konnektor
- Aziz Rana
- 30 mag
- Tempo di lettura: 10 min
Aggiornamento: 5 giu
Gli Stati Uniti e il crollo costituzionale [1]

Trump e la sua cerchia di fedelissimi stanno mettendo in discussione le basi della Costituzione Americana che ha tenuto salda la società americana. Myrdal nel 1944 affermava che “il credo americano” si basava sulla convinzione che gli Stati Uniti garantissero la libertà per tutti. Fino ad oggi, l’unica cosa che accomunava Repubblicani e Democratici era il rispetto di questo patto per lo meno nella sua narrativa e in chiave antisovietica. Per decenni è stata anche la chiave che ha visto gli Stati Uniti egemoni su scala mondiale come difensori della democrazia e quindi della libertà. Aziz Rana ci fa riflettere su un nodo cruciale: Trump non sta cambiando una Costituzione uguale a se stessa dal 1787 ma sta, invece, ripristinando quelle condizioni illiberali insite nella Costituzione stessa e superate con la giurisprudenza dopo la seconda guerra mondiale. Non sarà che chiunque abbia basato le sue sicurezze sulla Costituzione americana forse ha fatto un errore di valutazione? Pubblichiamo questo interessante e corposo contributo del professore dell’Università di Boston in due puntate uscito per Sidecar il blog di New Left Review
Per gli esperti di diritto costituzionale, il ritorno al potere di Trump è stato un'esperienza vertiginosa. La sistematica violazione delle procedure legali e delle norme costituzionali di lunga data è andata avanti più velocemente di quanto si possa tenere il passo, con il risultato di oltre un centinaio di cause legali e non solo. Trump ha emesso una marea di ordini esecutivi che violano esplicitamente la legge del Congresso e il testo scritto della Costituzione, su tutto, dalla negazione della cittadinanza per diritto di nascita, alla repressione degli sforzi di inclusione basati sulla razza, sul genere e sull'orientamento sessuale, fino alla distruzione di agenzie governative autorizzate dalla legge. Allo stesso tempo, Elon Musk si è vantato di perseguire un “acquisizione aziendale” del governo federale, con l'obiettivo – attraverso licenziamenti di massa, la vendita di beni del governo (comprese “443 proprietà federali”, potenzialmente insieme a innumerevoli opere d'arte pubblica) e lo smantellamento di servizi vitali – di privatizzare “tutto ciò che può essere ragionevolmente privatizzato”: il tutto in violazione dei divieti costituzionali e del Congresso che vietano ai privati cittadini, non confermati dal Senato, di svolgere il lavoro di alti funzionari governativi.
Questi sviluppi hanno portato alcuni commentatori a tracciare analogie tra l'esperienza americana e quella della Russia post-sovietica negli anni '90. Quel periodo ha comportato la privatizzazione quasi completa dello stato russo e una massiccia redistribuzione della ricchezza nelle mani di un piccolo numero di cleptocrati, esenti da qualsiasi sanzione tranne quella imposta dalla loro rivalità reciproca. Ma forse esiste un legame più profondo con la storia russa: il progetto costituzionale statunitense nel XX secolo è stato forgiato e ha acquisito significato grazie al suo antagonismo con l'Unione Sovietica. I termini fondamentali americani, che collegano il liberalismo razziale a uno stato sociale limitato, si sono consolidati nel corso di tre decenni critici, dal New Deal degli anni Trenta alla Seconda Guerra Mondiale, alla Guerra Fredda e alla rivoluzione dei diritti civili degli anni Sessanta.
Oggi l'Unione Sovietica è scomparsa da tempo. E ora Trump (un miliardario eletto), Musk (un miliardario non eletto e molto più ricco) e una piccola cerchia di fedelissimi stanno perseguendo il crollo di quel modello costituzionale americano concorrente. Non è chiaro cosa comporterà ma altera fondamentalmente il terreno su cui opera la sinistra statunitense e richiederà un tipo di politica di opposizione che il paese non vede dagli anni in cui è salito al potere Franklin D. Roosevelt.
Per capire cosa sta accadendo, è necessario comprendere il contenuto dell'ordine costituzionale statunitense. Questo include una serie di componenti ideologiche e istituzionali, in linea con ciò che il sociologo svedese Gunnar Myrdal nel 1944 ha notoriamente definito il “credo americano”, l'idea che gli Stati Uniti rappresentassero la promessa di pari libertà per tutti. In un periodo di rivalità globale con l'Unione Sovietica per la decolonizzazione del mondo, le élite nazionali si sono esplicitamente schierate a favore di questo quadro costituzionale basato su un credo. I suoi elementi costitutivi comprendevano una lettura della Costituzione come impegnata nel costante miglioramento della disuguaglianza razziale basata sui principi della non discriminazione; una visione antitotalitaria delle libertà civili e dei diritti di parola; una difesa del capitalismo di mercato, parzialmente coperta da uno stato sociale e regolamentare costituzionalmente radicato; un abbraccio dei controlli e degli equilibri istituzionali, con i tribunali federali, in particolare la Corte Suprema, come arbitro finale della legge; e un impegno per la supremazia globale degli Stati Uniti organizzata attraverso un forte potere presidenziale.
Questa iterazione del costituzionalismo americano aveva un volto sia interno che internazionale. A livello nazionale, ha creato una serie di pratiche istituzionali e culturali condivise. Repubblicani e democratici si consideravano i custodi congiunti di un progetto egemonico americano contro l'Unione Sovietica. I funzionari potevano brindare ai loro avversari elettorali al di là delle divisioni partitiche, perché al di là delle loro differenze interne, sia i politici che i giudici avevano attinto a piene mani dall'eccezionalismo americano. Qualunque fosse l'esito delle elezioni, entrambe le parti erano legate, soprattutto, da una comune narrativa nazionale. Questa narrativa, rafforzata dalla sofferenza e dalla vittoria durante la Seconda Guerra Mondiale e messa alla prova dalla continua rivalità con i sovietici, si basava sulla genialità dei fondatori della costituzione, sulla qualità quasi ideale delle istituzioni americane e sul progresso interno della società americana.
A livello internazionale, questa narrativa ha anche permesso agli Stati Uniti di proiettare la propria autorità sulla scena globale, diffondendo la mitologia secondo cui il loro impegno costituzionale per la libertà e l'uguaglianza erano interessi condivisi da tutti nel mondo. Il risultato è stato un ordine americano del dopoguerra caratterizzato da due elementi interconnessi: l'attenzione alla legalità basata sulle regole e la continua defezione americana da tali regole, che si tratti del Vietnam o di Gaza oggi. Le élite nazionali vedevano le istituzioni multilaterali create dagli Stati Uniti come espressione dei valori costituzionali americani e quindi come fondamentali da sostenere. Ma ritenevano anche che la sicurezza globale richiedesse che gli Stati Uniti fungessero da sostegno internazionale. In effetti, questo ha creato un continuo gioco di equilibrio tra la promozione dello stato di diritto e la sua disobbedienza attraverso azioni e interventi militari, segreti e palesi. Le violazioni che ne derivavano venivano giustificate come necessarie per preservare la stabilità collettiva, senza curarsi del fatto che le cose sembravano molto diverse per coloro che si trovavano nel mirino, specialmente nel mondo precedentemente colonizzato.
Il fatto che un distinto ordine costituzionale statunitense del ventesimo secolo sia emerso in parallelo con l'Unione Sovietica viene spesso omesso, grazie in parte alle caratteristiche peculiari associate alle istituzioni americane e alla sua narrativa nazionale. Tanto per cominciare, la Costituzione degli Stati Uniti è nota per essere forse la più difficile da modificare al mondo. Le modifiche costituzionali non avvengono in genere attraverso alterazioni formali del documento del 1787, e tanto meno attraverso la sua sostituzione totale, ma attraverso cambiamenti nelle interpretazioni giudiziarie del testo esistente, insieme all'attuazione di atti legislativi storici che stabiliscono nuove condizioni per la vita collettiva. Infatti, l'ordine attuale è stato consolidato attraverso l'approvazione di leggi chiave della metà del secolo – il Social Security Act, il National Labor Relations Act, il Civil Rights Act, il Voting Rights Act, il Medicare Act – in concomitanza con le sentenze della Corte Suprema che ne hanno confermato la costituzionalità. Insieme, il Congresso e i tribunali hanno rotto sostanzialmente con il precedente ordine razziale ed economico (quello del 1787 ndt). Eppure, ciò significava che non c'era una Costituzione del XX secolo riscritta, separata da una precedente.
Allo stesso tempo, sentimento comune era che questi cambiamenti giuridici rappresentavano la realizzazione di un'essenza nazionale intrinsecamente liberale. In verità, il consolidamento di questo ordine era stato un prodotto contingente degli sviluppi nazionali e globali della metà del XX secolo che divergevano notevolmente dalle strutture consolidate di supremazia esplicita dei coloni bianchi negli Stati Uniti. Ma questa realtà non si adattava alla narrativa nazionale emergente, che presentava gli Stati Uniti come impegnati, sin dalla loro fondazione, nei principi egualitari della Dichiarazione di Indipendenza, e quindi su un percorso ineluttabile verso questo nuovo modello.
Durante i suoi primi due mesi di ritorno in carica, Trump ha esercitato una pressione esistenziale su ogni elemento di questo patto del ventesimo secolo. Mentre i suoi attacchi alla “diversità, equità e inclusione” (DEI) utilizzano il linguaggio ufficiale dell'antidiscriminazione, i suoi ordini esecutivi e le minacce del Dipartimento di Giustizia vanno oltre la semplice presentazione delle maggioranze bianche come i veri gruppi bisognosi di protezione. Rifiutano la premessa liberale della Guerra Fredda dell'inclusione razziale come pietra angolare costituzionale. Questo rifiuto della presenza non bianca è ciò che è in gioco culturalmente e legalmente quando alti funzionari neri vengono licenziati, università e aziende vengono attaccate per i loro sforzi di effettiva de-segregazione e persino i siti web del governo vengono ripuliti dai riferimenti a donne e minoranze razziali.
Dagli anni Sessanta, il liberalismo razziale è stato forse la componente centrale che ha legittimato la vita costituzionale americana. Per molti americani, bianchi e non bianchi, lo sradicamento legale della segregazione è stata la prova definitiva della promessa egualitaria di fondo del Paese. Sentenze come quella della causa Brown contro il Board of Education, che nel 1954 dichiarò che il principio “separati ma uguali” era intrinsecamente iniquo, convinsero sia le élite che l'opinione pubblica che le istituzioni statunitensi, in primis la Corte Suprema, potevano guidare la barca verso il progresso. All'estero, questi stessi cambiamenti furono utilizzati per sottolineare la differenza tra l'egemonia americana e il vecchio dominio razziale europeo, e quindi la validità della leadership statunitense su un mondo in gran parte non bianco. L'attacco di Trump all'USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale creata per contrastare l'influenza dell'Unione Sovietica nel mondo ndt) è significativo in questo contesto, perché l'agenzia era un'istituzione fondamentale della Guerra Fredda, fondata nel 1961, che collegava la storia interna americana del progresso razziale a una storia globale di prosperità materiale per tutti guidata dagli Stati Uniti. La sua distruzione, insieme alla minaccia di ritiro dagli organismi multilaterali che gli stessi Stati Uniti hanno istituito, è una sfida diretta al volto globale del progetto costituzionale americano.
Tutto ciò rende chiaro che non è solo il liberalismo razziale ad essere sotto attacco. I funzionari di Trump stanno scatenando il potere presidenziale in modi che sfruttano le tensioni interne dell'ordine per far crollare le disposizioni costituzionali fondamentali. Lo possiamo vedere con gli sforzi di Trump di trattenere fondi, rimuovere autorizzazioni di sicurezza, vietare discorsi “pro-diversità” o deportare e potenzialmente perseguire individui per protesta. Naturalmente, lo stesso ordine della metà del XX secolo è sempre stato caratterizzato da tattiche maccartiste e dal mancato rispetto di ideali inclusivi, sia attraverso l'internamento dei giapponesi che attraverso le violazioni dei diritti durante la “guerra al terrorismo”. Eppure, dopo la fine della paura rossa degli anni '50, il maccartismo, come progetto per alimentare la paura generalizzata, fu trattato dalle élite politiche come essenzialmente “antiamericano” e incostituzionale.
Tali pratiche repressive non sono mai scomparse, ma erano tipicamente limitate a gruppi sfavoriti relativamente contenuti, come i neri radicali o i critici arabi e musulmani della politica estera statunitense (in particolare quelli di origine palestinese). In questo modo, il sostegno di Biden alla repressione delle proteste contro la guerra a Gaza era in linea con questa storia movimentata del periodo post-Red Scare. Al contrario, l'amministrazione Trump, aiutata dalle disposizioni di sicurezza inattive dell'era McCarthy e persino del 1790, ha iniziato a utilizzare l'attivismo legato alla Palestina per perseguire una repressione radicale della libertà di parola dei non cittadini. Inoltre, sta trattando quell'attivismo, così come i programmi di studio dei campus e le pratiche istituzionali relative al “DEI”, come pretesti per un attacco senza precedenti all'autogoverno interno e alla libertà accademica delle università. Questo assalto fa parte di un attacco emergente alla più ampia vita organizzativa del centro e della sinistra americana, che ora prende di mira gli studi legali allineati ai democratici e che potrebbe presto includere gruppi della società civile e piattaforme di raccolta fondi.
L'uso del potere presidenziale unilaterale da parte dei funzionari di Trump per smantellare lo stato amministrativo, potenzialmente insieme alle principali conquiste del welfare sociale della metà del XX secolo, funziona in modo simile. Spinge verso l'instabilità nel rapporto costituzionale stabilito tra capitalismo e regolamentazione, potere presidenziale e potere giudiziario, in modi che rendono sempre più impossibile il mantenimento del vecchio ordine. La politica costituzionale americana ha sempre mostrato un dualismo classico. Il patto della metà del secolo era definito sia da una Corte Suprema imperiale che da una presidenza imperiale. In effetti, l'impegno condiviso dell'élite per il dominio globale americano significava che i tribunali si sottomettevano al presidente in materia di sicurezza nazionale, consentendo ai presidenti di godere di un'autorità notevolmente coercitiva all'estero o al confine e di operare in ambito estero come legislatori quasi incontrollati.
Tale deferenza era il prodotto di una serie di decisioni giudiziarie risalenti alla seconda guerra mondiale e alla guerra fredda, in cui i giudici si astennero in gran parte dall'interrogare le pratiche di sicurezza, come le deportazioni comuniste o l'inizio della guerra del Vietnam. Ciò non significava che i tribunali non controllassero mai l'azione esecutiva negli affari esteri, ma significava che quei momenti di costrizione operavano in un contesto di permissivismo generale. Questa deferenza “là fuori” si combinava con l'esercizio da parte dei tribunali di ampi controlli su questioni considerate interne, al punto che la magistratura federale fungeva effettivamente da organo decisionale le cui decisioni finali nei confronti degli altri rami del governo venivano accettate senza discutere. Questo equilibrio persisteva perché sia i tribunali che i presidenti accettavano in gran parte quella divisione di base tra estero e interno.
Ma man mano che la magistratura federale statunitense diventava sempre più conservatrice, il rapporto tra presidenza e magistratura assumeva una nuova dimensione. I tribunali nazionali iniziarono a utilizzare l'ampia autorità politica per ridurre la regolamentazione economica, e lo fecero ampliando il potere presidenziale anche a livello nazionale. Per decenni, gli avvocati conservatori hanno sviluppato argomentazioni legali sul perché le agenzie create per legge rappresentassero una minaccia per un “esecutivo unitario”, ovvero l'autorità interna del presidente di decidere cosa accade all'interno del ramo esecutivo, indipendentemente dalle direttive legislative. Le recenti decisioni dei tribunali potrebbero non aver smantellato le agenzie istituite. Ma hanno fatto due cose contemporaneamente: hanno dato ai giudici più autorità sui processi e sulle decisioni delle agenzie, minando i risultati normativi di lunga data. E hanno messo in discussione la possibilità che una legislazione in stile New Deal possa limitare il potere presidenziale unilaterale sulla funzione pubblica. In effetti, la giurisprudenza conservatrice stava minando silenziosamente le fondamenta dello stato amministrativo della metà del secolo, dando ai giudici di destra un maggiore potere di indebolire le agenzie e ai futuri presidenti di destra un maggiore potere di fare lo stesso.
E così, proprio come in altri ambiti, gli ordini esecutivi di Trump, che smantellano unilateralmente le istituzioni federali a prescindere dalla legge del Congresso o dalle ingiunzioni dei tribunali, sfruttano le instabilità presenti nel sistema costituzionale. Come quelli intorno a Trump ben sanno, una volta che le agenzie vengono chiuse, il personale licenziato e gli edifici venduti, sarà estremamente difficile ricostituire il precedente quadro amministrativo. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da attacchi giudiziari conservatori di poco conto alle agenzie federali, aiutati dall'applicazione frammentaria delle teorie del potere esecutivo. Ora, Trump e il suo team stanno correndo con quelle teorie, applicando la mazza di un presidente imperiale senza freni – familiare dagli interventi all'estero – al funzionamento di routine della politica interna. Questo è l'autoritarismo globale che arriva a casa.
Aziz Rana è professore di diritto alla Boston College Law School. I suoi studi si concentrano sul diritto costituzionale americano e sullo sviluppo politico. In particolare, analizza come le mutevoli nozioni di razza, cittadinanza e impero abbiano plasmato l'identità giuridica e politica fin dalla sua fondazione. Nel libro The Two Faces of American Freedom (Harvard University Press), colloca l'esperienza americana all'interno della storia globale del colonialismo, esaminando il rapporto intrecciato nella pratica costituzionale americana tra le interpretazioni interne della libertà e i progetti esterni di potere ed espansione. Il libro di prossima uscita, The Constitutional Bind: How Americans Came to Idolize a Document that Fails Them (University of Chicago Press, 2024), esplora l'emergere moderno della venerazione costituzionale nel XX secolo, soprattutto sullo sfondo della crescente autorità globale americana, e come tale venerazione abbia influenzato i confini della politica popolare.