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il secondo senso

  • Immagine del redattore: Arianna Pasquini
    Arianna Pasquini
  • 1 giorno fa
  • Tempo di lettura: 5 min

Cosa stiamo facendo in questo comparto

Ariel Gangi
Ariel Gangi

Curare un comparto come questo non significa, nelle nostre intenzioni, parlare di cose di donne o di soggettività femminilizzate o di «genere» (il miglior falso amico del femminismo!), bensì parlare in piena libertà e far parlare più voci sui temi più disparati, che però sono accomunati dagli occhiali dalla critica femminista per guardare al mondo contemporaneo.

Perché questo comparto ospita un articolo sul mestiere del cuoco e il lavoro casalingo, uno sulla migrazione italiana in America e uno sulla nostalgia come sentimento conservatore? Come c’entrano tutte queste cose con, ad esempio, l’ecofemminismo o il lavoro riproduttivo?

Sul nascere della rivista abbiamo scelto di dedicare una sezione specifica ai femminismi (al plurale!) contemporanei perché spesso incorporano punti di vista inusuali da cui guardare ai fatti di cronaca, ai fenomeni sociali e alle relazioni che si creano all’interno di questi. Sia che si tratti di microscopiche tecniche narrative (partire da sé, dall’esperienza incarnata di chi parla), sia che si tratti dell’analisi di macro tendenze politiche, come i nuovi fascismi o la crisi ecologica, il femminismo (qui al singolare perché inteso come «termine ombrello» o come strumento) si sforza di dare voce all’indicibile. Ovvero indaga il posizionamento di chi parla, chi è e da dove emerge la necessità storica di parlare di certi argomenti. In parole povere, tornando sul livello micro, il fatto che io sia una donna bianca nata in Occidente con origini partenopee e che faccia la cuoca ecc. «fa» qualcosa.


Questo qualcosa significa che ciò di cui mi interessa parlare dipende dalla mia storia e dalle relazioni con altre storie e con la storia del mondo che attraverso. Così ad esempio Silvia Federici, quando parla di Karl Marx, dice che non le importa quale sia il coronamento dell’analisi linguistica più corretta dei Grundrisse e della migliore interpretazione del «frammento delle macchine» ma piuttosto il fatto che Rosa Luxemburg e il movimento spartachista fossero contro l’aborto perché nella loro interpretazione dei testi di Marx l’interruzione di gravidanza era letta come una pratica borghese, creando grandissima confusione per i movimenti femministi tedeschi dei decenni successivi. Che l’analisi della Luxemburg dell’opera marxiana fosse scorretta non importa, poiché conta il fatto che quell’interpretazione, giusta o sbagliata che fosse, ha avuto degli effetti materiali sulle generazioni di donne e di militanti a venire in quel pezzo di Europa.


Dall’altro lato c’è una faccenda molto importante messa in luce da alcuni femminismi oggi, anche molto diversi tra loro, che riguarda la storia dei concetti e la genealogia delle parole usate sia analiticamente che politicamente. Ma intanto basti dire che per molte pensatrici oggi, a diverse latitudini (da Veronica Gago a Federica Giardini a Donna Haraway a Bell Hooks a Vandana Shiva fino ad Ariel Salleh, il cui pensiero sarà protagonista del prossimo testo di questo comparto insieme alla sua intervista), nella loro pratica filosofica/militante non risulta tanto importante delineare un neologismo o la descrizione di un concetto, come potrebbe essere quello di cambiamento climatico o di «fascismo dell’apocalisse». Perché secondo queste autrici e attiviste i concetti vengono meglio spiegati dal loro conflitto con altri concetti, le idee emergono dal loro scontro con chi le insidia. Per cui per parlare di ecologia politica oggi risulterebbe più utile partire dai suoi falsi amici: ambiente, natura, clima. Oppure per parlare dello stigma che pende sull’essere femminista in Italia sarebbe forse più utile parlare del berlusconismo televisivo, della crisi interna ai movimenti postavanguardisti, dello sciopero silenzioso della maternità in Italia o della cultura dello stupro istituzionalizzata e secolarizzata. Così come non conterà, come suggeriscono certi pensatori ebrei socialisti professori di Cambridge, che il sionismo storico non è quello utilizzato da Netanyahu, che ne fa un’interpretazione tendenziosa, perversa e scorretta.


Ma invece conterà il fatto che a prescindere dall’uso corretto o scorretto del termine sionismo rispetto alle intenzioni originarie del popolo ebraico della diaspora, oggi nella realtà materiale del genocidio, fuori dal delirio simbolico, sotto e per conto di questa parola stanno morendo decine di migliaia di persone. 

Tutto questo per dire che curare un comparto come questo non significa, nelle nostre intenzioni, parlare di cose di donne o di soggettività femminilizzate o di «genere» (il miglior falso amico del femminismo!), bensì parlare in piena libertà e far parlare più voci sui temi più disparati, che però sono accomunati dagli occhiali dalla critica femminista per guardare al mondo contemporaneo.

Infine torniamo all’inizio, ovvero al nome di questo comparto: «Il secondo senso». Quando Simone de Beauvoir scrisse «Il secondo sesso» (Le Deuxième Sexe, Parigi, 1949), ci ha fatto un grande regalo ma ci ha dato anche un enorme accollo. Perché come Il Corano, La Bibbia, Il Capitale, La Divina commedia, Così parlò Zarathustra, ecc. è uno di quei libri che è stato sottoposto a talmente tante interpretazioni diverse che oggi potremmo dire che molti pensieri femministi odierni, da quello liberale bianco, borghese e conservatore di alcuni ambienti neoliberisti occidentali a quello rurale radicale in India a quello decoloniale e cosmogonico dei popoli originari dell’America latina, subiscono l’influenza, anche molto indirettamente, di interpretazioni che sono contro o a favore delle tesi più controverse di questo libro, dalla seconda metà del Novecento a oggi. Come la tesi che (presumibilmente?) sancisce che «donna non si nasce, si diventa», suggerendo forse che la donna è una costruzione sociale, un’idea situata storicamente e non un animale biologicamente diverso dagli altri della sua specie (si pensi all’interpretazione che oggi Donna Haraway fa della natura, quando dice che «Né madre né curatrice, né schiava né matrice, la natura non è risorsa o mezzo per la riproduzione dell’uomo. La natura è, strettamente, un luogo comune»).


Qui però il «senso» – e non il sesso – è descritto come «secondo» non per suggerirne una subalternità gerarchica ma per sottolineare il mondo dell’invisibile, del sommerso, della complessità e della profondità di senso, descritto dalla problematica sfera della femminilità (che sia essa subita o esercitata strategicamente, da persone che non sono donne/femmine in senso biologico ma che sono considerate tali secondo lo stigma storico che ciò comporta). Dunque nel senso di ciò che segue (secundus) oltre al senso dominante ma anche in conformità a ciò che penso (secondo me, secondo te).


Quindi, senza tirarla troppo per le lunghe, chiunque scriva o voglia scrivere qui condividerà un metodo e un posizionamento verso l’osservazione degli scenari contemporanei, tale per cui non conteranno le verità, semmai questo abbia avuto senso nella storia, non conteranno i simboli e i loro significati assoluti ma le storie e le relazioni (non solo umane o umanoidi) che stanno dietro alle parole, alle immagini, agli incontri, agli scontri e all’andare del mondo.


Arianna Pasquini è un’attivista romana, lavora da quattordici anni come cuoca e ha un dottorato in Studi politici conseguito presso l’Università di Roma La Sapienza nel 2023. Le sue ricerche nell’ambito della filosofia politica contemporanea sono state incentrate soprattutto sulla relazione tra femminismi storici, transfemminismi odierni e teorie sulle diverse crisi del mondo contemporaneo (di cura, ecologica, politica, di senso). Il rapporto tra teoria e prassi, tra paradigmi filosofici e pratiche militanti, è alla base della sua metodologia di inchiesta, così come l’analisi della critica immanente ai femminismi e la relazione tra donna e natura (sia questa presunta, costruita socialmente, mistica o materiale).


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