top of page
ahida_background.png

exlet

  • Immagine del redattore: Massimiliano Manganelli
    Massimiliano Manganelli
  • 22 ott
  • Tempo di lettura: 8 min

Intorno a Mario Giacomelli. Dialogo su fotografia, scrittura e ricerca

ree

Il presente dialogo prende le mosse dalla visita alla mostra Mario Giacomelli. Il fotografo e l’artista, a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Katiuscia Biondi Giacomelli, tenutasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 20 maggio al 3 agosto 2025.


Massimiliano Manganelli: Girando per le sale della mostra si capisce molto bene che un medium come la fotografia, nato in sostanza per «riprodurre», possa invece essere utilizzato per «produrre», sempre a partire, paradossalmente, da una riproduzione. Giacomelli lavora su un dato «reale», strettamente materico, non fa fotografia deliberatamente astratta, eppure giunge comunque a un’astrazione molto peculiare.


Giulio Marzaioli: La componente materica della fotografia di Giacomelli balza agli occhi soprattutto per il contrasto tra scuro della forma e luce dello spazio attorno. Non a caso l’esperienza artistica di Giacomelli viene accostata all’opera di Burri (a mio avviso il rapporto è evidente soprattutto con le Combustioni), e mi pare che il nesso stia nella fiducia verso la potenzialità di emersione (di ulteriore forma, di diversa matericità ecc.) insita in una superficie apparentemente statica e uniforme (pellicola fotografica o ad esempio cellophane, nel caso di Burri). L’astrazione a cui ti riferisci penso che sia proprio l’esito di un’opera di esplorazione, compiuta anche in camera oscura. Non c’è nessuna deriva simbolista e non credo ci fosse una teoria estetica predefinita da dover dimostrare. La coerenza del percorso di Giacomelli, a mio parere, è da ricondurre all’adesione del suo lavoro a una ricorrenza di temi sottesi e a una rigorosissima e incessante attività di sperimentazione. Alla fine alcune opere si avvicinano a uno stato metafisico che sembra la naturale maturazione dell’immagine. Quest’opera di ridefinizione progressiva della visione reale e del supporto dell’immagine stessa produce una «densità» non così presente in gran parte delle immagini (artistiche e non) da cui siamo subissati ogni giorno.


MM: Mi sembra particolarmente interessante il procedimento con il quale si produce l’immagine, perché questa è evidentemente il risultato di una ricerca, non c’è nulla di preimpostato. Giacomelli scatta e poi lavora moltissimo in camera oscura, giocando molto sui contrasti, come si vede benissimo nelle sequenze dei seminaristi o nel ritratto della madre, nel quale a partire da uno stesso negativo è possibile effettuare alcune variazioni con esiti davvero diversi. Sicuramente c’è un’idea della composizione già nel momento in cui si mette l’occhio nel mirino – altrimenti non staremmo parlando di fotografia nel senso artistico e professionale –, tuttavia l’apertura dell’otturatore è soltanto l’avvio di un processo molto più lento ed elaborato. Secondo me è questa la ricerca, ossia l’esplorazione di un campo di possibilità, senza avere in mente una meta predefinita.


GM: Le foto della madre rimandano a un altro tratto che a mio avviso è distintivo nell’opera di Giacomelli, ovvero il movimento. Elemento ancor più significativo, trattandosi di fotografia. Sia nelle varie serie di medesime immagini (che risultano variate per contrasto), sia nelle figure in movimento, ottenuto in fase di scatto o per deformazione del supporto dell’immagine in camera oscura, ci troviamo al cospetto di un processo creativo che coinvolge attivamente il fruitore nel tentare una visione propria (una propria disposizione alla visione). Scrivi di «campo di possibilità» e di assenza di «una meta predefinita»; effettivamente chi osserva partecipa alla determinazione di un’immagine (non già dell’immagine) plausibile per lui nell’ambito di un contesto messo a disposizione dall’artista. Se vogliamo riconoscere una «ricerca» nell’ambito di un qualsivoglia percorso creativo, in esso si deve necessariamente presumere che non fosse noto in origine il risultato di questa ricerca; quindi ravvisare l’assunzione di un rischio, l’allontanamento da una zona conosciuta o predefinita (presupponendo che fare arte sia anche un’esperienza conoscitiva). 


MM: Per forza di cose le categorie si definiscono ex post, altrimenti sono programmi di poetica, per usare un termine novecentesco che oggi mi pare piuttosto in disuso. Ora, io non saprei dove collocare la ricerca di Giacomelli, so però cosa apprezzo e cosa no del suo lavoro, che è poi ciò che apprezzo anche in altri campi artistici. Trovo interessante, per esempio, quella matericità di cui dicevo all’inizio, accompagnata a un altro elemento che contrasta molto con la comune idea di fotografia, cioè quello di rappresentazione. Giacomelli non rappresenta la realtà, ma in qualche misura la costruisce, la utilizza, ossia ne utilizza i dati, per fare altro. E qui penso sia individuabile un’analogia con la letteratura, che si ritrova a lavorare con una materia prima che le preesiste – ossia la lingua d’uso – per dislocarla e trasformarla. Se ci pensi, qui sta l’ambiguità, in positivo come in negativo, di letteratura e fotografia: usare elementi condivisi da tutti che recano con sé, sempre e comunque, un significato. Meno mi sento di apprezzare, invece, certe torsioni liriche, soprattutto dell’ultimo Giacomelli, in cui percepisco un’intenzione che ritengo fastidiosissima, spesso riscontrabile in certo cinema d’autore: l’idea di creare immagini «poetiche», come se questa poeticità, peraltro, fosse un universale valido per tutti i luoghi e tutte le stagioni.


GM: Effettivamente c’è differenza tra l’immagine che si crea mentre la esplori e l’immagine già creata (creata appositamente per la riproduzione o trovata e riprodotta tal quale). Se vogliamo restare sull’analogia con la scrittura, il medesimo invito alla scoperta avviene quando il linguaggio ti sorprende perché maneggiato altrimenti non soltanto dall’uso quotidiano, ma anche da ciò che ti aspetti (in questo senso sarebbe auspicabile che un autore si allontanasse qualche metro dalla propria zona di sicurezza ogni volta che affronta un nuovo percorso di scrittura). Tuttavia anche nelle ultime opere di Giacomelli, che possono apparire maggiormente accondiscendenti con i gusti più canonici del pubblico, è presente un elemento comune a tutto il suo lavoro che rende ulteriormente attuale, se non opportuna, la conoscenza e la frequentazione della sua opera. Mi riferisco all’elemento temporale, a come il tempo (nell’immagine, dell’immagine) emerge rispetto a chi osserva la fotografia. Per opposizione mi viene in mente l’iperrealismo di Edward Hopper: laddove nei quadri di Hopper tutto è esattamente definito e ingloba l’osservatore nell’attimo ritratto che si dilata all’infinito, in Giacomelli è, al contrario, un’opera di sottrazione che concede infinite possibilità di misurazione o determinazione del tempo. Questo sforzo è evidente, e peraltro anche documentato, proprio nella serie sui seminaristi: addirittura sui provini di stampa Giacomelli apponeva indicazioni per la cancellazione di elementi sullo sfondo che potessero alterare l’effetto di sospensione desiderato. Ho avuto questa impressione anche osservando i paesaggi rurali, dove il gioco estremo di contrasto toglie qualsiasi possibilità di intendere la luce come riferimento temporale. La possibilità offerta all’osservatore di immersione nel tempo delle immagini senza una misura predefinita è un invito a una attivazione (a determinare) che mi pare possa considerarsi una sorta di ipotetico antidoto alla massa di immagini da cui siamo sommersi (la furia delle immagini, per dirla con Fontcuberta) e che provoca una passiva e acritica soggezione. 


MM: Noi viviamo nell’epoca della postfotografia (Fontcuberta insegna), Giacomelli in quella della fotografia. Lo stesso potremmo dire della poesia: noi viviamo in un’epoca in cui la poesia tradizionalmente intesa è praticata soltanto come attività residuale, come del resto si pratica ancora la fotografia su pellicola. Però non considero la tendenza lirica come un cedimento al gusto mainstream: credo che sia connaturata in quel tipo di fotografia. A volte emerge di più, a volte meno. Se ci pensi, anche la sottrazione del tempo tramite la cancellazione degli elementi spaziali di contorno va in questa direzione. Ecco, a me interessa più il processo con il quale Giacomelli arriva a realizzare le proprie immagini, più che il vero e proprio risultato. Faccio un esempio: le immagini degli anziani della serie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi potrebbero essere scattate in un tempo qualunque. Giacomelli combatte il tempo sul suo stesso terreno, cercando di sottrarlo alla fotografia, che è un’arte strettamente vincolata alla temporalità.


GM: Nel caso della serie a cui fai riferimento, ancora una volta penso che sia l’uso della luce a «isolare» i soggetti nello spazio, così da renderli presenti e ulteriormente definiti. Il bianco accentuato del lenzuolo o il nero diffuso di una coperta o della parete di fondo creano una campitura per il rilievo della forma umana, quasi ci trovassimo di fronte a un altorilievo. Chiaramente non siamo in presenza di un approccio documentaristico di stampo strettamente politico o civile, bensì di un accostamento artistico teso a porre in risalto l’aspetto umano, la dignità della persona, sebbene ritratta in un contesto di disagio (l’ospizio, nella serie richiamata). Mi continuo a chiedere come tradurre in termini condivisibili la lezione che ritengo, ancora una volta, attuale dell’esperienza artistica di Giacomelli. Forse il processo creativo di cui scrivi è uno dei principali elementi da considerare, se associato all’intenzione sottesa a quel processo. Detto altrimenti: l’uso della luce per porre in rilievo ciò che si ritiene determinante nella visione (ad es. nel caso della serie da te citata, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) o, al contrario, per scoprire cosa può offrire una determinata immagine (ad es. nei paesaggi). Il fattore determinante è la sensazione di profondità che emerge dalle fotografie di Giacomelli, che è ben altra cosa rispetto alla discesa verticale in una dimensione retorica o di supponenza. L’opera di Giacomelli sembra suggerire un utilizzo della materia di cui si dispone (immagine/luce nell’arte fotografica, ma potrebbe valere anche in riferimento a pagina/linguaggio nella letteratura, ecc.) per invitare l’osservatore (lettore, ecc.) a una riflessione comune; ciò non per mezzo di una postura preordinata o per la preventiva costruzione di un/del senso, bensì attraverso il trattamento della materia stessa. Forse non si tratta di negare o censurare aspetti connessi a qualsiasi processo creativo, ma di riconoscere, all’interno di quel processo, pari importanza alle varie dimensioni coinvolte.


MM: Sì, è chiaro che si parte dalla materia di cui si dispone, che nel caso di Giacomelli è in primo luogo il paesaggio delle colline marchigiane. Mi stupisce, a questo proposito, che Volponi non abbia mai scritto di Giacomelli, perché, al di là della comune origine regionale, c’è un dato che li avvicina: la realtà non è data a priori, ma si costruisce. Per tornare all’analogia con la scrittura, quello che conta, allora, è l’uso che si fa della materia di cui si dispone. Intendo non solo il materiale linguistico, ma tutto quello che concorre alla costruzione di un testo. E soprattutto conta la postura con la quale si affronta quel materiale, perché a me interessa che di qualunque materiale si faccia un uso critico e non passivo, che si tratti della lingua o dei contenuti autobiografici o della trama di una narrazione. 


GM: Critica e crisi hanno la stessa radice etimologica. Possiamo convergere sull’assunzione che la crisi sia insita nella scelta che a sua volta è una determinazione autonoma rispetto alle possibilità offerte. Quando scelgo di sperimentare partendo da una materia disponibile (come fa Giacomelli), compio una scelta ben definita senza che, tuttavia, sia noto l’esito di quella scelta. Non so se per «uso critico» intendevi questo scarto (dalla forma primaria in cui si manifesta la materia oggetto della creazione artistica). Proprio considerando i gradi di questo scarto possiamo valutare l’originalità di un’opera. Lo stesso valga per quanto riguarda forme, stili, tecniche che, una volta individuati e comunemente adottati, diventano essi stessi materiali noti. L’uso pedissequo di tali «strumenti» non può evidentemente connotare un’opera come inedita. Da questo punto di vista vi è più di un’accezione in cui può intendersi la parola «ricerca». E penso che, se consideriamo l’ambito letterario, tale termine possa essere considerato più o meno comprensivo in base al profilo che vogliamo scegliere: su un piano politico-culturale, ad esempio, si potrà intendere «di ricerca» il posizionamento di un autore rispetto a un ambiente di riferimento c.d. mainstream. Se invece passiamo a considerare il piano della pratica di scrittura, allora il discorso si fa più complesso, perché non sempre l’appartenenza a una scena di riferimento denota una scrittura necessariamente originale. Esprimevo le stesse considerazioni una dozzina di anni fa (su Nazione Indiana, qui); nel frattempo non sono mancati sforzi volti a perimetrare l’ambito di riferimento né occasioni di mappatura o di coinvolgimento attorno al termine «ricerca». Tuttavia quello che a mio avviso è mancato (e manca tuttora) è un inquadramento «critico» di più ampio respiro che, in primo luogo, si ponga domande al di là delle risposte che noi stessi autori ci siamo dati in questi anni, con tutta una scorta di contrapposizioni e distinzioni più o meno sostenibili. E ciò per definire o ridefinire un campo che potrebbe anche assumere fisionomie diverse. Peraltro, in un percorso autoriale possono esserci momenti in cui maggiore è la propensione alla ricerca e momenti in cui ciò non avviene. La ricerca in senso stretto è un «modo» di trattare creativamente uno o più linguaggi e non reca in sé alcuna connotazione valoriale. Ma credo che stiamo aprendo una nuova e ulteriore discussione. 


MM: Infatti, ci stiamo spostando verso questioni di respiro diverso e decisamente più ampio. Direi che conviene fermarci qui, per il momento.


● L’editore resta a disposizione per gli eventuali aventi diritti sull’immagine di copertina


bottom of page