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il secondo senso

  • Immagine del redattore: Arianna Pasquini
    Arianna Pasquini
  • 11 nov
  • Tempo di lettura: 10 min

Aggiornamento: 13 nov

Ariel Salleh – DeColonizzare l’EcoModernismo!

Peter Ciccariello
Peter Ciccariello

Il seguente articolo è frutto di un intenso scambio di materiali, testi, idee e email tra me e Ariel Salleh negli ultimi anni e dell’immenso lavoro intellettuale e militante di quest’autrice. In particolare i temi qui trattati sono legati al suo ultimo libro, DeColonize EcoModernism! pubblicato a Londra per Bloomsbury nel 2024. Il libro rappresenta il primo volume di una trilogia intitolata The Androcene and its Others, di cui i due prossimi volumi saranno EnGender EcoSocialism e ReGround EcoFeminism.

Salleh è un attivista, studiosa e filosofa australiana attiva dagli anni Ottanta, i cui principali interessi sono i movimenti sociali globali, la critica tecnologica, l’ecofemminismo, la decolonialità e l’ecosocialismo. Le posizioni politiche e filosofiche di Salleh sono esposte principalmente in due opere, Ecofeminism as Politics: nature, Marx and the postmodern del 1997 e in EcoSufficiency and Global Justice: Women write Political Ecology del 2009, insieme a una prolifica produzione di articoli, collaborazioni e opere collettive dentro e fuori dall’ambito accademico. In Ecofeminism as politics, Salleh chiarisce il suo posizionamento come femminista e come ecologista politica spiegando il suo approccio, che essa stessa definisce di «sociologia della conoscenza», per guardare alle dinamiche dell’economia politica e della produzione scientifica considerata di «sinistra». Infatti la sua postura ecofemminista parte dai presupposti della critica interna ai movimenti sociali e della critica al marxismo e agli autori marxisti contemporanei, pur applicandone il metodo dialettico.

Di seguito troverete la trascrizione (traduzione mia dall’inglese) del testo di una lezione tenuta da Ariel Salleh il 13 ottobre scorso presso l’Instituto de Humanidades, Artes e Ciências, dell’Universidade Federal da Bahia in Brasile, dove spiega i concetti di Eco-Sufficient Ethics e Bioregional Politics.

Modi di pensare l’ecologia politica: antropocentrismo o ecocentrismo?

Ariel Salleh13 ottobre 2025


Mi sono formata come sociologa della conoscenza ma tendo a considerarmi un’attivista, avendo trascorso gran parte della mia vita nei movimenti dei lavoratori, delle donne, dei popoli indigeni e nei movimenti ecologici: dalle campagne contro l’estrazione mineraria nelle terre indigene, alla lotta delle donne per il diritto all’aborto, alla battaglia contro gli alimenti geneticamente modificati.

Ben presto, tuttavia, mi sono resa conto della necessità di un’analisi trasversale, capace di connettere le politiche settoriali - dei lavoratori, dei popoli indigeni, delle donne - e intrecciarle con l’ecologia.

In tutto il mondo, stiamo affrontando la destabilizzazione degli Stati-nazione, la ridondanza del lavoro salariato, un’epidemia globale di femminicidio, nuove tensioni postcoloniali e, non da ultimo, il collasso degli ecosistemi planetari.

Nel frattempo, le nuove tecnologie ci stanno disumanizzando, la saggezza comunitaria viene ignorata e i nostri sistemi educativi risultano sempre più alienati dalla vita. Tutto ciò costituisce una sfida per gli ecologi politici - studiosi di un campo di ricerca radicale che si muove tra la politica pubblica, la sociologia e la biofisica, in un continuo dialogo tra questi ambiti.

In questa sede, dunque, intendo mettere a confronto due approcci all’ecologia politica come disciplina emergente e trasversale: il primo fondato sulla logica dell’antropocentrismo, il secondo su una lente ecocentrica.



Antropocentrismo:


Non sorprende che ci troviamo a vivere in un’epoca denominata Antropocene, dal momento che lo stile del pensiero dominante a livello globale è stato di tipo antropocentrico per lunghi secoli.

Storicamente, la forma più profondamente radicata del cosiddetto antropocentrismo è quella della dominazione patriarcale. Quest’ultima ha alimentato le espropriazioni del mondo tribale e, in seguito, l’espansione imperiale che ha dato il via all’accumulazione capitalistica moderna tramite il colonialismo.

Il primo presupposto della cultura antropocentrica è che l’Umanità sia separata dalla Natura, la quale è vista unicamente come oggetto e risorsa dell’Uomo. Così, sin dall’ascesa delle grandi tradizioni religiose abramitiche - ebraismo, islam, cristianesimo - la regola quotidiana è stata: l’Umanità sopra la Natura, l’Uomo sopra la Donna, la Mente sopra il Corpo, il Bianco sopra il Nero.

Il Secolo dei Lumi ha rafforzato l’antropocentrismo patriarcale con la sua sistematica, e spesso statale/istituzionale, persecuzione e uccisione delle donne sapienti - erboriste e levatrici - accusate di stregoneria. La visione secolare di Francis Bacon ha sancito che la Natura non è un organismo, bensì «una macchina da perfezionare mediante la Ragione dell’Uomo».

Così, l’evoluzione della modernità si è dispiegata come una miscela di pratiche e atteggiamenti patriarcali, coloniali e infine capitalistici. La cultura dell’antropocentrismo consente al patriarcato, al colonialismo e al capitalismo di funzionare come un unico sistema globale nutrito da tutto ciò - e da tutti coloro - che esso oggettifica come “Natura”.

Tralasciando per il momento questa prospettiva ecofemminista, suggerisco agli ecologi politici di esaminare da vicino il paradigma della Earth System Governance (ESG), una rete internazionale coordinata da alcuni entusiasti accademici europei.

L’ESG rappresenta una risposta tipica del Nord globale ai problemi del XXI secolo - un approccio concepito per colmare quella che viene definita una «lacuna di ricerca e di gestione» nelle scienze sociali.

L’idea di Earth System Governance ha origine con Frank Biermann, giurista internazionale del Potsdam Institute e in seguito della Free University di Amsterdam. Nel 2009, ESG dispone di una rete accademica estesa, con centri di ricerca, pubblicazioni e conferenze, da Tokyo a Boulder e oltre.



Astrazioni riduttive:


L’approccio politico dell’Earth System Governance (ESG) è stato concepito per armonizzarsi con le ricerche del 2009 dello scienziato Johann Rockström e del suo team, dedicate alla tutela dell’integrità dei cosiddetti planetary boundaries (limiti planetari) come parametri di riferimento per i decisori politici.

Tuttavia, per gli studiosi di ecologia politica, la domanda cruciale è: in che modo l’ESG costruisce una adeguatezza concettuale tra sistemi sociali e sistemi naturali?

Come ha descritto lo stesso Biermann, la gestione dell’agenda ambientale globale comporta una proliferazione postmoderna di forme di autorità - attori pubblici e privati, nuovi legami verticali e orizzontali tra corpi amministrativi transnazionali - che disperdono la responsabilità e al tempo stesso mettono in discussione il ruolo dello Stato-nazione.

Parallelamente, la materialità della Natura biofisica viene frammentata in una molteplicità di banche dati: cambiamento climatico, perdita di biodiversità, cicli dell’azoto e del fosforo, impoverimento dell’ozono stratosferico, acidificazione degli oceani, uso delle acque dolci e delle terre, aerosol atmosferici e inquinanti chimici.

Alla ricerca di una maggiore chiarezza sistemica, il programma ESG ha sviluppato un Piano di Scienza e Attuazione organizzato in cinque categorie operative - ognuna funzionante a diversi livelli di astrazione. Le cosiddette “5-A” sono: Adaptation, Agency, Architecture, Accountability, Allocation and Access (Adattamento, Agenzia, Architettura, Responsabilità, Allocazione e Accesso).

Inoltre, data la molteplicità dei trattati ambientali oggi esistenti, l’ESG promuove il “clustering dei trattati”, ovvero il loro raggruppamento secondo criteri geografici, tipologia di problema ambientale, causa antropica, strumenti politici e necessità di sviluppo di capacità. Ogni “cluster” richiederebbe interventi amministrativi specifici.

Questo tipico stile di gestione antropocentrico, che poggia sull’ordinamento e controllo umano della Natura - vale a dire dei processi termodinamici naturali - tende tuttavia a reificare gli scambi metabolici vitali e le sinergie interspecie, riducendoli a modelli funzionali agli obiettivi istituzionali.

I decisori politici presumono che l’interazione tra sistemi sociali e sistemi naturali possa essere facilmente misurata e monitorata. Tuttavia, la fiducia nell’«informazionismo» e nella gestione dei dati è eccessivamente semplificata per poter rendere conto dei cicli biofisici, che sono invece complessi e interconnessi.

Inoltre, al di là di queste scorciatoie ecologiche, l’architettura multi-scalare della griglia delle 5-A rischia involontariamente di ridurre la materialità vissuta delle esperienze e dei bisogni di classe, etnia o genere.

Gli interessi antropocentrici, infatti, tendono a trattare uomini e donne come individui isolati o come insiemi di attributi sessuali/di genere che negoziano interessi in modo liberale, privilegiando intenzione e scelta sopra ogni altra cosa e proiettando implicitamente la vita sociale come una forma di competizione di mercato.

Espresso nel linguaggio dei vincitori globali - banchieri, CEO, operatori di hedge fund e tecnocrati professionisti - l’antropocentrismo in ecologia politica ignora gli effetti delle relazioni di potere sia nella costruzione sociale della pratica scientifica, sia nella distribuzione sociale dei suoi esiti.

Mentre l’Earth System Governance pretende di offrire spazi per l’innovazione nella risoluzione dei problemi e nella costruzione del consenso, la formalizzazione del suo discorso risulta chiaramente egemonica.



Contraddizioni:


A complicare ulteriormente le cose l’accademia, come di consueto, spesso non differisce molto dal business as usual. Così, nel 2012, un numero speciale della rivista Ecological Economics dedicato all’ESG esplorava la presunta adeguatezza tra governance e dinamiche della biosfera, utilizzando strumenti come la teoria dei regimi internazionali, gli approcci actor-network, l’economia policentrica e il pensiero della resilienza.

L’Earth System Governance è concepito come orientato al futuro, basandosi su lunghe serie di dati, modellizzazione statistica e scenari di ricerca che impiegano nuovi criteri di evidenza, validità e affidabilità ed è stato proposto che il monitoraggio scientifico dei dati digitali possa persino essere coordinato dallo spazio esterno mediante i Sistemi Informativi Geografici (GIS).

È evidente, tuttavia, che una governance ecosistemica ad alta tecnologia genera i propri impatti ambientali, poiché la sua infrastruttura informatica richiede enormi consumi energetici, estrazione di metalli pesanti, produzione di plastiche tossiche, rifiuti non biodegradabili, catene di approvvigionamento ad alta emissione di carbonio e contribuisce al riscaldamento globale attraverso la proliferazione dei Cloud Centres per l’archiviazione dei dati.

I costi estrattivisti dell’ecomodernismo digitale sono raramente contabilizzati dai decisori pubblici o privati, e non presi seriamente in considerazione nemmeno dagli aspiranti attivisti climatici radicali. Questo punto cieco rende insensate le affermazioni divenute popolari che invitano a “dematerializzare” l’uso delle risorse.

Esistono inoltre estrattivismi socialmente incarnati legati alla digitalizzazione, che devono essere riconosciuti: tra questi, lo spopolamento comunitario dovuto all’estrazione di litio, l’inquinamento chimico delle acque potabili vicino alle fabbriche e i tumori indotti dalle radiazioni elettromagnetiche nelle aree suburbane.

Le comunità decoloniali considerano pratiche energeticamente costose come l’ESG estremamente parziali in un mondo in cui solo il 10% della popolazione possiede un’auto. L’ineguale scambio materiale su cui si fondano le metodologie digitalizzate rappresenta perciò una forma moderna di imperialismo.

La scuola nordamericana del “capitale naturale”, promossa da Paul Hawken, avanza la proposta di un’ingegneria degli ecosistemi a scapito delle meno appetibili richieste precedentemente avanzate dai teorici della decrescita e dei limiti della crescita di tipo capitalistico.

Un’ecologia politica gerarchica costituisce anche la base degli approcci di “sviluppo sostenibile” legiferati a livello internazionale, come i modelli del Green New Deal e della Green Economy promossi oggi da governi e imprese.

Quindi sebbene la Rivoluzione Scientifica del XVII secolo ha inaugurato una metodologia induttiva tuttavia, la sua pertinenza si è dimostrata accurata solo quanto il quadro di riferimento del mondo che ne definisce i presupposti iniziali!

Quando la logica della fisica classica, fondamento di scienza e ingegneria contemporanee, viene applicata all’economia o alla sociologia organizzativa, il risultato non è la scienza, ma lo scientismo ideologico.


La fisica quantistica e l’ecofemminismo indiano di Vandana Shiva, ex fisica quantistica, sostengono che in nome dello sviluppo la politica internazionale basata sulla misurazione di variabili singole frattura i cicli locali tra aria, acqua, piante e suoli, distruggendo l’habitat necessario alla sopravvivenza di specie umane e non umane.

Decenni fa alcuni pensatori della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor Adorno, giudicarono il vecchio impulso europeo al dominio della Natura come “ragione strumentale”, ovvero come una forma culturale autodistruttiva.

Eppure questo antropocentrismo persiste nell’ESG quando Biermann afferma:

«La specie umana non è più un semplice spettatore che deve adattarsi all’ambiente naturale. L’umanità stessa è diventata un potente agente dell’evoluzione del sistema Terra».

Secondo il sociologo contemporaneo Tim Luke, le nozioni internazionali standard di gestione ambientale non sono altro che un inganno burocratico.


Ecocentrismo:


La negazione dell’incorporazione umana come parte integrante dell’ecosistema è alla base del pensiero patriarcale-coloniale-capitalista, compresi economia e scienza moderne, etica e diritto. Tuttavia, una nuova consapevolezza pubblica del deterioramento ambientale planetario ci invita a ripensare la Storia all’interno della Natura, per così dire.

Per gli ecologi politici, questa lente ecocentrica implica l’abbandono dei modelli top-down e il ripristino delle analisi politiche socialiste, decoloniali e femministe, utilizzando la loro materialità incarnata (embodied materialism) come quadro trasversale integrativo.

Adottare una prospettiva ecocentrica significa sfidare il presupposto originario della dominazione antropocentrica, il dualismo Umanità/Natura e i suoi corollari: Sé/Altro, Bianco/Nero, Uomo/Donna.

Empiricamente, esperienze vissute in modo differente offrono punti di osservazione complementari sulla condizione umana. E infatti Karl Marx stesso avanzava l’idea che le percezioni di ciascuna classe siano modellate dal suo campo abituale di attività. Tuttavia, se il socialismo ascolta soltanto i lavoratori della produzione meccanica, rischia di sviluppare una politica dalla sensibilità molto limitata rispetto ai ritmi organici.

Un ecosistema è un metabolismo continuo di flussi energetici, e i corpi umani ne sono parte intrinseca. Tuttavia, se la percezione umana viene separata dai processi naturali - come accaduto con l’ascesa della scienza europea e della ragione strumentale - la consapevolezza di questo scambio spontaneo tra dare e ricevere viene spezzata.

Data la struttura globale delle relazioni patriarcali-coloniali-capitaliste, sono soprattutto le donne nel Nord e Sud del mondo a gestire l’integrità riproduttiva dei cicli umanità-natura.

Gli esseri umani creano spontaneamente ordine dal caos richiamando alla mente le relazioni interne tra gli elementi. Le madri lo fanno mediando i conflitti nella vita familiare. Le contadine pacificano i sistemi biologici catalizzando gli scambi tra polli, mucche e appezzamenti di frutteti. E la logica di questa attività è materiale, non astratta; orizzontale, non gerarchica; relazionale, non lineare.

I popoli originari in Australia compiono la passeggiata stagionale attraverso il territorio del loro clan con una raccolta ponderata per garantire il rinnovamento della terra. Tre ore di lavoro al giorno bastano in questa economia nomade, e i cacciatori-raccoglitori raramente estraggono più del necessario per il mantenimento comunitario.

Coloro che lavorano con tutti i sensi sviluppano una consapevolezza cinestesica dei molteplici tempi incorporati nella materia viva che viene trattata. Imparano a praticare il «lavoro di holding», ovvero di mantenimento/cura, sincronizzando la loro azione intenzionale con i ritmi della Terra. Questo costituisce un esempio di complessità in azione.


Caratteristiche della scienza vernacolare ecocentrica:

L’impronta di consumo è ridotta, poiché le risorse locali sono utilizzate e monitorate quotidianamente con cura. La produzione a ciclo chiuso è la norma. La scala è intima, massimizzando la risposta ai trasferimenti materia-energia in natura e riducendo l’entropia.

I giudizi sono costruiti tramite tentativi ed errori, considerando la salute dell’ecosistema dalla culla alla tomba. Questo lavoro “meta-industriale” è intrinsecamente precauzionale, poiché inserito in un quadro temporale intergenerazionale. Le linee di responsabilità sono trasparenti, a differenza della maggior parte delle economie burocratizzate. Con organizzazioni sociali meno complesse rispetto ai centri urbani, la soluzione sinergica dei problemi è più agevole. In contesti agricoli e habitat selvaggi, il processo decisionale multi-criterio è semplicemente buon senso.

Tale lavoro rigenerativo concilia scale temporali tra specie e si adatta prontamente alle perturbazioni naturali. Questa razionalità economica distingue tra stock e flussi.

È un processo lavorativo valorizzante, senza divisione tra abilità mentali e manuali dei lavoratori. Il prodotto del lavoro è goduto o condiviso, mentre l’operaio industriale non ha controllo sulla propria creatività.  La soddisfazione dei bisogni è eco-sufficiente, poiché non esternalizza i costi sugli altri. Le economie locali autonome implicano sovranità alimentare, energetica e culturale.

Ho sostenuto altrove che dietro le crisi sociali ed ecologiche del capitalismo globale sta emergendo un nuovo agente della storia, composto da donne caregiver e domestiche, contadine, cacciatori-raccoglitori e indigeni. Eppure, finora, lo status socio-economico di questa classe meta-industriale trans-culturale rimane non riconosciuto, non nominato, non valorizzato.

Questa classe lavorativa ha però un grande potenziale strategico: il suo ritiro dal supporto all’infrastruttura estrattiva della produzione globale può paralizzare il capitalismo, mentre la sua indipendenza dal consumo salariato e la capacità di approvvigionamento diretto possono sostenere il rinnovamento radicale di una democrazia della Terra.

Le virtù dell’ecosufficienza sono state a lungo argomentate in America latina da pensatori decoloniali come Ivan Illich e Gustavo Esteva, in Europa da ecofemministe materialiste come Veronika Bennholdt Thomsen e Maria Mies, in India da Vandana Shiva, e in Australia dalla sottoscritta.


Questa ondata di resistenza politica internazionale cresce, come dimostrano le iniziative per una “biociviltà” nella Via Campesina in Indonesia, nei Landless Peoples in Brasile, tra gli Zapatisti in Messico e ora in una rete internazionale di base emergente, il Global Tapestry of Alternatives.

Da un punto di vista ecocentrico «una vera economia» sarebbe simultaneamente già «un’ecologia».

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