il secondo senso
- Arianna Pasquini
- 25 giu
- Tempo di lettura: 5 min
Ritorno al presente. Nostalgia is killing the future

Nel racconto di una passeggiata solitaria a New York, l’autrice riflette su un poster che recita «Nostalgia is killing the future», innescando una profonda analisi sulla nostalgia culturale, in particolare quella delle comunità italoamericane e più in generale dell’Occidente. Attraverso riferimenti a Mark Fisher, esplora il legame tra la retromania culturale, la crisi dell’immaginazione del futuro e le derive conservatrici e autoritarie contemporanee. Il testo denuncia una tendenza regressiva che, nella paura del futuro, idealizza il passato e legittima guerre e nazionalismi sotto forma di un millenarismo apocalittico.
Nel mezzo di settembre di due anni fa mi trovo a camminare sola per New York. Come spesso accade mi perdo, perdo le ore, ma soprattutto mi perdo nella geografia reticolata – per me incomprensibile in quanto severamente geometrica – di Manhattan. Torno violentemente catapultata nel presente quando il mio sguardo incrocia lui:

Scatto velocemente questa foto con il cellulare per cristallizzare l’immagine, poi contestualizzo lo spazio-tempo precedentemente perduto: è un poster attaccato su un muro dell’ormai «ex» Little Italy di New York (da tempo ingoiata da China Town), che mi turba e mi affascina, e continua a farlo, sia per l’immagine – ambientata probabilmente durante il Thanksgiving supper (la cena del ringraziamento) – sia per la frase emblematica che riporta: «Nostalgia is killing the future».
Quindi innanzitutto mi rendo conto che sulle mappe del mio telefono il muro che sto osservando è segnato come parte di Little Italy ma intorno a me è tutto palesemente scritto in cinese. Scoprirò solo in seguito che le comunità italoamericane di New York si trovano oggi soprattutto nel West Bronx, a sud di Brooklyn vicino Coney Island, nel Queens e a Staten Island.
Sulla relazione tra la nostalgia degli italoamericani per un passato mal vissuto in patria e un futuro per i figli cresciuti nel nuovo continente come veri americani, tornerò nel prossimo articolo, che ho pensato come la seconda puntata di questo. Ma per ora basti dire che dopo anni di lavoro come cuoca per turisti e di ricerca personale con diverse generazioni di famiglie italiane emigrate all’estero a partire dagli anni Cinquanta, soprattutto italoamericani, mi sento di affermare che oggi esiste una forte connessione tra il pensiero conservatore della «tradizione» degli italiani all’estero e le derive nazionalistiche e revansciste degli italiani dentro l’Italia.
Tornando però al poster, l’immagine, come detto, mi ha subito evocato il pasto del giorno del Ringraziamento tanto caro agli statunitensi, soprattutto a quelli bianchi, che lo celebrano dall’Ottocento per esaltare la storia dei primi pellegrini (pilgrim fathers) che si insediarono nell’East Coast in uno dei capitoli della storia moderna americana attualmente più controversi e contestati, soprattutto dalla popolazione afro e latino discendente.
Ritratti qui nell’atto di sporzionare un lucente tacchino, i membri di questa famiglia come da tradizione per questa festività, si accalcano intorno a un padre ben vestito a capo tavola che onorerà il primo taglio del tacchino da bravo capo famiglia e una madre in grembiule da cucina che serve le portate. Questa iconografia risulterebbe piuttosto vintage, da pubblicità americana degli anni Sessanta, se non fosse che, a oggi, molti americani cosiddetti wasp (White Anglo-Saxon Protestant) ancora celebrano tale festività nazionale con la stessa estetica e gli stessi usi dell’Ottocento.
Ma ancora più intrigante risulta questa faccenda della «nostalgia che sta uccidendo il futuro» nella frase riportata sotto la tavola imbandita.
In un libro molto dark e molto bello scritto nel 2009, Mark Fisher (alias K-punk) parlando delle espressioni contemporanee della cultura pop angloamericana, approfondisce una tendenza – già individuata da Reynolds in ambito musicale – alla Retromania, ovvero ad abbandonare le tensioni underground avanguardiste, come era potuto essere per la cultura e le musicalità elettroniche dei rave negli anni Novanta – abbondantemente vissuti da Fisher nella sua adolescenza inglese – per favorire il ritorno di sonorità pop di decadi passate (il cosiddetto revival), come nel fenomeno della moda della musica trash ancora in voga oggi qui in Italia, che funzionerebbero, secondo lui, come una sorta di copertina di Linus per l’ansia di un futuro precario. Fisher nella sua hauntologia, cioè nella sua ricerca dei fantasmi che infestano la cultura postmoderna, attribuisce a un piano politico le cause di questo maniacale rivolgersi al passato, e in particolare all’oracolare monito thatcheriano del «there is no alternative» pronunciato dalla prima ministra inglese al volgere del secolo per sancire che non vi è alternativa possibile al neoliberismo. Margaret Thatcher sintetizza così una tendenza imperante nel pensiero delle destre e nella fifoneria delle sinistre occidentali ancora oggi, ovvero che la spinta ai futuri possibili garantita dalla sperimentazione e dalla fantasia senza briglie, così come avveniva per i movimenti della cultura rave in Europa, restando sull’esempio di Fisher, deve, per necessità di ordine e controllo, infrangersi sulla monolitica e prudente garanzia della conservazione dello status quo in tempi di incertezza economica e politica.
Questa nostalgia per il futuro che non c’è più, la malinconia per tempi in cui si poteva proiettarsi in là con le proprie aspettative di vita ma anche con i movimenti culturali di massa «mentre oggi non si può!» che invita a ritirarsi in passati presunti migliori senza mai scagliarsi nell’angoscioso e temutissimo ignoto del futuribile, funziona da ossatura massiccia per il pensiero conservatore, oscurantista e guerrafondaio occidentale del presente. I corollari di questa postura culturale sono, a livello molto più materiale, il bisogno indotto e auto-indotto di sicurezza, di perimetri chiari, di spazio privato, di riconoscimento sanguigno, di razza e dinastia, ma, soprattutto, il rivolgersi alla guerra come strumento risolutore che ristabilirà un equilibrio nuovo ma su basi evangeliche e con in mente scenari biblici post-apocalittici, che non sono altro che nomi diversi per la nostalgia del futuro.
Di recente Naomi Klein e Astra Taylor hanno parlato di «fascisti dell’apocalisse» (Musk, Netanyahu, Trump, ecc.) o «fascisti millenaristi», per descrivere coloro che come nell’interpretazione cristiana fondamentalista del rapimento biblico vogliono ascendere alla città dorata del cielo mentre i dannati rimangono ad affrontare una battaglia apocalittica sulla terra. Molti politici e imprenditori vicini a Trump che le autrici definiscono «sionisti cristiani», plaudono in questa chiave all’operato di Israele e al genocidio di Gaza, non negandolo bensì accogliendolo esplicitamente come segno positivo di un avvenire prossimo, con la guerra «finale» in terra santa, dell’accesso a pochi eletti alla città dorata che meritano per divino disegno (leggiprivilegio).
In un momento di crisi profonde su scala globale (ecologica, bellica, psicologica, umana, economica, di cura, sanitaria, scegliete voi quale estrarre dal mucchio), mi chiedo, da dove origina e su cosa fa presa l’irrefrenabile attrattiva per la nostalgia del futuro? Ciò che è certo è che bisogna ricreare delle condizioni per un presente molto meno crudele e securitario che permetta di ricostruire l’abitudine a pensare un futuro degno di essere definito tale, e non un mezzo futuro-passato, liberandosi dalle paure ancestrali che oggi vediamo sedimentarsi attraverso l’inevitabilità biblica delle guerre del fascismo millenarista.
Arianna Pasquini è un’attivista romana, lavora da quattordici anni come cuoca e ha un dottorato in Studi politici conseguito presso l’Università di Roma La Sapienza nel 2023. Le sue ricerche nell’ambito della filosofia politica contemporanea sono state incentrate soprattutto sulla relazione tra femminismi storici, transfemminismi odierni e teorie sulle diverse crisi del mondo contemporaneo (di cura, ecologica, politica, di senso). Il rapporto tra teoria e prassi, tra paradigmi filosofici e pratiche militanti, è alla base della sua metodologia di inchiesta, così come l’analisi della critica immanente ai femminismi e la relazione tra donna e natura (sia questa presunta, costruita socialmente, mistica o materiale).