il secondo senso
- Arianna Pasquini
- 27 mag
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 27 mag
The Masters and the chefs,
ovvero sulla cucina come totem del lavoro riproduttivo

Arianna Pasquini inizia il suo lavoro di curatrice del comparto “il secondo senso” parlando di sè. Utilizza, come delle ricette creative, le teorie di alcune delle più importanti femministe italiane e internazionali e le riporta a terra lasciandoci assaggiare uno spaccato di vita quotidiana per molto tempo dato per scontato; così come l’intera sfera della riproduzione sociale. Le donne storicamente costrette nella sfera domestica hanno affidato la loro creatività ai fornelli producendo meraviglie: ”Chissà cos’altro avrebbero potuto creare se solo avessero avuto accesso libero a tutte le sfere della società”
Nel sogno di un’era a venire nella quale uno possa andare a caccia la mattina, a pesca nel pomeriggio ed essere un critico dopo cena, non viene mai menzionato chi debba cucinare la cena [1].
Sono passati parecchi anni da quando una giovane Selma James appena ventenne, madre e operaia, scrisse A Woman’s Place (Il posto della donna) nel 1952 e sono passati tanti anni anche da quando Mariarosa Dalla Costa scrisse Potere femminile e sovversione sociale, vent’anni dopo. Questi due scritti brevi, densi e preziosi, rappresentano alcuni dei mattoni su cui è stata edificata la costellazione di pratiche e teorie femministe della cosiddetta “riproduzione sociale”.
La riproduzione, come il leggendario continente sommerso di Atlantide, descrive l’insieme di tutte quelle attività invisibilizzate e coperte che sostengono la produzione e ne permettono l’esistenza. Se la produzione è il pilastro pratico (lavoro) e simbolico (organizzazione sociale e famigliare, cultura) su cui si fondano le civiltà capitaliste moderna e contemporanea, edificate sul primato dell’accumulazione, la riproduzione è il loro presupposto taciuto ma indispensabile.
Seguendo la definizione che ne ha dato di recente Nancy Fraser (2016), questo termine descrive quindi «un insieme fondamentale di capacità sociali: quelle necessarie a generare e a crescere i figli, a prendersi cura degli amici e dei familiari, a mantenere le famiglie e le comunità più ampie e, più in generale, a sostenere i legami sociali. Questa attività che chiamerò di riproduzione sociale è stata storicamente assegnata alle donne, sebbene anche gli uomini ne abbiano sempre svolto una parte. Tale lavoro, sia affettivo sia materiale, è indispensabile alla società, pur essendo spesso eseguito senza alcuna remunerazione. In sua assenza non ci potrebbe essere alcuna cultura, economia, né organizzazione politica. Nessuna società che mettesse sistematicamente a repentaglio la riproduzione sociale potrebbe durare a lungo».
Il paradigma della riproduzione sociale è stato abbandonato, recuperato, rinnovato e aggiornato più volte nel corso delle decadi dagli anni Sessanta del Novecento a oggi. In alcuni casi le stesse protagoniste della prima stagione delle lotte internazionali per il salario al lavoro domestico, hanno aggiornato questa lente alla luce di profondi cambiamenti sociali nel ruolo della femminilità, della produttività, del lavoro casalingo e della figura della badante a partire dagli anni Ottanta, che impartiscono un nuovo ciclo del lavoro di cura e delle catene globali della cura (e del relativo sfruttamento) [2]. In altri casi la riproduzione sociale ha subìto uno slittamento linguistico andando sempre più a collimare con la sfera semantica della cura, per lo più utilizzata nella sua versione anglosassone di care, che però, nelle sue ricadute materiali, non coincide esattamente con la descrizione del lavoro riproduttivo femminilizzato e migrante né del lavoro domestico.
In altri casi ancora il pensiero riproduttivo del sociale è stato fatto proprio da autrici e attiviste come l’australiana Ariel Salleh, che oggi si muovono tra materialismo, critica femminista all’operaismo e a Marx, sociologia della conoscenza ed ecofemminismo, accostando al mondo sommerso delle attività riproduttive femminilizzate, quelle rigenerative della biosfera e della natura in senso stretto. Secondo questa visione, i corpi delle donne così come i terreni ricchi di terre rare, sarebbero a parimerito obiettivi di conquista e di estrazione di valore per sostenere l’ordine economico e l’organizzazione sociale del suo privilegio, che senza questi non può sopravvivere, accostando dunque donne e natura in modo non deterministico.
Grazie alla crescente sensibilità conquistata con le lotte transfemministe e con il contributo delle teorie queer, anche l’analisi dei soggetti delle forze della riproduzione, cioè chi svolge oggi le attività riproduttive, è andata ridefinendosi in base a una riconfigurazione generale del termine “donna” e del concetto di femminilità. Infatti oggi viene generalmente individuato un ombrello molto ampio di soggettività che non includono più solo la donna biologicamente intesa (se mai questo abbia avuto senso) ma anche domestici, badanti, baby sitter, lavoratori agricoli che spesso sono migranti, sottopagati e in nero, per svolgere attività di cura prima svolte dalle donne nell’ambito privato, le stesse donne occidentali che oggi sono entrate nel mondo del lavoro e pagano con il proprio stipendio terzi per svolgere un lavoro indispensabile ma che tende a ricascare sempre più in basso nella catena globale della cura. Infine molti teorici contemporanei dell’ecologia politica, cioè gli autori che oggi si occupano del cambiamento climatico in chiave non neoliberista e fuori dal disegno del capitalismo green, tendono a saccheggiare a man bassa le teorie della riproduzione sociale senza riconoscerne - a volte scientemente, a volte ingenuamente - la maternità, per poter spiegare perché l’uomo moderno si è dedicato alla riproduzione delle merci e di oggetti inerti e non del vivente e delle sue condizioni di prosperità, dove crisi climatica e crisi di cura sono due facce della stessa medaglia. Quindi certe intuizioni dei femminismi sopravvivono al cambiamento dei tempi, si rinnovano e non spariscono, anzi permangono, si insinuano in luoghi molto distanti dal loro punto di partenza originario e prosperano. Perché anche se la bestia contro cui si scagliavano inizialmente ha cambiato pelliccia, coda e orecchie, non si è ancora estinta.
Io faccio di lavoro la cuoca, mestiere che mi ha dato da mangiare (in tutti i sensi) negli ultimi quattordici anni. Un po’ mi è capitato di iniziarlo per caso, un po’ mi appassiona, alcune volte è estenuante e altre volte è semplicemente un lavoro come un altro. Eppure in certi casi non lo è, perché vivo in un paese come l’Italia, vestito di forti stereotipi culturali spesso co-creati con gli italiani all’estero (soprattutto con gli italoamericani); perché sono figlia di madre femminista con origini partenopee molto modeste, che non cucina quasi mai, che ha riscattato una condizione di disagio famigliare e sociale a suon di dure lotte personali e dunque politiche – inorridita all’idea che di tutti i mestieri possibili la figlia scegliesse l’attività archetipica dello sfruttamento delle donne in casa – e perché sono nipote di una donna fuori dal comune, creativa ma violenta e distruttiva – la madre di mia madre – il cui risentimento per la sua condizione femminile in un contesto bigotto della provincia di Napoli l’ha portata ad allontanarsi dall’amore per gli esseri umani per darne spesso solo in cucina. Ecco per tutti questi motivi, etici, sociali, generazionali e contestuali, cucinare non mi è mai sembrata un’attività neutra, e più diviene un feticcio in questo paese e più mi interessa indagarne la matrice per me problematica. A volte mi sembra che la cucina e tutta la galassia di chiacchiere che le gira intorno in questo paese, assolva a un ruolo totemico che maschera la narrazione di una storia di fondamentale ingiustizia.
Mentre la pratica di cucinare in ambito privato, in casa, come servizio indispensabile al nutrimento del nucleo famigliare o della comunità, è una mansione storicamente svolta quasi sempre dalle donne (madri, nonne, figlie, balie, casalinghe, e così via) fin dall’origine della divisione sessuale dei ruoli agli albori del capitalismo, altrettanto storicamente il cuoco, come mestiere moderno, come lavoro retribuito e in alcuni casi anche prestigioso e degno di fama, è quasi sempre stato una faccenda da uomini. In modo emblematico, nella società italiana, dove il cibo, il cucinare e il mangiare, svolgono notoriamente un ruolo molto più articolato e complesso del mero nutrimento, l’icona della matrona, della mamma e ancor più della nonna ai fornelli, nutre un immaginario collettivo radicatissimo, che valica i confini nazionali ed esalta quest’idolatria. Così mentre si erge a simbolo la donna in cucina, nel contempo, si riserva il lavoro privilegiato, e a volte molto ben pagato, dello chef, ancora in prevalenza agli uomini. Così come tantissime altre capacità degli uomini e delle donne, cucinare, nonostante abbia a che fare con un indispensabile bisogno umano di nutrirsi, può anche essere un’attività estremamente creativa e molto soddisfacente, tanto che alcuni la definiscono una vera e propria “arte”; il problema risiede invece nel fatto che tale attività, così come crescere un figlio o prendersi cura di un qualsiasi rapporto di amore, se inquadrata in uno schema gerarchico delle parti, che la comanda e la impone, diviene una schiavitù.
Uno dei motivi per cui si è generato questo immaginario legato all’anziana parente italiana del caso, che con i suoi manicaretti compie delle magie in cucina, che vengono addirittura portate in giro e narrate dai figli o dai nipoti come veri capolavori, è che per secoli le donne hanno avuto come esclusivo ambito di espressione lo spazio casalingo privato e in particolare la cucina, che ha costituito per loro uno dei pochissimi luoghi accessibili all’estro e alla sperimentazione, dove a volte queste donne, è vero, hanno creato dei magnifici capolavori. E chissà cos’altro avrebbero potuto creare se solo avessero avuto accesso libero a tutte le sfere della società, se non fosse esistita la divisione tra pubblico e privato, produttivo e improduttivo, femminile e maschile. In Europa, fin dalla nascita del capitalismo, le donne che invece si sono rifiutate di assolvere ai compiti prescritti dalla divisione gerarchica dei ruoli suddetta, o che hanno rivolto le loro capacità (come cucinare) a scopi considerati illeciti (medicamenti, erboristica, ecc.), sono state tacciate di stregoneria e bruciate al rogo nel fenomeno di genocidio femminile più sistematico e taciuto (se non in termini folkloristici) della storia d’Europa (Federici, 2004).
Note
[1] M. Mellor, An ecofeminist proposal, Sufficiency Provisioning and Democratic Money, «New left review», Debating Green Strategy—7, 116/117, march-june 2019, pp. 189-200, (traduzione mia dall’inglese).
[2]Un esempio di questo aggiornamento teorico si trova nel report del discorso tenuto da Mariarosa Dalla Costa, intitolato Autonomia della donna e retribuzione del lavoro di cura nelle nuove emergenze, come relazione del convegno “La autonomia posible”, Universidad autonoma de la Cìudad de Mexico, 24-25-26 ottobre 2006.
Arianna Pasquini è un’attivista romana, lavora da quattordici anni come cuoca e ha un dottorato in Studi politici conseguito presso l’Università di Roma La Sapienza nel 2023. Le sue ricerche nell’ambito della filosofia politica contemporanea sono state incentrate soprattutto sulla relazione tra femminismi storici, transfemminismi odierni e teorie sulle diverse crisi del mondo contemporaneo (di cura, ecologica, politica, di senso). Il rapporto tra teoria e prassi, tra paradigmi filosofici e pratiche militanti, è alla base della sua metodologia di inchiesta, così come l’analisi della critica immanente ai femminismi e la relazione tra donna e natura (sia questa presunta, costruita socialmente, mistica o materiale).