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  • Immagine del redattore: Corey Robin
    Corey Robin
  • 4 lug
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 5 lug

Notifiche a Trump dalla destra conservatrice

Brigitte Tye
Brigitte Tye

L’articolo analizza l’uso politico dei dazi da parte di Donald Trump, inserendolo in una più ampia genealogia del protezionismo nella storia americana. Lungi dall’essere una misura puramente economica, la tariffa doganale assume nei secoli una funzione identitaria e simbolica, strumento di coesione o frattura all'interno delle coalizioni politiche. Con Trump, il dazio diventa gesto sovrano, slegato da ogni coerenza strategica, ma carico di significato politico: è espressione di una volontà di rottura con l’ordine internazionale basato sulle regole. Tuttavia, la sua applicazione solleva tensioni non solo con le élite economiche, ma anche all’interno della destra conservatrice, dove settori legati al diritto e al capitalismo giudiziario – sostenuti da figure come Charles Koch e Leonard Leo – si mobilitano per limitarne i poteri. La questione tariffaria si rivela così sintomo di una più profonda crisi di rappresentanza e di equilibrio tra i poteri dello Stato, segnando il ritorno del protezionismo come campo di battaglia politica e ideologica nell’America contemporanea. Questo articolo è comparso su <<Sidecar>> il blog di <<New Left Review>>.


«Tariffa – ha detto Donald Trump – è la parola più bella del dizionario». Chissà se ne sarebbe ancora convinto una volta conosciutane l’origine. Dall'arabo. Ta'rīf è una notifica; 'arrafa significa rendere noto. 


Nonostante le numerose sortite, Trump non ha realmente reso noto il motivo per cui stia imponendo le tariffe o perché le abbia tanto velocemente sospese. 

I trumpologi credono di avere una risposta. Il Presidente odia l'ordine internazionale basato sulle regole. Ama la “virilità” dell'industria manifatturiera. Spera di scambiare l'accesso ai mercati americani con la svalutazione del dollaro. Ha bisogno di entrate per pagare i tagli fiscali. Vuole accordi migliori e deficit commerciali più bassi. La crudeltà è il pivot. Con Trump tutto è possibile, quindi tutto è plausibile. Quello che è innegabile è che abbia toccato una vena – a lungo ritenuta sepolta – che può ancora tracimare con una forza senza pari.


I dazi occupano un posto sproporzionato nell'immaginario a stelle e strisce. La prima proposta accolta dal neonato Congresso fu un dazio. Il Sud schiavista meditò per la prima volta la secessione, nel 1832, a causa di un dazio. Dopo la guerra civile, i repubblicani dichiararono la politica dei tributi “la pietra angolare” della crociata contro i democratici. Nel 1896, William McKinley si candidò con lo slogan “protezione e prosperità”. Nel 1930, Herbert Hoover distrusse ogni chance di rielezione per amore delle tariffe doganali. Teddy Roosevelt colse la folle deriva del paese quando dichiarò – in merito ai dazi –  «non sto rispondendo a un'esigenza materiale, ma a un atteggiamento mentale», surrogato dell’altrui veleno. 


Dipendenti fatalmente dall'esportazione di prodotti agricoli verso un mercato globale, gli schiavisti del Sud vedevano in tali misure una “guerra di sterminio” alla proprietà ed al proprio stile di vita. Durante la Golden Age – ha scritto il politologo Richard Bensel –  i dazi erano uno strumento di coesione politica per i repubblicani che non una strategia di sviluppo industriale. Le élite repubblicane erano economicamente impegnate a favore del gold standard e di un mercato interno non regolamentato. Entrambe le misure ridistribuivano la ricchezza verso l'alto, sia socialmente che geograficamente. E nessuna era popolare tra i legislatori che dovevano conquistare voti al di fuori dei centri urbani del Nord-est e dei poli manifatturieri dell'alto Midwest. I gravami, in special modo sullo zucchero ed i capi ovini, garantirono ai repubblicani quei voti: i produttori dell'ovest apprezzavano le tariffe sulla lana; i veterani dell'Unione – che vivevano per lo più nelle zone rurali – si beavano delle pensioni della guerra civile finanziate dalle tariffe sullo zucchero.


Prima del New Deal, la politica doganale articolava il conflitto tra i due partiti. Poi scomparvero. Dopo aver perso ripetutamente contro Roosevelt, i repubblicani persero la febbre tariffaria. Ogni presidente – democratico o repubblicano che fosse – era fautore del libero scambio. Sebbene il protezionismo potesse suscitare occasionali lamentele da parte di qualche Congressman, la questione dei dazi era diventata, secondo le parole del politologo David Mayhew, «l’arto contorto di un rettile smembrato». E così rimase, anche quando i sindacati americani – colpiti dalle importazioni – si rivoltarono contro il libero scambio negli anni '70, portando con sé gli alleati eletti nel Partito Democratico. La base invertì la propria posizione sul protezionismo: i democratici a favore, i repubblicani contrari. Accadeva che si riaprisse il confronto al riguardo, come fecero i democratici al congresso sul NAFTA all'inizio degli anni '90. Complice tuttavia la Guerra Fredda – e la posizione egemone degli Stati Uniti a garante della stabilità monetaria a spese della Gran Bretagna – le élite dei partiti e i presidenti rimasero fedeli al libero scambio. Fino ad oggi.

I trumpologi paragonano il Presidente a McKinley. Mentre McKinley però utilizzava i dazi come strumento di coesione sociale, Trump – e i mercati che sta sconvolgendo – minaccia di creare una frattura nella propria coalizione, separando i sostenitori del Make America Great Again – MAGA – dagli elettori afroamericani indecisi e le élite del Partito Repubblicano che lo hanno sostenuto per il secondo mandato. Wall Street ed i CEO non gradiscono i dazi. E nemmeno Walmart o Elon Musk. I politici Con – tra cui il senatore del Texas Ted Cruz – hanno iniziato a criticarle. Sette senatori repubblicani stanno sponsorizzando un dispositivo normativo per limitare il potere presidenziale di imporre dazi. Potrebbero unirsi alla causa fino a una dozzina di repubblicani alla Camera.


Negli USA, ha osservato con rammarico il politologo Louis Hartz, la legge prospera “sui cadaveri” dell'immaginazione politica. Ogni antagonismo sociale viene alimentato dalle fauci della Costituzione o dei tribunali. Ogni testo di legge e ogni tribunale contiene una scintilla di attrito sociale, pronta a incendiare il campo politico. Il trucco sta nel trovarla.


Il giorno dopo il “Liberation Day”, un'azienda di articoli di cancelleria della Florida, di proprietà di gruppo di donne con un debole per il design floreale (!) e l'approvvigionamento dalla Cina, ha intentato una causa contro Trump e le misure protezionistiche. Prendendo di mira la base giuridica dei dazi sulla Cina – imposti tra febbraio e marzo e da allora aumentati in modo muscolare, senza alcun segno di pausa o tregua – Emily Ley Paper (questo il nome della società, N.d.T.) sostiene che Trump abbia ecceduto la sua autorità ai sensi dell'International Emergency Economic Powers Act del 1977. Sebbene dalla presidenza si dichiari di rispondere in tal modo ad una “emergenza nazionale” – la «minaccia straordinaria rappresentata dagli immigrati clandestini e dalle droghe, compreso il fentanyl letale» – nessun presidente ha mai utilizzato la citata norma per imporre strozzature doganali, per il semplice motivo che il testo non ne fa menzione. Trump dispone di altre fonti di autorità legale che ha largamente invocato durante il primo mandato. Ma queste richiedono che si segua un processo di deliberazione e progettazione “poco trumpiano”: nessuna conferisce a Trump i poteri di emergenza che ama tanto esercitare.


Dietro Emily Ley Paper c'è una piccola no profit poco conosciuta chiamata New Civil Liberties Alliance (NCLA). Avvocati specializzati in cause civili nell'ecosistema conservatore, la NCLA ha silenziosamente assunto un ruolo di primo piano nella decostruzione dello “Stato amministrativo”. L'anno scorso, la NCLA ha convinto la Corte suprema a ribaltare il suo precedente Chevron, che garantiva alle agenzie esecutive ampia libertà di interpretazione delle leggi ambigue e limitava il potere dei giudici di invalidarne la lettura. La Corte ha stabilito che non solo i tribunali di grado inferiore possano decidere autonomamente il significato delle leggi a maglie larghe che il Congresso spesso approva, ma possono anche ribaltare il giudizio degli esperti funzionari incaricati dell’applicazione. D'ora in poi saranno i giudici Con – piuttosto che i tecnocrati liberali – a guidare la struttura amministrativa.


Dietro la NCLA – ancora – ci sono il miliardario Charles Koch e Leonard Leo, probabilmente il più influente broker della destra legale dai tempi di Edwin Meese. Leo è il principia mechanica della magistratura di Trump, non solo alla Corte Suprema, ma in tutta l’articolazione federale. Attraverso la sua rete di donatori, avvocati, giudici e docenti di diritto, Leo ha pilotato la nomina di cinque dei nove attuali membri della Corte suprema – dal conservatore Samuel Alito al più cauto John Roberts, compresi i giudici nominati da Trump – e di oltre 200 giudici federali durante il primo mandato di Trump.


In altre parole, un potente settore della destra sta parlando attraverso Emily Ley Paper. Dicendo cosa? Che schiererà le medesime truppe contro Trump e i suoi repubblicani pro-dazi. Già in questa causa, la destra legale sta usando le stesse armi – la dottrina delle questioni importanti, la dottrina della “non delegabilità” – già affilate contro l'Agenzia per la protezione dell'ambiente e il programma di condono dei prestiti studenteschi di Joe Biden. Se il Congresso vuole avallare al presidente di prendere «decisioni di vasta portata economica e politica –  come l'imposizione di dazi – [dovrà prima] esprimersi chiaramente». Ad oggi non ha detto nulla. Inoltre, qualsiasi atto che deleghi all’autorità presidenziale i poteri costituzionalmente attribuiti al Congresso senza linee guida o restrizioni è incostituzionale. I tribunali di cui Leo si è circondato negli ultimi vent'anni possono pronunciarsi contro Trump in due modi: invocando l’illegalità ovvero l’incostituzionalità. Se il caso dovesse arrivare alla Corte suprema, gli osservatori, compresi quelli vicini a Trump, prevedono che perderà. L'unica alea è di quanto.


Al culmine dell’Età dell'oro, uno dei “partiti del capitale” amava dileggiare la parte avversa dando ai suoi dei “cospiratori confusi”, riconducendo ogni male politico ed economico degli States al protezionismo. «Con lui tutte le strade portano alla tariffa», disse il repubblicano dell'Ohio John Sherman del democratico del Kentucky James Beck. Oggi, nella nuova Golden Age, la questione delle tariffe – e la sua derisione – è tornata agli allori della politica. 

Solo che tocca ora ai democratici a punzecchiare i repubblicani che – invece di usare i dazi per consolidare la propria coalizione – stanno permettendo che, piuttosto, la facciano saltare. 

Cosa comporterà per il rapporto tra politica partitica ed economia politica – e le questioni di politica monetaria e potere nazionale che vi si celano – è difficile a dirsi.


Corey Robin è professore emerito di Scienze politiche al Brooklyn College e al CUNY Graduate Center. È autore di The Enigma of Clarence Thomas (2019), The Reactionary Mind (2011) e Fear: The History of a Political Idea (2004). Attualmente sta lavorando al suo prossimo libro, King Capital, in cui discute una possibile teoria politica del capitalismo.

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