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  • Immagine del redattore: Matthew Karp
    Matthew Karp
  • 17 giu
  • Tempo di lettura: 7 min

Al limite: su Trump e la socialdemocrazia

Thomas Berra
Thomas Berra

Matthew Karp analizza la politica di Trump negli Stati Uniti a partire da una profonda critica alle compagini democratiche. Trump svolge il ruolo di rivitalizzare una sinistra americana che soffre di una importante empasse interna. L'articolo è uscito per la prima volta su Sidecar la rivista di New Left Review

Il mondo politico statunitense oggi può dirsi diviso non solo tra destra e sinistra, ma anche lungo un altro asse: i massimalisti e i minimalisti di Trump. I massimalisti tendono a vedere il tycoon come un agente o un tramite di una rottura storica improvvisa – che si tratti della trasformazione del sistema partitico, della distruzione della democrazia americana o dell'implosione dell'ordine mondiale liberale – . I minimalisti non vedono il presidente USA come una rottura fondamentale, piuttosto come un simbolo raccapricciante di sviluppi di lungo corso, o un sintomo di crisi che affliggono altri settori: un buco nero che distoglie l'attenzione dai veri problemi politici.


Non si tratta di una distinzione puramente partitica o ideologica, il che è uno degli aspetti che la rende interessante. Ci sono molti massimalisti liberali ben noti, naturalmente – alcuni di loro si sono recentemente trasferiti in Canada per paura o in segno di protesta contro lo status quo – e ci sono anche massimalisti conservatori, per lo più editorialisti di destra che hanno mobilitato pochi voti ma hanno avuto un impatto enorme sulla struttura e sul tenore della politica anti-Trump. Nonostante alcuni disaccordi, i massimalisti liberali e conservatori sono uniti nel considerare il presidente stesso come la questione principale – spesso l'unica – della politica nazionale; entrambi si sono affrettati inoltre ad arruolarsi nella “guerra al fascismo”, spesso brandendo la parola con la “F” come un bastone per disciplinare la sinistra alle elezioni e altrove.

Tuttavia, esiste anche un minimalismo contrapposto del centro, articolato da James Carville, che a febbraio ha consigliato ai democratici di “girarsi e fingersi morti” – cosa che, a quanto pare, sanno fare bene – perché l'amministrazione Trump sarebbe “crollata” nei trenta giorni successivi. Anche il Senato democratico sembra contenere una buona dose di minimalisti. Secondo loro, Trump è il peggior nemico di se stesso e in ogni caso non rappresenta una vera rottura con la politica tradizionale; i democratici devono semplicemente tenere un profilo basso e prepararsi per una vittoria schiacciante nelle elezioni di medio termine del 2026.


I massimalisti di sinistra si dividono sostanzialmente in due fazioni. Quelli che hanno celebrato Trump per aver demolito l'ordine neoliberista, dipingendo il presidente del reality show come una figura storica di grande importanza – «l'anima del mondo che cavalca una scala mobile dorata», come ha detto lo scorso novembre il podcast Aufhebunga Bunga. Poi, i sinistroidi dell'«emergenza nazionale» che vedono l'attacco del presidente agli attivisti studenteschi, all'immigrazione clandestina e ai diritti civili come una crisi urgente che supera ogni altro livello di analisi e richiede una risposta immediata.


Entrambi vedono in Trump una chance per la sinistra. Per i primi, le conseguenze offrono la possibilità di raccogliere alcuni frammenti del malcontento nel sistema neoliberista ormai in frantumi, aprendo la possibilità di una sorta di riallineamento con la rivolta della classe operaia contro i democratici. Per il secondo, è l'occasione per un ampio fronte popolare contro Trump in nome di una forma di antifascismo che permetterà alla sinistra di esercitare una certa influenza insieme agli alleati liberali. Qui, tuttavia, intendo sostenere un minimalismo progressista – critico e qualificato – facendo luce su alcune questioni chiave dei primi mesi dell’attuale presidenza.

In primo luogo, i dazi. Nel «giorno della liberazione», Trump sembrava aver dato il via alla demolizione dell'economia internazionale che molti massimalisti temevano e alcuni speravano. Tuttavia, al primo segnale di nervosismo dei mercati obbligazionari, ha cambiato rotta, passando dal riallineamento commerciale globale a una semplice guerra commerciale con la Cina, per poi fare marcia indietro anche su questo poche settimane dopo. Restano in vigore dazi significativi sulla Cina e sono probabili ulteriori manovre tariffarie, ma un cambiamento trasformazionale sembra fuori discussione. A Wall Street, quello che il Financial Times ha soprannominato “il commercio del taco”, basato sulla teoria che Trump si tiri sempre indietro, ha riportato i mercati ai livelli pre-dazi.


In secondo luogo, il DOGE (Department of Government Efficiency) [1]. Con Elon Musk che ha ufficialmente lasciato il progetto, non è troppo presto per valutarne l'impatto. Secondo il tracker del NYT, oltre 58.000 dipendenti federali sono stati licenziati e altri 149.000 sono in programma per essere tagliati (metterei i dipendenti che hanno accettato il buyout in una categoria leggermente diversa). Ciò equivale alla cessazione di circa il 7% di una forza lavoro civile federale di 3 milioni di persone; il 7%, forse non a caso, corrisponde all'aumento della forza lavoro federale nell'era post-Covid, tra il 2019 e il 2023.


Non si tratta di un semplice ritorno al Trump 1.0. Il DOGE ha distrutto l'USAID oltre ogni possibilità di rinascita giudiziaria, ha quasi strangolato i finanziamenti federali alla scienza e ha lasciato una scia di caos, disfunzioni e sofferenza in tutto il servizio civile. Ma suggerisco di prendere sul serio il verdetto dei sostenitori ideologici più accaniti dei tagli al governo, come Jessica Riedl del Manhattan Institute, che hanno definito l’iniziativa come “teatro politico” piuttosto che un vero tentativo di riorganizzare la forza-lavoro federale, per non parlare di ridurre lo Stato. Il risultato più significativo è stato il traumatismo dei dipendenti federali liberali. Nella misura in cui aveva una qualche logica, al di là della gratificazione dell'ego di un importante donatore, il DOGE è servito a Trump per colpire bersagli facili, infuriare i democratici e poi dire alla propria base e alle frange ideologiche della coalizione: «Non dobbiamo fare tutti questi tagli a livello legislativo, non saremo in grado di farlo, perché invece stiamo facendo il DOGE». I numeri sono minimi, i sentimenti no.

Poi c'è il Congresso: remissivo, inerte, quasi patetico. Ma ciò che il Congresso non ha fatto è significativo. Rispetto ai primi cento giorni di Roosevelt, Reagan e persino Obama nel 2009, l'azione del Congresso è stata praticamente nulla. I repubblicani hanno apparentemente una tripletta di governo, ma la blitzkrieg di Trump è avvenuta quasi interamente tramite ordini esecutivi, un segno di debolezza, non di forza. Il <<One, Big, Beautiful Bill>> che è stato approvato a fatica dalla Camera  rappresenta probabilmente il culmine, se non la summa, dell'agenda legislativa del primo mandato di Trump. È un brutto pasticcio, ma anche estremamente familiare. Vasti regali alle aziende e ai ricchi, simbolici doni per i lavoratori e tagli crudeli per i poveri, pagati con un'esplosione del debito e mascherati dal linguaggio del patriottismo: non si tratta di una rottura storica, ma del modello prevedibile di governo repubblicano da oltre mezzo secolo.


L'elemento di gran lunga più rilevante del disegno di legge è la proroga di 3,8 trilioni di dollari dei tagli fiscali di Trump del 2017, di per sé un commento alla mancanza di nuove priorità sostanziali da parte dell'amministrazione. Altre disposizioni, come una tassa sulle dotazioni destinata alle “élite woke” dell'Ivy League, sono più simboliche che realmente trasformative. La caratteristica più dura del disegno di legge della Camera – i tagli al Medicaid che potrebbero negare l'assistenza sanitaria a milioni di persone – potrebbe non sopravvivere al Senato. Ma anche questo attacco diretto ai poveri e ai malati non è un artefatto del trumpismo, bensì il feroce anti-welfarismo che ha governato la destra repubblicana sin dall'era di Newt Gingrich. Se nel 2025 ci sarà un riallineamento ideologico degno di nota, sarà solo sotto forma di una ribellione MAGA contro i tagli al Medicaid.


Infine, ci sono le elezioni speciali dello scorso aprile. I democratici sono diventati un partito che prospera su questi eventi in deroga: più bassa è l'affluenza, meglio è. In questa occasione, sembrava possibile che, dopo tutto il clamore e i milioni investiti da Musk nel Wisconsin, le dinamiche potessero essere diverse, che potesse esserci un'ondata di sostegno popolare per l’operato del presidente. Ma mentre i repubblicani sono riusciti a generare un'affluenza più alta, c'è stata anche un'affluenza più alta per i democratici, il che ha significato che praticamente tutti i margini di Trump, compresa la Florida, sono stati dimezzati. A questo proposito, comunque, Chuck Schumer de i minimalisti del Senato democratico hanno ragione: le leggi della gravità politica sembrano rimanere le stesse del 2022 e del 2018. Secondo i mercati delle scommesse, le probabilità che i democratici riconquistino la Camera nel 2026 sono ora circa dell'80%.

Riflettendo sul “fenomeno Trump”, mi è venuto in mente Lost Highway (1997) di David Lynch. La pellicola inizia con un musicista jazz che vive in una versione asettica e ultramoderna della California. Non ha un legame profondo con la moglie e non riesce a dare il meglio di sé nel talamo. L'atmosfera del film è pesante, il ritmo lento. È una serie di sequenze opprimenti e soffocanti in cui l'eroe non riesce a superare lo stallo. A metà del film – con la cifra tipica del regista – il protagonista si trasforma senza alcuna spiegazione in un altro personaggio, un giovane meccanico catapultato in una classica trama noir, con tanto di triangolo amoroso. La moglie si reincarna in una femme fatale disperatamente innamorata di lui. Lui finalmente la ricambia, ma è minacciato da un gangster feroce, un cattivo caotico e ringhioso che lo bracca.

Slavoj Žižek – che ha scritto un intero libro su Lost Highway – vede questa trasformazione come una sorta di slittamento, il gangster come una proiezione delle inibizioni e delle ansie che tormentavano il musicista jazz. Il fallimento nell'agire, nell'essere un agente nel mondo, è stato trasposto sulla figura criminale. 


Questa è la funzione che Trump svolge oggi per molti, non solo nel mondo liberale ma anche tra alcuni massimalisti di sinistra. Trump incarna l'azione, il potere, il movimento, l'eccitazione: un incitamento all'insurrezione aperta contro i fascisti, forse, o almeno un sintomo del crollo del liberalismo. Ma questo potrebbe essere in definitiva un modo attraente e conveniente per esternare una empasse interna: la profonda e scoraggiante frattura tra la sinistra storica e la classe operaia. Questa è <<La>> storia della politica americana e del privilegio dagli anni '70: un dramma cupo e di lunga durata in cui Trump non è il protagonista. Il mostruoso spettacolo del trumpismo, che è già riuscito a rivivificare Canada ed Australia, offre certamente opportunità politiche di qualche tipo. Ma per coglierle dobbiamo riconoscere e affrontare questa marea prossima a travolgerci.


Note


[1] Il Department of Government Efficiency (lett. "Dipartimento dell'Efficienza Governativa"), in sigla: DOGE, formalmente US DOGE Service Temporary Organization (lett. "Organizzazione temporanea del servizio DOGE negli Stati Uniti"), è un'organizzazione temporanea nata su iniziativa della seconda amministrazione Trump e guidata da Elon Musk. 

Matthew Karp è professore associato di storia all'Università di Princeton, specializzato nello studio della guerra civile americana e del suo rapporto con il mondo del XIX secolo. È autore di This Vast Southern Empire: Slaveholders at the Helm of American Foreign Policy (2016).

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