pare giustificare – comicamente – l’andamento autocontraddittorio del libro. Il lettore, nel riconoscere gli effetti di intenzionalità di questo dispositivo, giustifica allora in base a principi che trascendono la compagine testuale, le infrazioni alla coerenza individuabili nel testo.
Quello che il buon vecchio Garroni chiamava «costellazioni semantiche primitive» qui produce, anziché i più consueti effetti emotivi di identificazione, disidentificazioni comiche a mezzo di minime incoerenze, anche e soprattutto per l’uso di lessemi che non sono collocabili nella tradizione del testo lirico. Del resto, l’unico problema di ogni linguaggio poetico è la determinazione della sua separatezza rispetto al linguaggio fattuale. Ma questa separatezza può essere di due tipi: per intensificazione, o per deintensificazione; e, ovviamente, alla deintensificazione segue la disidentificazione. Qui, pare prodursi seguendo il principio dettato dal suffisso de-, inducendo il fruitore al riadattamento continuo delle proprie metarappresentazioni. Il grado zero, in questo modo, come forma primitiva di straniamento, produce un effetto ulteriore: la continua trasformazione del linguaggio in metalinguaggio, o, per dir meglio, un lavoro costante di messa in rilievo della funzione metalinguistica anche quando risulta in qualche modo implicita.
L’idea di rappresentazione che in qualche modo è postulata all’interno di questa prosa, attraverso una piattaforma di enunciazione che promuove l’idea di un locutore polemico con l’autore, l’idea di personaggi, una struttura potenzialmente finzionale dai confini chiusi, viene appunto messa in crisi attraverso l’embedding del metalinguaggio. Grado zero più metalinguaggio però, cosa produce?
Si direbbe che la piattaforma pragmatico-enunciativa allestita dalla prosa in prosa produca non solo la trasformazione ma l’identificazione di funzione poetica e funzione metalinguistica (per usare le ben note categorie jakobsoniane), la neutralizzazione della loro differenza. È allora in questo senso che si realizza la crisi della dimensione rappresentazionale del testo: nell’indistinzione tra letterario e non-letterario combinata con l’indistinzione tra linguaggio e metalinguaggio.
Di questo grado zero dell’espressività, della finzionalità, della rappresentazionalità, di questa distruzione dei confini tra linguaggio poetico e metalinguaggio, testimoniano programmaticamente frammenti come i seguenti:
«chiesero al Maestro: Maestro, come com-patire?
rispose: evitando la mimesi, forma debole dell’irrisione»
o, altrove:
«la sintassi è meno importante dei vocaboli, che sono meno importanti degli spazi che li separano»
Ne risulta un libro che oggi ha un carattere di necessità: nella misura in cui Statue linee è anche un’opera didascalicamente impegnata a mostrare quali confini può avere la cosiddetta prosa in prosa. Confini che, poiché il linguaggio della prosa in prosa ha natura intensionale e non estensionale, sono, come ben sa Giovenale, interni al testo stesso: «Sulla pellicola la seconda immagine dell’incendio si sovrappone alla prima e la brucia». Statue linee insomma dimostra che realtà e testualità letteraria non sono mondi separati e separabili, ma si coimplicano continuamente e la loro interrelazione funziona, in modo paradossale, come una sorta di nastro di Möbius.
Proprio questa peculiarità di funzionamento della testualità letteraria non-assertiva è capace però allora di revocare in causa un concetto così in voga nella cultura odierna come quello di patto, quando sia applicato alla dimensione della letterarietà: il principio della coimplicazione mostra che, in fin dei conti, in letteratura, non c’è patto più di quanto non vi sia patto tra predatore e preda. Trarre le debite conseguenze teoriche da questa impostazione sarà la sfida che la critica dovrà affrontare, se il mercato simbolico e materiale della letteratura glielo consentirà, nei prossimi anni.
Gian Luca Picconi ha conseguito nel 2010 il dottorato di ricerca in Filologia, interpretazione e storia dei testi italiani e romanzi presso l’Università degli Studi di Genova con una tesi dal titolo Poesia in forma di rosa di Pasolini: saggio di commento. Ha pubblicato il volume La cornice e il testo. Pragmatica della non-assertività (Tic edizioni, 2020), e saggi sulla letteratura contemporanea in volumi collettanei, riviste scientifiche e militanti.