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  • Immagine del redattore:  Craig Mokhiber
    Craig Mokhiber
  • 16 set
  • Tempo di lettura: 11 min

Come potrebbe agire oggi l’ONU per fermare il genocidio in Palestina

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Con l’avvicinarsi della data cruciale imposta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Israele per ottemperare alle disposizioni della Corte Internazionale di Giustizia, un meccanismo poco utilizzato dell'ONU, immune al veto statunitense, potrebbe fornire protezione militare al popolo palestinese, è però necessario esigere che lo si metta in moto. Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Mondoweiss ed è ripubblicato qui con il consenso espresso del suo editore.


Dopo ventidue mesi di massacri senza precedenti tre cose sono diventate chiare: (1) il regime israeliano non porrà fine al genocidio in Palestina di sua spontanea volontà, (2) il governo degli Stati Uniti, principale collaboratore di Israele, così come la maggior parte degli israeliani e i rappresentanti e i gruppi di pressione del regime israeliano in Occidente, sono pienamente impegnati in questo genocidio e nella distruzione e cancellazione di ogni traccia della Palestina dal fiume al mare, e (3) altri governi occidentali, come il Regno Unito e la Germania, così come troppi Stati arabi complici della regione, sono pienamente piegati alla causa dell'impunità israeliana.


Ciò significa che il genocidio (e l’apartheid) finiranno solo attraverso la resistenza opposta al regime israeliano, la fermezza del popolo palestinese, la solidarietà del resto del mondo e l’isolamento, l’indebolimento, la sconfitta e lo smantellamento del regime israeliano. Come nel caso dell’apartheid in vigore in Sudafrica, si tratta di una lotta di lunga durata. Ma anche di fronte all'ostruzionismo dei governi occidentali, ci sono cose che si possono fare già adesso. Cose come boicottaggi, disinvestimenti, sanzioni, manifestazioni, rivolte, disobbedienza civile, educazione, procedimenti giudiziari in base alla giurisdizione universale e cause civili contro i responsabili israeliani e gli attori complici presenti nelle nostre società. E sì, possiamo anche esigere l'intervento e la protezione del popolo palestinese.


Istituito da una risoluzione dell'epoca della Guerra Fredda adottata nel 1950, il meccanismo Uniting for Peace autorizza l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ad agire quando il Consiglio di Sicurezza è bloccato dal veto di uno dei suoi membri permanenti. In base a questo meccanismo, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite potrebbe ordinare lo schieramento di una forza di protezione delle Nazioni Unite in Palestina, la protezione della popolazione civile, la garanzia degli aiuti umanitari, l’acquisizione delle prove dei crimini israeliani e la fornitura di aiuti per la ricostruzione e la ricostruzione. E la scadenza incombente fissata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso anno affinché Israele ottemperasse alle ordinanze e alle conclusioni emesse dalla Corte Internazionale di Giustizia, che includevano la promessa di imporre «misure aggiuntive» in caso di inadempienza, rappresenta un momento critico per agire. In realtà, le Nazioni Unite e la comunità internazionale avrebbero dovuto intervenire già da tempo.




Modelli di intervento


Come ho scritto in precedenza, qualsiasi paese può intervenire legalmente (individualmente o di concerto con altri) per fermare il genocidio, i crimini contro l'umanità e i crimini di guerra perpetrati dal regime israeliano. Infatti, in virtù delle Convenzioni di Ginevra, della Convenzione sul genocidio e di altre fonti di diritto, gli Stati sono legalmente obbligati a farlo, se si trovano di fronte a tali atrocità. Il diritto internazionale richiede l'intervento, lo Stato di Palestina ha richiesto l'intervento e la società civile palestinese ha fatto appello per l’intervento. Tuttavia, pochi Stati hanno adempiuto a questo solenne obbligo, mentre lo Yemen, sotto il controllo di Ansar Allah, è stato attaccato senza pietà dalle forze statunitensi per averlo fatto, e si è permesso di continuare il genocidio per quasi due anni. Pertanto, di fronte a questa situazione, un mandato multilaterale potrebbe fornire copertura legale, politica e diplomatica necessaria alla maggior parte degli Stati per partecipare a un intervento in Palestina.


A questo punto occorre agire con cautela. Ci sono molte proposte di intervento. Ma alcune di esse non hanno nulla a che vedere con la protezione del popolo palestinese, e tanto meno con la sua liberazione. Alcuni attori hanno chiesto osservatori civili per Gaza, essenzialmente poche decine di osservatori con giubbotti blu armati solo di blocchi per appunti e radio. Ma ci sono stati osservatori dei diritti umani in Cisgiordania e a Gaza per decenni, prima e durante l’attuale genocidio. Sebbene questi osservatori svolgano un lavoro prezioso, non hanno alcun effetto deterrente e il regime israeliano li considera un ostacolo insignificante ai suoi disegni nefasti. Altri, come i francesi e i sauditi, hanno chiesto l’intervento di una presunta «forza di stabilizzazione», ma i dettagli della loro proposta suggeriscono che tale intervento non sarebbe progettato in pratica per proteggere il popolo palestinese dal regime israeliano, ma in realtà per sorvegliare la resistenza palestinese e ripristinare così il crudele status quo esistente prima dell'ottobre 2023, con l’imprigionamento del popolo palestinese e il suo lento e sistematico annientamento.


Allo stesso tempo, molte di queste proposte di intervento sembrano essere concepite in gran parte per riprendere il processo di normalizzazione del regime israeliano e resuscitare la messinscena di Oslo. Inutile dire che il ritorno a una sorta di Oslo 2.0, concepito come un’altra cortina fumogena per l'impunità israeliana, in cui ai palestinesi viene detto che devono negoziare i loro diritti con il loro oppressore, mentre questi e le loro terre sono oggetto di una continua erosione e lo status del regime si consolida e si normalizza sempre più, non è la soluzione. È anche sul tavolo la proposta di Donald Trump che consiste nell'occupazione diretta da parte degli Stati Uniti della Striscia, nella pulizia etnica e nel dominio coloniale di Gaza, che rivela ancora una volta le illusioni pericolose e profondamente razziste dell’impero statunitense. Infine, lo stesso regime israeliano ha suggerito il dispiegamento di una forza di occupazione composta dalle forze degli Stati arabi che collaborano con Israele. È evidente che queste proposte non mirano a porre fine al genocidio e all’apartheid, ma a consolidarli.



Le opzioni dell’ONU


Questo ci porta all’ONU. A metà settembre scadrà il termine fissato lo scorso anno dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite affinché Israele ottemperi alle richieste della Corte Internazionale di Giustizia e della stessa Assemblea Generale, pena l’adozione di «nuove misure». Le delegazioni occidentali si stanno affrettando a impedire questo addossamento di responsabilità nei confronti di Israele, distogliendo l’attenzione verso questioni come il riconoscimento della Palestina come Stato o cercando di resuscitare il cadavere degli Accordi di Oslo e la cosiddetta «soluzione dei due Stati», il che implica fondamentalmente avviare un altro processo politico di normalizzazione di Israele e di emarginazione del popolo palestinese, con un nuovo diversivo per consentire il proseguimento degli abusi israeliani e la vaga promessa della creazione di un bantustan palestinese in un futuro indeterminato. Ma l’ONU non ha motivo di cadere in questa trappola.


Naturalmente, la stessa ONU ha molto di cui rispondere in questo genocidio. Alcuni suoi membri hanno senza dubbio avuto comportamenti assolutamente eroici, come hanno dimostrato i lavoratori dell’UNRWA, che sono stati uccisi a centinaia dal genocidio israeliano, molti insieme alle loro famiglie, e altri operatori umanitari dell’ONU, che hanno continuato a lavorare per alleviare le sofferenze del popolo di Gaza, nonostante l’enorme rischio che ciò comportava; o la Corte internazionale di giustizia, che ha preso decisioni storiche affermando i diritti del popolo palestinese nonostante l’enorme pressione affinché non lo facesse, così come i relatori speciali delle Nazioni Unite, come Francesca Albanese, che hanno sopportato due anni di diffamazioni, calunnie, molestie, minacce di morte e sanzioni da parte degli Stati Uniti, solo per aver detto la verità e applicato la legge.


Ma il versante politico dell'ONU ha fallito clamorosamente. Alcuni, come il suo segretario generale António Guterres, i suoi principali consiglieri (in materia di genocidio, bambini nei conflitti, violenza sessuale nei conflitti, questioni politiche, ecc.), l’Alto Commissario per i diritti umani e altri alti dirigenti politici, hanno fallito miseramente, non perché non potessero fare di più, ma perché hanno deciso di non farlo. E, naturalmente, il simbolo del fallimento dell’ONU è il Consiglio di Sicurezza, che è diventato totalmente inutile a causa delle restrizioni imposte dagli Stati Uniti e dai loro alleati occidentali. La risoluzione Uniting for Peace offre l’opportunità di raddrizzare la rotta dell’ONU e di salvare la dignità dell’organizzazione dal colpo potenzialmente fatale di un altro genocidio sotto la sua supervisione.



Scenari del Consiglio di Sicurezza


È ovvio che, ai sensi del Capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza ha il potere di dispiegare una forza armata e di imporla anche contro la volontà di un Paese. Ma dato che Stati Uniti, Regno Unito e Francia (tutti Stati complici di genocidio) hanno diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, ci sono solo due possibili risultati nell’affrontare una proposta di intervento in Palestina: (1) un mandato che soddisfi gli Stati Uniti in qualità di rappresentante di Israele, il che significa che sarebbe formulato in modo disastroso per il popolo palestinese e potrebbe essere imposto contro la sua volontà, ai sensi del Capitolo 7, oppure (2) il veto degli Stati Uniti a qualsiasi forza che sarebbe realmente utile per intervenire in Palestina data la situazione attuale.


È evidente che il Consiglio di Sicurezza, per sua stessa natura, non è schierato con gli occupati, i colonizzati o gli oppressi. Pertanto, la strada verso la protezione e la giustizia non passa attraverso il Consiglio di Sicurezza, ma attraverso il suo aggiramento.



Uniting for Peace all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite


È quindi praticamente impossibile che il Consiglio di Sicurezza adotti misure significative in un organo dominato dal veto degli Stati Uniti. Ma ecco la chiave: il mondo non deve arrendersi a quel veto. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si riunirà a settembre, è autorizzata, ai sensi della risoluzione Uniting for Peace, ad agire quando il Consiglio di Sicurezza non può farlo a causa del veto. Ci sono precedenti storici. E non è mai stato così urgente adottare una misura così straordinaria.


Una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottata in virtù della risoluzione Uniting for Peace potrebbe:


  1. Esortare tutti gli Stati ad adottare sanzioni globali e un embargo militare contro il regime israeliano. Sebbene non abbia il potere di far rispettare le sanzioni, può proporle, monitorarle e integrarle secondo necessità.


  1. Decidere di rifiutare le credenziali di Israele all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, come ha già fatto nel caso dell’apartheid in Sudafrica.


  1. Istituire un meccanismo di responsabilità (come un tribunale penale) per affrontare i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, l’apartheid e il genocidio perpetrati da Israele.


  1. Riattivare i meccanismi anti-apartheid delle Nazioni Unite, inattivi da tempo, per affrontare l’apartheid israeliano, e


  1. Mandare una forza armata multinazionale di protezione dell’ONU a Gaza (e, in ultima analisi, in Cisgiordania), su richiesta dello Stato di Palestina, per proteggere i civili, aprire punti di ingresso via terra e via mare, facilitare gli aiuti umanitari, acquisire le prove dei crimini israeliani e aiutare nella ricostruzione.


Tutte queste misure potrebbero essere adottate dall’Assemblea Generale con una maggioranza di due terzi, aggirando così il veto degli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza. Poiché la Palestina ha richiesto l’intervento, non è necessaria alcuna misura del Capitolo 7 da parte del Consiglio di Sicurezza per dispiegare una forza di protezione. La Palestina manterrebbe la piena autorità su quando e per quanto tempo la missione verrebbe dispiegata, dissipando così i timori di un’altra forza di occupazione. È molto importante sottolineare che, come confermato dalle recenti conclusioni della Corte internazionale di giustizia, Israele non avrebbe alcun diritto legale di rifiutare, ostacolare o influenzare la missione. La Corte ha affermato che Israele non ha alcuna autorità, sovranità o diritti su Gaza e sulla Cisgiordania.


Il processo è semplice: (1) in primo luogo, una proposta diviene oggetto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza (ciò è inevitabile, dato il ruolo degli Stati Uniti come rappresentante di Israele in seno al Consiglio); (2) gli Stati convocano una sessione speciale di emergenza [emergency special session] dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in base al meccanismo Uniting for Peace (anche questo è facile, poiché la 10a Sessione Speciale di Emergenza è ancora attiva e può essere facilmente ripresa su richiesta di uno Stato membro); (3) uno o più sponsor propongono una risoluzione, in stretta consultazione con lo Stato di Palestina; (4) la risoluzione viene adottata a maggioranza dei due terzi (soglia richiesta dalle norme per «questioni importante» come questa. Le precedenti votazioni sulla Palestina indicano che questo margine è raggiungibile); (5) il Segretario Generale delle Nazioni Unite viene incaricato di richiedere contributi di truppe ai paesi, consultandosi con lo Stato di Palestina in qualità di entità richiedente, e (6) la missione viene riunita e dispiegata (anche se ciò potrebbe essere politicamente difficile a causa della prevedibile interferenza attiva degli Stati Uniti, tecnicamente è facile).


Dal punto di vista giuridico, non vi sono ostacoli. Le norme lo consentono, il potere dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ai sensi della risoluzione Uniting for Peace è stato ribadito più volte ed esistono precedenti, tra cui spicca il mandato conferito dall’Assemblea Generale del 1956 alla Forza di Emergenza dell’Onu nel Sinai (UNEF) nonostante le obiezioni del Regno Unito, della Francia e di Israele. Naturalmente, gli Stati Uniti e il regime israeliano useranno tutti i mezzi a loro disposizione per cercare di impedire il raggiungimento della maggioranza dei due terzi necessaria, cercando di ammorbidire il testo e di corrompere e minacciare gli Stati affinché votino contro, si astengano o si assentino dal voto. L’attuale governo illegittimo insediato a Washington potrebbe persino minacciare sanzioni a nome del regime israeliano, come ha già fatto con il Tribunale penale internazionale e la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese. Ed è probabile che cercheranno di ostacolare la stessa forza di protezione, una volta che le sarà stato affidato il mandato.


La maggior parte degli Stati del mondo dovrà quindi mantenere la posizione di fronte alle minacce degli Stati Uniti e di Israele. E la società civile mondiale dovrà rimanere salda nelle sue richieste di protezione e giustizia, garantendo la copertura informativa e la trasparenza del percorso che porterà gli Stati a votare a favore o contro una forza per proteggere il popolo palestinese dal genocidio. A nessuno sarà permesso di nascondersi dietro il veto degli Stati Uniti, alzando le mani con la solita solfa: «Ci abbiamo provato, ma gli Stati Uniti hanno posto il veto». Una volta incaricata, la forza di protezione dovrà essere dispiegata per via aerea, terrestre e marittima, essere accompagnata dai media internazionali ed essere sostenuta da tutti i canali diplomatici disponibili per garantirne il successo, nonché per esercitare pressioni sul regime e sui suoi sostenitori occidentali affinché smettano di comportarsi come stanno facendo. Il mondo ha l'opportunità di fermare, anche se tardivamente, un genocidio e altri crimini contro l'umanità. L'unica cosa necessaria è la volontà di farlo.


Conclusione


Di fronte ad atrocità storiche come queste, che minacciano la sopravvivenza stessa di un popolo e che potrebbero seppellire il nascente progetto articolato attorno ai diritti umani e al diritto internazionale, è necessario mettere in campo tutti gli strumenti disponibili. Il mondo non lo ha fatto. Deve provarci, e in fretta. Naturalmente, non siamo ingenui. Il successo non è assicurato, ma il fallimento è garantito se non ci proviamo. E il tempo è essenziale. Il genocidio continua a devastare Gaza e si sta estendendo anche alla Cisgiordania. È stata dichiarata ufficialmente la carestia a Gaza. Israele sta ampliando la sua presenza militare a Gaza e sta devastando la  Cisgiordania, mentre devasta la Striscia. Nel frattempo, il 18 settembre segnerà la scadenza del termine di un anno fissato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite affinché Israele soddisfi le sue richieste e quelle della Corte Internazionale di Giustizia, pena l'adozione di «misure aggiuntive». Il tempo per agire è davvero ridotto.


Testi consigliati


Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, Relazioni della Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese, Anatomia di un genocidio (2024) e Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio (2025)



Craig Gerard Mokhiber è un attivista per i diritti umani e avvocato. Attivo come militante negli anni ottanta, ha poi prestato servizio per oltre trent’anni presso le Nazioni Unite che ha lasciato nell’ottobre 2023 scrivendo una lettera ampiamente diffusa in cui ha criticato i fallimenti dell’ONU nella difesa dei diritti umani in Medio Oriente, lanciando l’allarme sul genocidio in corso a Gaza e invocando un nuovo approccio alla questione israelo-palestinese basato sul diritto internazionale, sui diritti umani e sull’uguaglianza.




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