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- Tom Hazeldine
- 27 giu
- Tempo di lettura: 11 min
Aggiornamento: 29 giu
Hugh Roberts, la storia e la politica araba nel cuore

Il saggio ricorda la figura di Hugh Roberts, uno dei più acuti studiosi della politica araba contemporanea, scomparso nel 2023. Tracciando la sua biografia intellettuale e politica, Tom Hazeldine ne evidenzia l’approccio critico, indipendente e profondamente anti-conformista, dalla militanza nella Ernest Bevin Society alla critica radicale delle politiche occidentali in Medio Oriente. Dopo un legame iniziale quasi casuale con l’Algeria, Roberts si è dedicato a una lunga ricerca sulla Cabilia e sull’eredità politica berbera, sfidando paradigmi accademici dominanti. I suoi interventi sulla Primavera araba, raccolti nell’ultimo libro Loved Egyptian Night (2024), offrono una lettura lucida e disillusa delle rivolte in Egitto, Libia e Siria, viste come movimenti rivoluzionari incompiuti, ostacolati dall’intervento esterno e da strutture di potere locali. Il saggio ne celebra l’eredità intellettuale, il rigore analitico e la fedeltà al principio gramsciano secondo cui <<la verità è rivoluzionaria>>. Questo articolo è apparso su «Sidecar», la rivista di «New Left Review». Pubblichiamo per concessione dell'editore.
Con la morte di Hugh Roberts, il mondo ha perso uno dei massimi studiosi della politica e della storia araba contemporanea. Il suo ultimo libro, Loved Egyptian Night (2024) – una retrospettiva sulle rivolte della Primavera araba in Egitto, Libia e Siria – mostrava la lucidità adamantina che ha caratterizzato il suo lavoro: «Se la politica – nel senso della pratica politica – è, come dichiarava Bismarck, un'arte e non una scienza, lo studio della politica deve essere una branca della critica», esordiva. Quindi, si richiedeva che fosse intellettualmente rigorosa e indipendente. A suo avviso, i commenti sulla politica internazionale somigliavano troppo spesso ad un coro. E Roberts non aveva tempo per i cori.
Nato nel 1950 in una famiglia laburista di Hull, figlio di un docente universitario, si trasferì con la famiglia nel Middlesex e frequentò la St Paul's School come borsista. Poi, dopo un anno sabbatico a Parigi presso la rivista L'Express, che gli permise di imparare il francese, andò a Oxford, sempre con una borsa di studio. L'approccio di Hugh al mondo arabo fu quasi casuale. La sorella maggiore Ceridwen ottenne di recarsi in Algeria per una ricerca sulla gestione industriale cooperativa. Si ammalò e chiese se il fratello fosse potuto andare al suo posto. Erano i primi anni Settanta e fu l'inizio di un legame che sarebbe durato tutta la vita. Per la tesi di dottorato Roberts aveva progettato di studiare la rivoluzione agraria intrapresa dal regime di Boumédienne; si poi appassionò allo sviluppo politico della ribelle regione della Cabilia – nelle montagne del Tell Atlas e iniziò a indagare le relazioni tra le popolazioni berbere ed i conterranei di lingua araba. Roberts vi individuò la sopravvivenza di istituzioni politiche pre-coloniali, il che lo portò a mettere in discussione l'applicabilità locale del modello di Ernest Gellner in Saints of the Atlas (1969) di un «popolo senza governo». Trascorse un anno insegnando inglese a Bouïra, all'estremità meridionale della regione, ottanta miglia a sud-est di Algeri, e un altro anno conducendo ricerche sul campo durante le lunghe vacanze universitarie.
Ai Kabyles – cruciali nel Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) durante la guerra – Roberts, che ne ammirava la chiarezza strategica nella lotta armata contro il colonialismo francese (1954-1962), dedica le parole a seguire.
«[…] abbandonando l'agitazione nel quadro della legalità francese perché ritenuta inutile e dichiarando invece guerra alla Francia, il FLN dava prova di un realismo spietato, traendo insegnamento dalle ripetute delusioni, riconoscendo che si trattava di un vicolo cieco e ri-posizionandosi su un terreno molto diverso, quello della guerriglia, il maquis o, come lo chiamano gli algerini, al-jebel («la montagna»). In questo modo, i fondatori del FLN rivoluzionarono la loro prassi e se stessi, trasformando il nazionalismo algerino da movimento rivendicativo a movimento che creava fatti, e i suoi attivisti da supplicanti ad agenti di liberazione».
Posizione, questa, in contrasto con la politica laburista di Roberts nel proprio paese, dove era membro della Ernest Bevin Society, un'emanazione del marxismo anglo-irlandese filo-unionista che prendeva il nome, in onore retrospettivo, dal Ministro degli esteri di Attlee durante la Guerra Fredda. Roberts esaltava quella che considerava il pragmatismo, la forza e i valori della classe operaia di Bevin. Ne discutemmo a pranzo a Soho, dove ci incontrammo nel 2022 mentre stavo curando Loved Egyptian Night. Era un punto su cui dissentivamo, educatamente ma con fermezza. Kenneth Morgan, che non era certo un à outrance di sinistra, aveva da tempo richiamato l'attenzione – in Labour in Power (1984) – sull'anticomunismo grossolano di Bevin, che – «cupamente soddisfatto» dal discorso di Churchill a Fulton – era un uomo dalle «opinioni forti ma senza grandi riserve di conoscenza». «Istintivamente impegnato» nell'intervento militare britannico in Medio Oriente, il suo atteggiamento nei confronti del mondo coloniale era «praticamente indistinguibile da quello delle amministrazioni conservatrici o imperialiste del passato». D'altra parte, Roberts vedeva chiaramente attraverso le banalità mediatiche di Kinnock. Più tardi, scrivendo su Prospect verso la fine del mandato di Blair nel 2006, critica aspramente il New Labour definendolo «un guscio vuoto, svuotato, disorientato, compromesso, corrotto, abbandonato nella disperazione e nel disgusto». Mi disse che un vero partito teneva le grandi truppe sulle ali e si lanciava al centro per la battaglia, non per la triangolazione.
Quello fu il nostro unico incontro. Roberts aveva opinioni salde eppure uno slancio curioso, e la conversazione fu molto ampia, pronta ad intraprendere qualsiasi direzione. Disse che scriveva racconti per svago e mi diede un'idea del suo background. Il primo incarico da insegnante lo ebbe alla School of Development Studies dell'Università dell'East Anglia dal 1976 al 1988. Aveva legami familiari con King's Lynn e il nord-ovest del Norfolk e un affetto duraturo per quei luoghi, ma trovava la vita universitaria a Norwich opprimente. Come scrisse in seguito:
«Non riuscivo a impedirmi di pensare in termini politici alle materie della mia ricerca accademica, e non ero disposto a limitare il mio pensiero o i miei scritti ai parametri mentali e ai protocolli terminologici di nessuna delle scuole di pensiero esistenti che avevo incontrato nel mondo accademico. Di conseguenza, ho scoperto che era molto difficile pubblicare i miei pensieri in forma accademica e che le mie prospettive di una carriera accademica soddisfacente erano nulle. Quando mi sono reso conto che era così, ho lasciato l'insegnamento e sono andato alla scoperta del mondo».
Prima a Londra come scrittore freelance e consulente per la BP – colosso del petrolio – , quindi curatore della rivista Labour and Trade Union Review della Bevin Society, seguì da vicino la crisi in Algeria, dove fece ritorno numerose volte dal 1992, pubblicando le riflessioni su quegli sguardi ravvicinati in diverse testate.
Poco dopo l'11 settembre, Tariq Ali ha commissionato a Hugh un libro per i tipi della Verso durante una cena a Il Cairo. The Battlefield (2003) – sottotitolato Studies in a Broken Polity – raccoglie i suoi puntuali scritti sull'Algeria per International Affairs, Middle East International, Times Literary Supplement, tra gli altri, dalle rivolte del 1988 scatenate dalle misure di liberalizzazione capitalista di Bendjedid fino alle elezioni legislative del maggio 2002, quando il FLN ha riconquistato il primato. Roberts rifiutava di classificare questo «terribile dramma» come«guerra civile», poiché non erano emersi nuclei opposti nella costruzione di una forma di governo. Lo definiva piuttosto una «tracimazione» di conflitti tra fazioni distorta dai poteri forti coloniali, a seguito dell'esaurimento intellettuale del FLN, del crollo del nazionalismo come forza politica organizzata e della sua eclissi da parte dell'islamismo. Né una democrazia tantomeno un governo all’insegna della legalità sarebbero stati imposti dall'esterno, ha insistito. «La pressione esterna è servita solo a indurre le autorità algerine a fare bella figura o a concedere ulteriori concessioni sul fronte economico».
Tornato alla vita accademica nel 1997 come ricercatore senior presso la London School of Economics and Political Science (LSE), quattro anni dopo si trasferisce a Il Cairo occupandosi di public advocacy come direttore per il Nord Africa dell'International Crisis Group (ICG), una ong atlantista per la «prevenzione dei conflitti». Il suo primo briefing per il Crisis Group valutava la Primavera nera in Cabilia, un enorme movimento di protesta scatenato dalla brutalità della Gendarmeria nazionale algerina nella peggiore repressione dall'indipendenza. Il rapporto formulava una ventina di raccomandazioni, di cui solo un paio erano rivolte a una potenza esterna, l'Unione Europea. L'onere di trovare l'immaginazione e la determinazione necessarie per risolvere i propri problemi doveva ricadere sulle forze politiche algerine.
In privato Roberts era molto critico nei confronti dell'ICG, che a volte sosteneva le operazioni militari offensive degli USA, a partire dalla Jugoslavia negli anni Novanta. Nel 2007 si risolve infatti a rimettere l’incarico dedicandosi nuovamente alle ricerche sulla storia della Cabilia. Quattro anni dopo, con l'accelerazione della Primavera araba, torna brevemente nell'ICG ponendo la condizione che non avrebbe raccomandato un intervento militare occidentale in Nord Africa. Ben Ali fugge da Tunisi il 14 gennaio 2011 e Mubarak è costretto a dimettersi l'11 febbraio, accelerando l’escalation dei disordini contro Gheddafi a Bengasi. (Per quanto riguarda l'Algeria a ovest, Roberts ipotizza che le prime proteste di piazza siano state istigate dall’intelligence di regime «per farle sgonfiare al momento giusto»). Il 22 febbraio viene licenziato il dossier Riflessioni sulla crisi libica – per uso interno alla ong:
«1. Ieri è stato il mio primo giorno di ritorno al lavoro come direttore del progetto Nord Africa. Ho avuto molto da fare, da qui la mia lentezza nel reagire alla situazione libica. Ora mi sento come se stessi guardando un treno in corsa. Potrebbe essere troppo tardi per me per convincere l'ICG a fermarsi prima di agire, ma ci proverò.
2. Con le notizie delle violenze in Libia, e in particolare della risposta repressiva del regime alle proteste, i colleghi sembrano molto agitati, il che è naturale. Ma l'agitazione – e l'orrore è ovviamente una forma di agitazione – non è uno stato d'animo che favorisce decisioni politiche sagge. Condivido la lamentela di Rob [Malley] riguardo alla «cacofonia».
3. Sia all'interno che all'esterno dell'ICG sembra esserci un forte sostegno a favore di un intervento internazionale serio e di tipo più pesante, che comporti una violazione piuttosto esplicita della sovranità nazionale libica (ad esempio, zone di interdizione al volo) per ragioni essenzialmente (o almeno dichiaratamente) umanitarie. Prima che l'ICG si schieri apertamente a favore di questa posizione, suggerisco di riflettere un attimo sul risultato che desideriamo ottenere e che è realisticamente possibile ottenere con la politica, sulla base delle informazioni affidabili (e non di quelle inaffidabili) a nostra disposizione.»
Sebbene abbia tratto energia dalle rivolte nei vicini Tunisia ed Egitto, l'ondata di proteste in Libia si è «scagliata contro uno scoglio di tutt'altro tipo». Il regime del Colonnello era una struttura personalista e improvvisata, nettamente diversa dallo stato-esercito egiziano, non riducibile al mandato di Mubarak. «La minaccia di Mubarak «o me o il caos» poteva essere considerata un bluff – osserva Roberts – ma c'è un pericolo molto reale che la Libia precipiti in un caos reale, prolungato ed estremamente violento se il regime di Gheddafi cade in questo momento». Profetico. Sarkozy e Cameron hanno sostenuto con entusiasmo la guerra di bombardamenti della NATO contro la Libia, rovesciando Gheddafi – catturato e ucciso il 20 ottobre – consegnando il paese all'anarchia dei signori della guerra e delle milizie. Roberts ha scritto un memorabile articolo e un'esposizione storica per la London Review of Books. «Quindi Gheddafi è morto e la NATO ha combattuto una guerra in Nord Africa per la prima volta dal 1962, quando il FLN sconfisse la Francia – esordisce, chiedendo provocatoriamente – cosa ha ottenuto la Libia in cambio di tutta la morte e la distruzione che le sono state inflitte negli ultimi sette mesi e mezzo?».
Sempre per la LRB, riconosce ai giovani dietro le prime proteste a Tahrir uno stato di «rivoluzionari nello spirito». Tuttavia, la destituzione di Mubarak recava i segni di un rimpasto militare, non di un rovesciamento rivoluzionario. Che la politica egiziana fosse ancora vincolata alla logica dello stato dei Liberi Ufficiali – istituito nel 1952 – è stato chiarito dal golpe del generale Abdel Fattah al-Sisi contro il successore eletto di Mubarak, Mohamed Morsi dei Fratelli Musulmani, il 3 luglio 2013. Roberts ha poi affrontato la guerra civile per procura in Siria, «terminale della Primavera araba», criticando aspramente il Segretario di Stato Clinton e i suoi tirapiedi europei per aver cercato di riciclare a Damasco la politica di cambio di regime già attuata in Libia, chiudendo la porta a qualsiasi tentativo di negoziare una soluzione prima che il Paese fosse in gran parte distrutto: «La politica occidentale è stata una vergogna e il contributo della Gran Bretagna dovrebbe essere motivo di vergogna nazionale».
Alla fine del 2011 Roberts lascia l'ICG un’ultima volta per assumere una cattedra alla Tufts University. Nel 2014 sono stati pubblicati due libri, Berber Government: The Kabyle Polity in Pre-Colonial Algeria e Algérie-Kabylie, études et interventions. Il primo costituisce un ampliamento della sua ricerca di dottorato, che cercava di cogliere i meccanismi interni della politica cabila nel tardo periodo ottomano. Il secondo è una raccolta di saggi che coprono il periodo dal 1994 al 2010, molti già editi per la rivista algerina Insaniyat, insieme a interviste, conferenze e riflessioni su Gellner e Bourdieu. Nel 2021, prossimo alla pensione, è pronto a rileggere la Primavera araba a dieci anni di distanza – «Il gufo di Minerva vola al tramonto» – offrendone alla Verso il progetto di indagini approfondite su due momenti cruciali, Tahrir Square nel gennaio-febbraio 2011 e Bengasi nel febbraio-marzo. Voleva inoltre rivedere criticamente il lavoro di altri commentatori, tra cui Marc Lynch a Washington, Gilbert Achcar a Londra e Jean-Pierre Filiu a Parigi.
Cos’era stata la Primavera araba? Il movimento di protesta tunisino si era configurato come una rivoluzione, perché aveva superato il quadro politico-costituzionale del regime autoritario tracciando una via verso la democrazia. Oltre le somiglianze formali, secondo Roberts le rivolte in Egitto, Libia e Siria non hanno superato l’adolescenza della rivolta, nonostante l’enorme simpatia riconosciuta ai manifestanti e la sincera ammirazione del loro coraggio. Un fattore decisivo è stato il fatto che in ciascuno di questi casi attori esterni hanno influenzato il corso degli eventi. L'amministrazione Obama ha sollecitato la destituzione sommaria di Mubarak, abbandonando l’alleato quando il gioco sembrava ormai finito, senza mostrare alcun interesse a facilitare una transizione democratica. Era ridicolo aspettarsi che le potenze occidentali sponsorizzassero autentiche rivoluzioni democratiche in qualsiasi parte del mondo, men che mai in Medio Oriente. «L'estrema desolazione in cui è stato ridotto il Medio Oriente arabo – sosteneva Roberts – [era la conseguenza della] neutralizzazione immediata e della sconfitta finale delle aspirazioni rivoluzionarie ovunque a est della Tunisia».
Nel 2023 torna a Londra, più vicino alla figlia Leila, complici le condizioni di salute che lo obbligano a ripetuti soggiorni ospedalieri per le cure del cancro. A parte una recensione critica sul TLS, Loved Egyptian Night è stato ignorato dalla stampa britannica all’uscita, lo scorso anno. Penso che Hugh avesse ragione nella valutazione del silenzio: «Il mio libro formula critiche estremamente severe alla politica britannica, fornendo al contempo una storia politica dettagliata e coerente di ciò che è realmente accaduto […] Ci aspettiamo davvero che ciò che resta dell'establishment britannico, sempre più disperato, apprezzi tutto questo o reagisca in modo corretto?» È perciò entusiasta per l’invito del Middle East Studies Group della LSE – di cui era membro dal 1978 – a tenere una conferenza a novembre: «sembra che qualcuno abbia visto il mio libro e voglia discuterne. È una svolta incoraggiante». La conversazione lo lasciò di buon umore, anche se poco dopo la salute peggiorò ulteriormente.
Mi scrisse «Mi rendo conto che Gaza oscura completamente le preoccupazioni persistenti sulla Primavera araba, ma la cinica realtà e la brutalità del potere occidentale in Medio Oriente, ora così pienamente smascherata, è un tema centrale del mio libro». Le conclusioni erano cupe, ma l'intelletto che le sosteneva era irriducibile. Ancora:
«Con la mia interpretazione cupa dei veri scopi e obiettivi della politica che ha effettivamente determinato i risultati, sto cercando di fare luce, non di deprimere, e di salvare ciò che può essere salvato. Il motto di Gramsci, «la verità è rivoluzionaria», è stato il mio motto in tutto ciò che ho scritto per molti anni».
Stava scrivendo di Gaza quando è mancato.
Tom Hazeldine è editor presso la testata «New Left Review», dove tiene inoltre una rubrica per il blog «Sidecar». Scrive per «The Guardian», «Red Pepper» e «Tribune».