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guerre

  • Immagine del redattore: Maurizio Lazzarato
    Maurizio Lazzarato
  • 2 giu
  • Tempo di lettura: 14 min

Produzione e guerre di classe

Roberto Gelini
Roberto Gelini

Il testo che vi proponiamo è stato letto (in parte) al convegno «Negri au-delà de Negri, Subjectivités, travail et critique du capital» Paris, 15-16 juin 2025. Lazzarato recupera il concetto marxiano di «accumulazione originaria» e lo mette al centro della sua elaborazione non come processo storico già dato ma come una delle tappe fondamentali del ciclo capitalistico. La guerra non è altro che il punto in cui il capitalismo ritorna al suo momento iniziale: <<il ciclo del capitale inizia con guerre e termina con guerre>>. La sua critica va alla svolta etico-politica delle teorie che si sono occupate di superare i limiti del marxismo sin dagli anni Sessanta. Il vero problema non è più la macro-politica ma la produzione di soggettività senza rottura: il momento costituente senza considerare <<l’uno e il due>>, senza lo scontro tra classi. Per Lazzarato escludere la guerra e le guerre civili dalla teoria critica vuol dire non considerare la possibilità della rivoluzione.


L’attuale impotenza politica è la conseguenza dell’esclusione delle guerre e delle guerre civili dalla teoria critica, che è a sua volta il risultato di un’altra esclusione, quella della rivoluzione. Esclusioni condivise da tutte le diverse teorie della «produzione» che, sin dagli anni Sessanta, hanno arricchito, ampliato, contestato e cercato di superare i limiti del marxismo: l’economia libidinale (Lyotard), l’economia degli affetti (Klossowski), il discorso del capitalista (Lacan), la produzione desiderante (Deleuze e Guattari), la biopolitica (Foucault), l’Essere come produzione ontologica spinoziana di Negri. «Un fantasma pervade l’immaginario rivoluzionario, è il fantasma della produzione», dirà Baudrillard, senza però uscire, con il suo ricorso al simbolico, alla cultura e alla semiotica, dalla pacificazione che questi concetti di produzione implicano.

L’attuale regime di guerra è, da un lato, un risultato evidente della produzione capitalista; dall’altro è inspiegabile con le sole categorie della critica dell’economia politica, della produzione desiderante o biopolitica, o ancora con l’ontologia spinoziana. Questi nuovi concetti di produzione pretendono di superare i limiti del dualismo della lotta di classe attraverso l’affermazione della molteplicità, mentre nel capitalismo quest'ultima è necessariamente intrappolata nel rapporto strategico delle guerre di classe.


La produzione – che sia materiale o immateriale, affettiva o desiderante, cognitiva o biopolitica – presuppone sempre la produzione extra-economica, extra-affettiva, extra-cognitiva delle classi sociali. Prima di produrre merci, è necessario prendere, appropriarsi, espropriare con la forza e la violenza dello Stato e dei capitalisti terre, popolazioni, corpi, mezzi di produzione, risorse, e dividere ciò che è stato preso. Storicamente, il capitalismo è nato da una triplice conquista: la conquista delle terre e l’espropriazione dei contadini in Europa, la conquista delle donne (la caccia alle streghe è il segno della loro espropriazione), la conquista delle «terre libere» del Nuovo Mondo, con l’asservimento degli indigeni – colonizzati – e degli africani resi schiavi. Senza queste guerre di conquista dei corpi, che dividono i vincitori e i vinti in proprietari e non proprietari, nessuna produzione può avere luogo.


Le divisioni tra proprietari e non proprietari, la dominazione dell’uomo sulla donna, del bianco sul non bianco, non sono il risultato della produzione, ma ciò che essa presuppone. Queste guerre e divisioni si verificano ogni volta che il capitale passa da un regime di accumulazione a un altro. Hans Unger Krahl è l’unico marxista che, negli anni Sessanta, invece di pacificare la produzione, cerca di articolare la violenza della lotta di classe, della guerra civile, della rivoluzione e la costrizione «silenziosa» dei rapporti di produzione, pensando insieme rivoluzione e produzione.

In una polemica con Habermas attorno a Marx, interroga ciò che pone problema in quest’ultimo: «La produzione è il principio della storia, tuttavia la storia nel suo insieme è la storia della lotta di classe». Egli vede nel marxismo due princìpi euristici diversi: la produzione e i suoi «soggetti» (forze produttive e rapporti di produzione) e la lotta di classe e i suoi «soggetti» (l’opposizione politica oppressori-oppressi) che non si articolano facilmente tra loro. La soluzione di questa contraddizione è indicata da Krahl nell’accumulazione primitiva che si ripete («processo terroristico di espropriazione dei piccoli proprietari della terra e la trasformazione dei campi in allevamenti, la costituzione delle grandi monarchie assolute, la cui violenza di coercizione extra-economica ha, a quell’epoca, una potenza direttamente economica» (Costituzione e lotta di classe, Jaca Book, 1971) dove coglie le forze extra-economiche e politiche che agiscono come presupposti dell’accumulazione del capitale : le classi sociali (proletariato e borghesia) nascono da queste guerre civili.


L’accumulazione primitiva consiste nella «distribuzione primaria dei mezzi di produzione e della proprietà privata» e nella creazione delle classi proprietarie e non proprietarie che ne discendono. Pertanto, «il concetto di distribuzione primaria dei mezzi di produzione – risultato della guerra di appropriazione – deve essere, a mio avviso, sussunto nel concetto di produzione, soprattutto se questo comprende, come in Marx, dal punto di vista categoriale e materiale, non solo il lavoro inteso come attività strumentale, ma anche il lavoro e la divisione del lavoro» (divisione del lavoro politica e non tecnico - strumentale).


Carl Schmitt è molto vicino al punto di vista di Krahl. Riassume la costruzione di ogni «Nomos» della terra, cioè di ogni ordine politico e sociale, con tre verbi, tre azioni : prendere/dividere/produrre. Utilizza il concetto di «divisio primaeva» (divisione primaria) di Tommaso d'Aquino e Thomas Hobbes per descrivere ciò che la distribuzione primaria presuppone, e aggiunge: <<la divisione>> e il <<suum cuique>>presuppongono la presa di ciò che c'è da dividere; in altre parole, presuppongono un'occupazione o un'appropriazione primaeva» («Appropriazione /divisione/ produzione» in «Le categorie del politico», Il Mulino, 1972). Prima della produzione, c'è quindi una distribuzione primaria, che a sua volta presuppone un'appropriazione primaria. Il capitalismo, a differenza di quanto afferma o trascura il pensiero del '68, non può fare a meno dell'imperialismo. L'essenza dell'imperialismo risiede nel primato dell'appropriazione sulla divisione e sulla produzione<<. La conseguenza politica di questa affermazione è notevole: la marxiana <<espropriazione degli espropriatori<< viene confermata come condizione della rivoluzione, tanto più necessaria perché <<la dottrina dell'espropriazione degli espropriatori è legata a un imperialismo più intenso, perché è tra i più moderni>>.


Michel Foucault, invece,  esprime la stessa incomprensione di Habermas riguardo a Marx e al suo concetto di produzione, che egli separa dal rapporto di potere che la fonda. Distinguendo le relazioni di lavoro, le relazioni di comunicazione e le relazioni di potere, attribuisce a Marx, anche se non è nominato nel testo, una concezione strumentale del lavoro. Il potere del lavoro è quello che si «esercita sulle cose e che conferisce la capacità di modificarle, utilizzarle, consumarle o distruggerle» (Il soggetto e il potere, Dits et Ecrits, Gallimard, 2001). «Ciò che caratterizza invece il «potere» è che mette in gioco relazioni tra individui (o tra gruppi)» (Ibidem).


Marx e la «distribuzione sociale»


Nella Einleitung, manoscritto del 23 agosto 1957, Marx generalizza teoricamente i risultati del suo lavoro storico sull’accumulazione primitiva, il che consente di mettere in luce il malinteso di Foucault. La distribuzione che egli non chiama primaria, è una «legge sociale»: l’individuo «che non possiede alcun capitale, nessuna proprietà fondiaria, nascendo, è assegnato al lavoro salariato dalla distribuzione sociale». Questa distribuzione non solo precede e determina la produzione, ma costituisce «un fatto pre-economico», assegnando nel contempo le funzioni «economiche» alle classi nella produzione. David Ricardo, considerato da Marx «l’economista per eccellenza della produzione», considera per questo stesso motivo non la produzione, ma la distribuzione come la vera tematica dell’economia moderna, poiché «la produzione inizia con la distribuzione dei mezzi di produzione» e assegna in questo modo il posto e le funzioni degli agenti nella produzione.

Marx riconosce che la distribuzione primaria «precede la produzione e ne costituisce il presupposto». La divisione politica tra proprietari e non proprietari è la condizione della produzione capitalista, ma quest’ultima, una volta installata, trasforma questi presupposti nei suoi risultati. Leggendo queste pagine, si ha l’impressione che l’accumulazione primitiva e le divisioni prodotte dalle guerre di appropriazione e di assoggettamento costituiscano il passato che il capitale ha definitivamente superato.


Anche per Tronti, sotto l’influenza del «bisogna essere assolutamente moderni» di Operai e Capitale, l’accumulazione primitiva fa parte di ciò che Marx chiama la «preistoria del capitale da cui bisogna avere il  coraggio critico di liberarsene senza pietà». 

Krahl, al contrario, sposta radicalmente il punto di vista di Marx e di Tronti: «L’accumulazione originaria, lo stato di natura del capitale, è il prototipo della crisi capitalista». Le crisi sistemiche che costellano la storia del capitale devono sempre essere comprese dal punto di vista politico, come manifestazione della guerra civile che è alla base della relazione di potere. Il ciclo del capitale inizia con guerre e termina con guerre.


Le due crisi egemoniche dell’imperialismo statunitense, quella degli anni Sessanta e Settanta e quella che si svolge sotto i nostri occhi, costituiscono due forme diverse di accumulazione primitiva. L’azione di Trump per la costruzione di un nuovo Nomos della terra economico / politico può’ essere riassunta e sintetizzata con i tre verbi di Carl Schmitt : prendere / dividere / produrre. I dazi (come il desiderio di prendersi Groenlandia, Il Canada, Panama), la raccolta di promesse di investimento negli emirati, di acquisto di merci americane imposte agli Europei, l’accordo sulle terre rare con l’Ucraina, ecc., sono forme di appropriazione (fare cassa per colmare il deficit). Contemporaneamente utilizza la forza, la minaccia, il ricatto, soprattutto con i suoi sudditi europei, per imporre una nuova divisione del otere a livello mondiale. Soltanto tramite la violenza coercitiva extra economica che si manifesta come una potenza direttamente economica, si potrà imporre nuova, eventuale, produzione (industrializzare gli Stati Uniti). Che il progetto sia irrealistico e che il suo  insuccesso prepari la guerra mondiale non più a pezzi, non toglie il fatto si svolge nel modo descritto da Marx, Krahl, Schmitt. L’azione produttiva potrà funzionare solo dopo che l’azione politica ha ridisegnato il mondo e i suoi attori.


Negli anni Settanta, la riconfigurazione delle classi e della proprietà che la nuova produzione basata sulla finanza e sul debito richiedeva è stata anche più violenta. Non è emersa in modo immanente alla produzione fordista, ma da una contro-rivoluzione (Nixon/Kissinger/Volcker) che ha utilizzato alti livelli di forza armata (colpi di stato, dittature, strategie della tensione, repressioni violente, sconfitte politiche del movimento operaio) su tutto il pianeta. Ne è emerso un Nomos della terra che distruggeva Bretton Woods, costruendo le premesse  della globalizzazione, oggi, a sua volta in crisi sistemica. 


La produzione fordista non poteva più riprodurre le proprie divisioni, e tuttavia era incapace di organizzare il passaggio al capitalismo finanziarizzato e alla sua governance, il neoliberismo (da non confondere, assolutamente). Tra le due si crea una discontinuità e un’inedita accumulazione primitiva deve necessariamente intervenire. È all’interno di questa contro-rivoluzione violenta che la rivoluzione mondiale e, con essa, i movimenti politici italiani sono stati sconfitti militarmente e politicamente.


Spinoza e lo strano tentativo di salvare la rivoluzione


Si potrebbe interpretare il passaggio di Toni [Negri, N.d.T.] attraverso l’ontologia di Spinoza come un tentativo disperato di salvare la rivoluzione dalla sua sconfitta storica. Toni pretende di risolvere la contraddizione marxiana tra produzione e lotta di classe messa in luce da Krahl, attraverso l’ontologia spinoziana che, ai suoi occhi, riesce a tenere insieme la produzione e il politico in un modo nuovo. 

Tentativo molto problematico, poiché, secondo Krahl, in Marx «la teoria della società, fin dall’inizio, supera le implicazioni ontologiche dal punto di vista della produzione pratica dell’oggettività e queste stesse implicazioni diventano critiche dell’ontologia». Tanto più che in Lenin, Mao, Ho Chi Minh non c’è alcuna problematica ontologica, ma una serie di grandi invenzioni strategiche (ciò che Foucault ha perseguito per tutta la vita e non è stato in grado di concettualizzare e praticare).

Un insieme di problemi politici sono risolti dall’installazione di un doppio regime: ontologico e storico. L’«accumulazione dell’essere» avviene a livello ontologico in modo tale che c’è progressione, intensificazione, mutazione, nonostante le sconfitte che la Moltitudine subisce a livello storico-politico. Dietro la disfatta è in corso una metamorfosi ontologica; la produzione di un nuovo essere e di nuove soggettività si fabbricano incessantemente, poiché la loro produzione è inestinguibile: «nulla può far tornare indietro» il divenire della Moltitudine. Il lavoro su Spinoza «era un tentativo di dire: d’accordo, siamo stati sconfitti, ma siamo ancora qui, l’ontologia ci permette di produrre un’etica».


La rivoluzione non è più «politica» come nella tradizione rivoluzionaria europea, ma prima di tutto etica. La misteriosa rivoluzione che sarebbe già avvenuta e che si tratta solo di realizzare «è il segno che rende etico l’agire».  La svolta etico-politica è comune a Foucault, Deleuze e Guattari, il cui unico vero problema sarà quello della produzione di soggettività, delle forme di vita, delle nuove possibilità di vita scollegate dalla rivoluzione macro-politica.  L’ontologia spinoziana consente una nuova definizione del politico come «potere costituente», molto lontano dalla concezione dialettica che si trova in Marx e nei marxisti rivoluzionari del XXº secolo. È il potere costituente, espressione della potenza della Moltitudine, che «trasferisce il politico sul terreno dell’ontologia». 


Ribaltando il punto di vista dei costituzionalisti, e persino dei rivoluzionari per i quali il potere costituente viene dopo una rottura radicale, si sviluppa all’interno di uno stato di eccezione, si instaura dopo che la guerra civile ha designato vincitori e vinti; «il potere costituente viene prima, è la definizione stessa del politico». Invece del rapporto strategico tra classi, la Moltitudine contiene in sé il rapporto dell’uno e della molteplicità, che si esprime nell’espansività senza limiti dell’essere. Si libera continuamente dagli ostacoli posti da vincoli esterni. Il negativo, che non ha esistenza ontologica, è confinato nell’azione del potere, incapace di produrre un nuovo essere, prerogativa riservata alla Moltitudine.


Toni sembra identificare una potenza acquisita nella contingenza di un rapporto politico tra classi, sempre alla mercé del «caso» e della imprevedibilità dello scontro, consolidata storicamente dalle rivoluzioni e dalle lotte del Novecento, con l’ontologia. 

Durante tutto il secolo, il proletariato sembrava poter rovesciare il rapporto di subordinazione a cui è assegnato dal dualismo della guerra di classe: l’«autovalorizzazione» del proletariato mondiale entrava in competizione / scontro con la valorizzazione del capitale, accumulando salario, welfare, rivoluzioni vittoriose e pareva «separarsi dal capitale» per dispiegarsi in modo autonomo. Toni teorizza la Moltitudine e la sua separazione dal capitale e dallo Stato proprio nel momento in cui questo processo rivoluzionario è prima bloccato e poi pesantemente sconfitto dalla contro-rivoluzione. La traduzione storica di questa potenza ontologica avviene in modo duplice: il proletariato, nonostante la sconfitta, esprime, attraverso il lavoratore cognitivo, un grado superiore di potenza, la cui forza produttiva è incomparabile a quella dell’operaio fordista; il capitale, al contrario, è identificato come un semplice «parassita», privo di qualsiasi capacità di produrre un nuovo essere poiché non ha alcuna realtà ontologica.


Ritorno alla dialettica ?


Se per me questo passaggio attraverso lo spinozismo è molto problematico, poiché il proletariato che esce dalla sconfitta degli anni Settanta si trova in una condizione di impotenza raramente riscontrata nella storia del capitalismo, penso che nell’ultima parte del suo lavoro Toni abbia tracciato un ritorno ai dualismi, alle classi e alla dialettica che è necessario continuare a interrogare e sviluppare. Lo spinozismo politico è costruito sull’opposizione uno/molteplicità, mentre la molteplicità, nel capitalismo, è sempre intrappolata nel dualismo politico, cioè nella dialettica non hegeliana di classe contro classe. È assumendo questa dialettica col nemico di classe e praticandola che il capitale e lo Stato dal ’68 non smettono di vincere.

La politica spinoziana non rimanda ai dualismi della lotta di classe, né ai due termini della relazione schmittiana amico-nemico, che fa della guerra una possibilità sempre presente del politico. Essa si propone come una critica radicale di ogni dialettica.


Toni, al crepuscolo della sua vita, constatando le difficoltà politiche della Moltitudine nell’organizzare il proprio processo costituente, cerca di definire una nuova dialettica. La Moltitudine ora non è più il tutto positivo che cresce su se stesso espellendo tutto ciò che lo contraria, ma è piuttosto «caos», molteplicità che, per costituirsi, deve passare attraverso la classe, deve cioè passare per il «due». La critica per potersi esprimere necessita di un «contesto dialettico» e di ritrovare un «realismo» politico perduto, si legge in una delle ultime interviste.

La dialettica dell’«uno si divide in due» dei rivoluzionari del XXº secolo, come la dialettica schmittiana, come la dialettica della guerra civile (Koselleck), non ha come motore la contraddizione, ma il conflitto, la guerra e la strategia delle classi in lotta. Invece di espellere la polarità negativa, bisogna riconoscere la sua realtà irriducibile, poiché ogni nuova strategia del capitale e dello Stato la dispiega ancora e sempre (si manifesta come polarità di reddito, di proprietà, ecc, ma è di potere). Allo stesso modo il progetto politico del proletariato deve passare per la volontà di distruzione del rapporto  di capitale. 


La dialettica della lotta di classe non mira alla sintesi dei contrari, alla loro riconciliazione; non è animata dalla negazione della negazione (la sintesi secondo Mao: «Le loro armate avanzavano e noi le divoravamo, le mangiavamo pezzo per pezzo»). Il proletariato ha stabilito la sua forza, non contraddicendo il capitale e lo Stato, ma volendo distruggere entrambi e con questi le classi e la loro subordinazione. La contraddizione è un concetto strutturale, la strategia è un punto di vista soggettivo.


Strategia e soggettività


La dialettica della guerra civile è oggi animata dalla strategia di Trump, che ha creato possibilità che semplicemente prima non esistevano, aprendo un periodo carico di καιρός (cairns), di opportunità da cogliere. Intervenire su questi orizzonti (il crollo possibile del capitalismo, della finanziarizzazione, della globalizzazione, ecc.) significa orientare, in base all’obiettivo ricercato, cio’ che sta accadendo, perché l’accaduto modifichi i rapporti di forza, ora in movimento continuo. Così ragionavano i rivoluzionari della prima metà del Novecento: l’esplosione delle contraddizioni capitaliste non era che la condizione necessaria ma non sufficiente dell’azione rivoluzionaria, il cui successo non era garantito da alcuna filosofia della storia, da alcun aufhebung dialettico, ma dalla strategia politico-militare e da una accanita lotta contro il nemico. 

Il capitalismo è profondamente cambiato, ma provoca ancora e sempre questa accelerazione del tempo, in cui il conflitto amico-nemico, come suggeriva Toni negli anni Settanta, «ritrova sul suo cammino chi decide della guerra».


È molto difficile definire il capitalismo semplicemente come un «modo di produzione», come ha fatto Marx, poiché economia, guerra, politica, Stato e tecnologia agiscono insieme. Non solo l’accumulazione primitiva si ripete, ma sin dall’avvento dell’imperialismo, produzione e guerra, produzione e rapina, produzione e espropriazione extra - economica coesistono, come ci ha insegnato Rosa Luxemburg : nel mercato mondiale « i metodi impiegati sono la politica coloniale, il sistema dei prestiti internazionali, la politica delle sfere d’interesse e la guerra. La violenza, l’inganno, l’oppressione, la predazione si sviluppano apertamente, senza maschera, ed è difficile riconoscere le leggi rigorose del processo economico nell’intreccio della violenza economica e della brutalità politica».


Queste parole potrebbero essere ancora utilmente usate per descrivere quello che sta accadendo dal 2008, quando il neo liberalismo ha esaurito la sua funzione di governo mondiale. L’azione di Trump ha definitivamente lasciato cadere il velo ipocrita del capitalismo del mercato e della libera concorrenza, svelandoci il segreto dell’economia reale gestita e comandata dai monopoli e dagli oligopoli: può’ funzionare solo a partire da una divisione internazionale della produzione e della riproduzione definite e imposte politicamente, cioè con l’uso della forza che implica anche la guerra. 


La volontà di sfruttamento e di dominio, gestendo contemporaneamente rapporti politici, economici e militari, costruisce  una totalità, che non può mai chiudersi su se stessa, ma resta sempre aperta, scissa da conflitti, guerre, predazioni perché la società capitalista è divisa. Non c’è esodo, non c’è diserzione, non ci sono vie di fuga, ma solo la capacità di affrontare il tragico delle relazioni di potere, di evitare la «paura del due».

«La storia è un disordine, non è un ordine. Bisogna cogliere i momenti di disordine più acuti per intervenire e per cambiare, altrimenti si sta dentro una cosa che non finisce mai, che va avanti per sempre, come è nell’intenzione di chi gestisce la presente forma sociale» (Tronti). 


L’attualità dello scontro di classe ci fa toccare con mano un’altra realtà emersa con la fine del neoliberalismo, colpevolmente confuso con l’azione del capitale e dello stato che hanno proceduto, contro la sua ideologia della libera concorrenza, a delle centralizzazione economiche e politiche senza precedenti. La molteplicità di attori che si stanno agitando dal 2008 è tenuta insieme  non dagli automatismi della finanza, del consumo e della produzione, ma da una strategia. C’è quindi un elemento soggettivo che interviene in maniera fondamentale nelle relazioni di potere. Anzi due. Dal punto di vista capitalistico è in corso una lotta feroce tra il «fattore soggettivo» Trump e il «fattore soggettivo» delle élite sconfitte nelle elezioni presidenziali, ma che hanno ancora forti presenze nei centri di potere negli Usa e in Europa. 

Ma perché il capitalismo funzioni dobbiamo prendere in considerazione anche un fattore soggettivo proletario. Gioca un ruolo decisivo perché o si farà il portatore passivo del nuovo processo di produzione / riproduzione del capitale in costruzione o tenderà a rifiutarlo e a distruggerlo. Se non riuscirà a opporre una sua strategia alle continue innovazioni strategiche del nemico che subisce dagli anni 70, capace lui, di rinnovarsi continuamente cambiando strategia, cadremo dentro una asimmetria di rapporti di potere che ci riporterà a prima della rivoluzione francese, in un nuovo / già visto <<ancien régime>>.


La guerra non è una continuazione della politica. Agisce insieme a essa. E alla produzione. Ed esprime il momento più soggettivo della lotta tra le classi.


Maurizio Lazzarato è sociologo e filosofo, vive e lavora a Parigi dove svolge attività di ricerca sulle trasformazioni del lavoro e le nuove forme di movimenti sociali. È autore di numerosi e importanti saggi sul tema della guerra. Ha pubblicato per DeriveApprodi la trilogia sulla guerra Guerra o rivoluzione (2022), Guerra e moneta (2023), Guerra civile mondiale? (2024)

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