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  • Immagine del redattore: Alessandro Stella
    Alessandro Stella
  • 8 set
  • Tempo di lettura: 6 min

Bloccare tutto, altro che sciopero!

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Come una scintilla da braci mai spente, a luglio 2025 la chiamata a BLOCCARE TUTTO dal 10 settembre si è diffusa come un incendio. Alla fine di un’estate calda, durante le vacanze, la steppa ha preso fuoco. Lo slogan BLOCCHIAMO TUTTO ha girato la Francia — nei paesini come nelle città — prima su decine, poi su centinaia di siti, blog e gruppi. La vampa ha raggiunto anche i sindacati confederali e i partiti di sinistra, presi da un senso di colpa per non aver colto l’affondo dei Gilet gialli. Pur interrogandosi sulla nebuleuse e sul flou di un movimento ancora in divenire — disordinato e fuori dai loro orizzonti — si sono schierati dalla sua parte.

I media mainstream (compresi «Libération» e «Le Monde»), rilanciando le preoccupazioni istituzionali, hanno provato a scoprire chi ci fosse dietro l’appello a BLOCCARE TUTTO, indicando siti complottisti (250 iscritti …) e influencer sospetti. Una manovra di delegittimazione per soffocare sul nascere un nuovo movimento sociale.

La realtà è più semplice. L’idea di BLOCCARE TUTTO nasce da un’intelligenza collettiva che si è formata in Francia nell’ultimo decennio di lotte, innestata su 150 anni di storia del movimento operaio e sociale. Non conta chi abbia postato per primo lo slogan sui social o quale gruppo lo abbia ripreso: il terreno era pronto.


La prova? I sindacati confederati, visibilmente in allarme per l’emergere di un movimento che stava sfuggendo al controllo, si sono affrettati a chiamare sciopero e manifestazione per giovedì 18 settembre. La solita routine stancante: sperare di assorbire gli slanci popolari con camion, casse, palloni e scenografie — persino l’UNSA Polizia — per riportare tutto nel recinto del compromesso istituzionale.


La storia recente lo mostra. L’irruzione alla testa del corteo nel 2016, durante le proteste contro la riforma del lavoro, tradiva la frustrazione di chi non voleva più accontentarsi del solito giorno di sciopero e alla successiva attesa delle trattative in ministero. I Gilet gialli hanno spinto più avanti l’autonomia dei movimenti rispetto a sindacati, partiti e rappresentanze ufficiali. E la convergenza delle lotte contro la riforma delle pensioni nel 2023 è stata smantellata dalle centrali sindacali, che hanno protetto il proprio ruolo (e i piccoli privilegi annessi) come interlocutori tra il popolo insorgente e il potere. Scioperi a singhiozzo, manifestazioni di facciata, mentre tante assemblee operaie chiedevano uno sciopero generale e riconoscibile. Per poi finire a negoziare briciole.



Il declino degli scioperi


Per decenni lo sciopero è stato l’arma principale dei lavoratori per far cedere i padroni e ottenere conquiste. Negli anni ’60-’70, gli scioperi di massa degli operai dell’automotive, dell’acciaio, delle miniere riuscivano a piegare il padronato. Ancora oggi lo sciopero resta uno strumento potente nelle mani di chi lavora in settori vitali, nodi essenziali dell’economia e della logistica: operai delle raffinerie, tecnici della rete elettrica, controllori di volo o ai portuali negli scali di rango internazionale. Ma in altri comparti la capacità di interrompere la routine si è fiaccata parecchio. Basta guardare a ferrovie, metropolitane e autobus. Nelle mobilitazioni contro la riforma delle pensioni del 1995 questi lavoratori avevano avuto un ruolo centrale nel paralizzare il paese, costringendo il governo Juppé a ritirare la riforma. Ma, come per i lavoratori delle grandi industrie — esposti allo smembramento degli impianti, ai sub-appalti a cascata, alle delocalizzazioni — come ance per personale ferroviario, attraverso misure verticali, statutarie e di organizzazione del lavoro, hanno perso molta della loro capacità insorgente. La proprietà reagisce sempre e si dota di strumenti acuminati per frenare le lotte collettive.


Ultimamente la forza dello sciopero si è notevolmente ridotta, anche per effetto delle strategie della rappresentanza sindacale. Convocando scioperi e manifestazioni a singhiozzo, organizzando date singole, rifiutando di generalizzare gli scioperi riconducibili avviati da comitati di lavoratori e rilanciati da federazioni locali, i sindacati hanno in parte disabituato i lavoratori a scioperare. Perché, ed è cruciale, lo sciopero se può danneggiare il padrone finisce per pesare anche sul lavoratore. E ci si può chiedere se, facendo sfilare folle sindacali con bandiere, palloni, camion e megafoni, i sindacati non finiscano per giocare unicamente il ruolo della deterrenza nei confronti di padroni e governi: mostrare le truppe dispiegabili, inviare il segnale che si potrebbe ricorrere a un’altra giornata di lotta, dissuadere l’avversario, aprire a trattative. Così lo sciopero si consuma.

Per un secolo sindacalisti ed insorgenti hanno invocato lo sciopero generale come mezzo per piegare il sistema. Ma questo non s’è rivelato efficace: o perché il potere è riuscito a complimentare i lavoratori, o perché interessi corporativi di singole categorie hanno impedito la convergenza delle lotte. Se l’idea dello sciopero generale è ancora brandita da gruppi politici rivoluzionari, appare sempre più avita, irrealizzabile e, in ultima analisi, superata. Rimane però vivo l’obiettivo dello sciopero generale — bloccare tutto: produzione, commercio, amministrazione e distribuzione — che torna a emergere. Come farlo? L’appello a bloccare tutto a partire dal 10 settembre va in quella direzione, invitando ognuno e ogni collettivo a immaginare quali obiettivi bloccare e a darsi i mezzi per riuscirci.



L’emergenza del blocco


Bloccare è alla portata di chiunque. Non conta il mestiere né il luogo in cui si vive: chiunque può partecipare al blocco di una rotatoria, di un’autostrada, di un centro commerciale, di un magazzino logistico, di una sede aziendale, di una Prefettura o di un Comune. È una novità figlia dell’esperienza dei Gilet gialli: sottrarre ai sindacati il monopolio della lotta, degli obiettivi e degli strumenti. Perché scioperare non è praticabile da tutt@: lo sciopero è più accessibile a chi ha un impiego stabile, uno status tutelato e poche probabilità di perdere l’impiego. E gli altri? I precari, i lavoratori autonomi, i disoccupati, chi è escluso da ogni riconoscimento sociale?

L’esperienza dei Gilet gialli ha dimostrato che il blocco di una rotonda sintonizza persone di condizioni, età e origini diverse che, agendo insieme, socializzano, si scambiano pratiche e costruiscono comunità, anche effimere. Bloccare e protestare contro ingiustizie e umiliazioni spinge inoltre a riflettere collettivamente su come costruire un mondo a misura. Per gruppi locali, reti solidali, senza capi né soviet, per auto-organizzazione e mutualismo possono nascere esperienze alternative ai poteri vigente, immaginare e creare modi desiderabili di convivenza. Bloccare tutto è un programma tout court. Da costruire collettivamente, nell’azione e nella restituzione: è così ch si agisce la progettualità Al centro della rivolta, portato da chi vi partecipa.

Bloccare tutto è anche l’appello a fermare la macchina infernale che schiaccia la vita di milioni di persone, sempre più astratta, governata da algoritmi e intelligenze artificiali, nei fatti comandata a distanza da élite economiche, sociali e politiche. Un grido contro chi approfitta del sistema che ha creato o di cui è erede, per privilegio di nascita o per cesso.


Cosa bloccare? Come bloccare? Perché bloccare? Sono le domande che il movimento nascente deve affrontare. I Soulèvements de la Terre hanno indicato vie pratiche: infrastrutture inutili e costose che avvantaggiano papaveri, i promotori, finanziatori e sodali politici e mediatici. Proporre forme alternative di agricoltura, condivisione delle risorse, vita in comune. Distruggere un vecchio mondo marcio va bene, ma costruirne uno nuovo e appetibile è meglio. Bisogna fidarsi della base in rivolta per individuare gli obiettivi da disinnescare. Ovunque, dal paesello alle città metropolitane, i gruppi locali possono identificare gli obiettivi, sabotarne le attività, metterli sotto accusa e sanzionarli.


Bloccare tutto può declinarsi in mille modi. Per esempio impedire le uscite pubbliche dei maggiorenti, come si è visto nella primavera 2023. Ci rovinano la vita? Irrompano nelle loro cerimonie. Invadiamo i loro incontri e ricevimenti. Blocchiamo la raccolta dei rifiuti sulla «strada più bella del mondo» e nel quartiere circostante.


Bloccare richiede mezzi. Rendere inagibile un tratto di autostrada o un casello, un ingresso della tangenziale, un supermercato o l’atrio di una banca richiede la presenza di alcune decine di persone. Altri interventi chiedono soprattutto competenze tecniche. Per questo la condivisione delle conoscenze, tecniche e relazionali, è cruciale. Il sapere operaio, la conoscenza della macchina, è la minaccia che il padrone teme: l’operaio può trasformare quel sapere contro di lui. Oggi, nel mondo occidentale, non è più la produzione diretta dei beni di consumo il centro del sistema, ma la loro distribuzione e l’estrazione di plusvalore. Tutto passa fisicamente per porti, depositi, centrali di trasporto, strade, aeroporti; ma passa anche attraverso flussi finanziari, connessioni di rete e molteplici network digitali — non nei cieli dell’iCloud, ma in rack informatici dentro edifici di cemento. Anche qui la vulnerabilità sta nel fatto che i lavoratori che conoscono i sistemi tecnici possono un giorno decidere di staccare un circuito elettrico, cancellare una banca dati o hackerarla. Questo può provocare danni maggiori di uno sciopero classico.

Il blocage apre le porta a molteplici scenari: la fantasia è lo strumento più potente.  


Alessandro Stella è stato membro di Potere operario e poi dell’Autonomia. Rifugiatosi in Francia all’inizio degli anni Ottanta, è oggi direttore di ricerca in Antropologia storica presso il CNRS e insegna all’EHESS di Parigi. Tra i suoi libri: La Révolte des Ciompi (1993); Histoires d’esclaves dans la péninsule ibérique (2000); Amours et désamours à Cadix.

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