konnektor
- Romeo Orlandi
- 10 set
- Tempo di lettura: 7 min
The other side of the moon # 2. Vietnam: la riflessione precisa il ricordo

In occasione del cinquantenario della fine della guerra in Vietnam con la caduta di Saigon, Romeo Orlandi ripercorre le tappe fondamentali di quegli accadimenti e le conseguenze che ne derivarono negli anni successivi. A questo testo ne seguiranno altri sui medesimi argomenti.
Il 30 aprile di 50 anni fa cadeva Saigon, sotto l’avanzata congiunta del Vietnam del Nord e dei Vietcong. L’esercito regolare di Hanoi e la guerriglia organizzata del Fronte di Liberazione Nazionale del Vietnam del Sud, tra loro alleati, mettono in fuga definitivamente il regime fantoccio di Van Thieu. Il dittatore di Saigon da pochi giorni si era rifugiato con le tasche gonfie a Taiwan. L’offensiva comunista era stata martellante, vittoriosa, inesorabile. Dopo Quang Tri, Hue, Danang, il Vietnam meridionale si apriva indifeso, tra cittadini che scappavano, soldati che disertavano, consiglieri americani che fuggivano in elicottero. Washington aveva rimpatriato le sue truppe due anni prima, dopo gli accordi di pace dell’Avenue Kléber. Aveva dichiarato vittoria e lasciato i suoi alleati senza protezione, ma con tanti soldi e tante armi. A Parigi, i negoziati avevano seguito due piste. La più formale assumeva la forma di una tavola rotonda. I fotografi scattavano immagini di colloqui con quattro parti di uguale peso e dignità. Il Sud Vietnam e l’FLN non potevano apparire comprimari, pedine di una scacchiera più grande di loro. I negoziati più significativi si svolgevano tuttavia in segreto, tra Washinton e Hanoi, tra Kissinger e Le Duc Tho. Solo loro due ricevettero il Nobel per la Pace. Il Capo delegazione Nord Vietnamita si rifiutò di andare a ritirarlo, così non dovette stringere la mano al Segretario di Stato ancora una volta.
Dopo il ritiro di Washington nella primavera del 1973, le armi vengono subito riprese. La pace era servita agli americani per andarsene, per «vietnamizzare» la vicenda. Il Nord e il FNL, meglio organizzati e motivati, accelerano la caduta del Sud, guidato da un governo corrotto, incompetente e imbelle. Quando il tank di Hanoi svelle il cancello del Palazzo Presidenziale a Saigon, i quattro carristi escono all’aperto e uno di loro corre per piantare in alto la bandiera del FNL. È quella con la stella gialla su due metà blu e rossa. Rappresenta la resistenza ai bombardamenti, le zone rosse nei villaggi, le scuole ai contadini, la guerriglia urbana, l’orgoglio patriottico, la sopravvivenza alle torture. È la «terza forza». Dominata dai comunisti, guidata dal Nord, raggruppa intellettuali delle città, nazionalisti anticoloniali, addirittura figure del clero buddista. Gli ultimi generali sud-vietnamiti – divenuti da pochi giorni Presidenti e ministri – si arrendono. Dicono che sono pronti a cedere il potere. Gli rispondono che non possono cedere quello che non hanno più. Dopo 30 anni la guerra in Vietnam finisce. La riunificazione del paese che si annunciava – Saigon diventava Hochimincity – era costata inerarrabili sofferenze e un immane tributo di vite umane. Per difetto, i morti vietnamiti si calcolano in due milioni. La pace era pronta, l’imperialismo sconfitto; l’effetto e la causa. Si poteva voltare pagina. Niente più B52, Agente Arancio, Napalm e villaggi sterminati. Nella gioia del momento il dolore sembrava appartenere al passato. Pochi si domandavano chi avesse vinto veramente a Saigon; quasi nessuno prevedeva che altri problemi fossero appena iniziati.
Tredici giorni prima – il 17 aprile – i Khmer Rouge entravano a Phnom Penh. La capitale della Cambogia era caduta. Nessuno più proteggeva Lon Nol. Dopo averlo incoraggiato nel colpo di stato del 1970, gli Stati Uniti lo avevano abbandonato. Il dittatore scappava verso l’Indonesia, le Hawaii, la California. Non gli erano serviti gli oroscopi degli indovini, le adulazioni dei cortigiani, la ferocia anticomunista. I suoi nemici – le truppe irregolari di Pol Pot – anticipano i compagni vietnamiti; liberano la capitale e promettono ugualmente riso e pace. Sono giovani, senza divisa, con i sandali ricavati dagli pneumatici, male armati, con scarso supporto esterno. Solo la Cina di Mao li finanzia e li arma. La Cambogia è un piccolo paese, sembra una propaggine del Vietnam. Pochi mesi prima i comunisti avevano conquistato il Laos. Le ex colonie francesi erano finalmente indipendenti. L’imperialismo sconfitto sul campo; i popoli d’Indocina padroni del loro destino. Tutti dicevano così, dai comunisti ai socialisti, dalla «New Left» ai liberal americani.
Il primo allarme viene dal Vietnam, dove l’emozione e la gioia durano poco. La pacificazione, la riunificazione di due metà ancora eterogenee si rivelano difficili. Il sud mercantile, sorretto dai dollari, dimentico del rigore confuciano, invaso da un incosciente consumismo, non accetta i limiti imposti dal Nord. Rifiuta, perché non li conosce: i razionamenti, le tessere alimentari, il rigore e la disciplina. Bisogna dunque imporglieli, e gli ufficiali del Nord sono pronti a farlo. Prima con gli interrogatori, poi con le detenzioni e i campi di lavoro. Vi finiscono non solo i collaborazionisti, i torturatori, i traditori. Anche gli ex Vietcong, i militanti del FNL, vengono colpiti. Bisogna garantire l’ordine, vanno evitate le vendette personali, affermano i nuovi governanti. Non è più tempo di guerriglia, ma di stabilità. Non si tratta di conquistare un paese ma di ricostruirlo. Può farlo solo una classe dirigente coesa, disciplinata, abituata al comando, senza indugi nell’attuare soluzioni radicali come le confische delle terre, le nazionalizzazioni, l’impostazione dunque di un collettivismo radicale. Il FNL deve dimenticare – gli viene ricordato senza possibilità di mediazione – le ambizioni plurali, l’inclusione di ceti sociali diversi, la tolleranza religiosa. Paradossalmente, la pace viene affidata a una classe dirigente che ha conosciuto – seppur eroicamente – soltanto le armi, le privazioni e la resistenza. Un paese devastato dal conflitto annaspa nel dopoguerra. Non riesce a uscire dalla spirale di povertà e illibertà. La riunificazione assume oggettivamente la forma di una conquista del Sud da parte del Nord. Almeno fino al 1986 – con l’adozione del Doi moi, una politica economica che ribalta la precedente impostazione, dando fiato all’iniziativa individuale pur mantenendo un sistema a partito unico – il Vietnam vive di stenti e dissipa la simpatia internazionale che aveva conquistato. Sembra veramente che abbia vinto la guerra e perso la pace.
I motivi sono molti, la realtà è complessa. Probabilmente la ragione principale di questa scelta – autonoma ma sostanzialmente obbligata – è stata l’alleanza con la potenza che si avviava a perdere la Guerra Fredda. L’allineamento con l’Unione Sovietica – così forte da diventare automatico – è apparso una riconoscenza per l’aiuto prestato, una traiettoria ineludibile verso il campo socialista, una presa di distanza dall’ingombrante vicino cinese, un ricordo neanche lontano per la formazione ideologica stalinista dei dirigenti. Tuttavia l’Urss non aveva risorse da condividere, modelli vittoriosi cui rifarsi, internazionalismo proletario dove attingere gli ideali. In cambio di fedeltà poteva offrire soltanto la sopravvivenza: armi, grano, energia. Un anno dopo la caduta di Saigon, muore il Presidente Mao, i suoi discepoli vengono arrestati, la Cina inizia ad abbracciare logiche capitaliste. Il campo socialista si sgretola, i Vietcong vengono ridimensionati. Il tragitto del Vietnam sembra avviato all’involuzione, alla perdita di speranza.
Un’altra disillusione avviene alla fine del decennio. Gli scontri di frontiera tra Cambogia e Vietnam si trasformano in guerra aperta. Pol Pot non rinnega l’amicizia con la Cina, ricorda il terzomondismo contadino, tenta di affermare una società rurale innervata da un comunismo primitivo. Non ci sono spazi per esitazioni: Cambogia Anno Zero. La spietatezza degli eccidi, le Urla del Silenzio, la ferocia implacabile verso i nemici sono ricordi indelebili. Il fanatismo della Rivoluzione culturale, alla quale i Khmer Rossi si ispirano, sbiadisce di fronte all’incisività del loro esperimento. Nel novembre 1978 il Vietnam invade la Cambogia, la sconfigge presto, costringe Pol Pot nella giungla, conquista Phnom Penh e vi instaura un governo amico. Due alleati fino a pochi anni prima nella lotta contro lo stesso aggressore, pur allo stremo delle forze, si combattono tra loro. Come è possibile? Il Vietnam attacca per mettere fine alla carneficina in Cambogia, per riaffermare la sua potenza regionale, per non avere nemici alle frontiere. Tuttavia, ugualmente importante è la procura data da Pechino (e incredibilmente dai governi occidentali in funzione antisovietica) a Phnom Penh per resistere e da Mosca ad Hanoi per eliminare un nemico pericoloso e incontrollabile. In aggiunta, Pechino invade il Vietnam nel febbraio 1979, «per impartirle una lezione». I suoi soldati s ritirano in poche settimane e, come gli americani, dopo aver dichiarato che gli obiettivi erano stati raggiunti. Vietnam, Cambogia e Cina, tre stati comunisti, che dovrebbero trovare un nemico comune nel campo avverso, si sparano addosso. Lo sconcerto nell’opinione pubblica è palpabile, quello tra i militanti drammatico.
Sembra evidente che le categorie analitiche classiche siano inadeguate a comprendere le dinamiche asiatiche e del sottosviluppo. Le società orientali appaiono di difficile comprensione. Il realismo politico – costantemente in agguato – emerge e sconfigge le posizioni ideali. La critica dell’economia politica è insufficiente, dovrebbe sconfinare in ambiti inconsueti, propri della sociologia, dell’antropologia, della psicologia. È un terreno minato per capisaldi consolidati. Ma è un esercizio valido per non rimanere colti tra la sorpresa e la sterilità del dibattito. In Asia orientale i rapporti di produzione sono stati differenti e la sovrastruttura svolge un ruolo centrale, come un titanico mantello adagiato sulle società. Nessun luogo al mondo è così diversificato come il sud-est asiatico, la regione di Vietnam e Cambogia. Vi si trovano una pluralità di sistemi politici, forme di governo, lingue parlate, religioni professate, costumi tramandati. Le rivalità – o le contraddizioni – non esistono soltanto tra produttori e imprenditori, ma investono le etnie e le forme della società civile. Sarebbe meglio aggiungere strumenti di analisi a quelli tradizionali, non per smentirli, ma per non lasciarli soli, sostanzialmente impotenti a capire eventi epocali che rimangono incomprensibili solo perché diversi.
Romeo Orlandi è Presidente del think tank Osservatorio Asia, Vice Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN, economista e sinologo. Ha insegnato Globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi Master post universitari.