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  • Immagine del redattore: Alessandro Stella
    Alessandro Stella
  • 13 giu
  • Tempo di lettura: 9 min

Indifendibili

Sull’onda degli attacchi al sistema carcerario firmati Difesa dei Diritti dei Prigionieri Francesi

Thomas Berra
Thomas Berra

Pubblichiamo un testo di Alessandro Stella pubblicato lo scorso 13 maggio sulla rivista francese «lundimatin». Si ringrazia l’autore e la testata. Il mese scorso, un’ondata di azioni ha preso di mira il sistema carcerario francese. Ogni volta, sulla scena è stato rinvenuto l’acronimo DDPF (Difesa dei Diritti dei Prigionieri Francesi). Contemporaneamente, un canale Telegram ha rivendicato la responsabilità di questa campagna e ne ha spiegato le rivendicazioni: il rispetto dei diritti dei detenuti, descritti come sistematicamente violati. Lo storico Alessandro Stella torna su questa vicenda per ricontestualizzarla sia nel momento politico attuale sia, più in generale, nella storia del «traffico di droga» e della politica penale che ha cercato di reprimerlo in tutto il mondo a partire dagli anni Sessanta. Stella sottolinea inoltre la mancanza di sostegno ricevuto dai detenuti, nonostante per decenni la questione carceraria sia stata riconosciuta come un pilastro dell’ordine costituito.

I fatti


Scorso aprile, la stampa locale – ripresa poi nel circuito nazionale – riportava una serie di episodi di incendi ad auto di guardie carcerarie, attacchi contro le loro abitazioni, colpi esplosi sulle porte degli istituti penitenziari. Da Agen a Lione, da Tolosa a Tolone, da Grenoble a Lille, da Nanterre a Luynes: ovunque in Francia gruppi di individui hanno attaccato non solo i luoghi di detenzione ma anche agenti della Penitenziaria, in servizio o in formazione. Sui luoghi degli attacchi gli assalitori avevano scritto una sigla, DDPF – Difesa dei Diritti dei Prigionieri Francesi – . Sigla ripresa da un account Telegram, rapidamente chiuso dalle autorità, in cui si denunciavano le violenze quotidiane esercitate dai sorveglianti sui reclusi. «Questo canale è un movimento dedicato a denunciare le violazioni dei nostri diritti fondamentali dei quali il ministro Gérald Darmanin intende privarci». «Contattaci tramite messaggio privato per unirti al movimento DDPF. Unisciti al movimento».Le lettureDopo aver considerato azioni dell’ultrasinistra o ingerenze straniere (intelligence russa o algerina), agenti e procuratori hanno concluso che l’ipotesi più plausibile fosse quella del narcotraffico. Così, attraverso un’operazione su scala nazionale, il 28 aprile la polizia ha arrestato 30 persone, tra cui 21 sono state messe sotto accusa il 2 maggio, 7 già detenute. Riassumendo le conclusioni degli investigatori, «Le Monde» datato 4 maggio titolava: «Dietro gli attacchi alle prigioni, l’ombra della Mafia DZ e del narcotraffico». Il quotidiano francese riprendeva quindi le conclusioni e il registro dei dicasteri dell’interno e della giustizia: Mafia, gruppi criminali organizzati. Sottolineando peraltro che tra i 21 sospetti deferiti – di cui due donne e due minorenni – «molti, presentano profili di esecutori, piccoli pesci del traffico di droga». Inoltre, gli arrestati vivevano nelle regioni scenario degli attacchi a loro contestati. Il presunto capo della rete, committente e organizzatore degli attentati dalla sua cella di Avignone, sarebbe un certo Imran A., di 23 anni.Gli episodi sarebbero quindi stati commissionati da boss della droga incarcerati. Eseguiti da manovalanza, sicari, a volte reclutati sui social in cambio di alcune centinaia di euro. Una strategia mafiosa volta a intimidire l’amministrazione penitenziaria mentre il Ministero della giustizia si prepara a istituire prigioni speciali, ultra-sicure, destinate ad accogliere i narcotrafficanti più pericolosi.Le interpretazioni di poliziotti, giudici e giornalisti mainstream, sono convergenti. Come per la Mafia italiana, i Cartelli colombiani o messicani, anche in Francia l’economia sotterranea degli psicotropi vietati sarebbe controllata e diretta da capi, una cupola centralizzata, un deus ex machina che dall’alto della sua organizzazione piramidale muove i fili di tutte le sue ramificazioni criminali.


Narcotraffico


Il termine – ormai sfinito – rinvía a un immaginario popolato da Pablo Escobar o da El Chapo Guzmán e reso noto dalle serie Netflix sui narcos. Grandi criminali che si godono la vita in ville tropicali o in loft a Dubai. Molto patinato, in effetti. Se l’economia delle droghe illegali non differisce molto dall’economia capitalista legale, la realtà della produzione, del commercio e del consumo di queste droghe è assai più complessa.1Se i grandi esportatori e importatori sono ovviamente dei milionari (con un capitale a rischio elevato...) e la vendita all’ingrosso consente a un certo numero di soggetti di vivere comodamente, per la massa di produttori, trasformatori, corrieri e distributori al dettaglio non è che un modo per guadagnarsi da vivere. Un lavoro spesso faticoso e sempre pericoloso. Studi di sociologia e antropologia hanno ben dimostrato che la massa di contadini che coltivano cannabis in Marocco, coca in Colombia o papavero in Afghanistan sono lavoratori agricoli poveri che producono queste piante proibite solo in virtù di un miglior rapporto rispetto ad altre colture praticabili. Quanto alle migliaia di persone che si occupano quotidianamente di tutte le attività del commercio al dettaglio, si potrebbe parlare di operai a cottimo. Chi si occupa del trasporto, del confezionamento, della custodia della merce. Poi ci sono quelli che – dalla mattina alla sera dal lunedì alla domenica con bel tempo o sotto la pioggia – gestiscono un punto di spaccio, e quelli che effettuano consegne a domicilio. Oltre alle difficoltà della vedetta, questi operatori del commercio al minuto di prodotti illeciti sono quotidianamente esposti alla repressione, regolarmente oggetto di retate, sistematiche perquisizioni, vessazioni, umiliazioni – a volte di fermi e detenzione –.Bisognerebbe ridimensionare l’entità del traffico di sostanze, troppo spesso presentato come un mercato dai profitti giganteschi. Dati alla mano, i servizi dello Stato stimano che il fatturato annuale delle droghe illegali in Francia sia dell’ordine di 3 miliardi di euro. Quanto la Coca Cola, legale e dannosa per la salute più di alcune sostanze illegali. Quanto la Française des jeux [l’impresa che detiene il monopolio delle lotterie e delle scommesse sul territorio francese, N.d.T.] – temibile, illusoria, capace di indurre a dipendenza e rovina.

Ancora, un fatturato ben inferiore a quello del tabacco – 20 miliardi – e del vino – 90 miliardi – : alla fine di una giornata di lavoro ci sono molti più soldi nella cassa di un bar-tabac che nelle tasche dei gestori di un «forno» [punto fisso di spaccio] di quartiere. Il confronto più pertinente sarebbe con il fatturato delle grandi aziende farmaceutiche, che producono e commercializzano le droghe legali. Il caso più emblematico è certamente quello dell’americana Purdue Pharma, di proprietà della famiglia Sackler. Al culmine della propria ascesa, nel 2017, aveva raggiunto un fatturato annuale di 35 miliardi di dollari in particolare grazie alla vendita di oppioidi, tra cui l’OxyContin, destinato da terapia ai malati di cancro in fase terminale. Il forte marketing ha tuttavia fatto esplodere le prescrizioni mediche per ogni tipo di dolore, provocando negli Usa, tra il 1999 e il 2022, circa 700.000 morti per overdose. Inseguita da migliaia di cause penali, nel gennaio 2025 la famiglia Sackler ha concluso un accordo con il tribunale per il pagamento di 7,4 miliardi di dollari di indennizzi alle famiglie delle vittime.


Guerra ai narco o guerra ai neri?


Fino agli anni Sessanta, il consumo e il commercio di cannabis, coca, oppio e altre piante psicotrope facevano parte delle culture locali, tradizionali, consuetudinarie e ancestrali. Come vino e alcol in Occidente, cannabis, coca, oppio – e funghi psilocibi, peyotl, ayahuasca, betel, iboga, quât, amanita muscaria, et cœtera – sono stati considerati come «aiuti» nella vita. «Cacciatori di preoccupazioni», per dirla con Freud, medicine per il corpo e per l’anima. Nonostante la consapevolezza dei possibili pericoli del consumo di psicotropi, in tutto il mondo le popolazioni si erano adattate e avevano imparato a convivere con le droghe. La proibizione delle droghe de «l’Altro» era iniziata con un editto della Santa Inquisizione nel Messico del 1621, che vietava il peyotl e altre piante magiche. Poi oggetto di decreti imperiali in Cina nei secoli XVIII e XIX – stavolta contro l’oppio – senza grandi conseguenze. Dopo le cosiddette «guerre dell’oppio» (1839-1856), che opponevano le potenze occidentali al Celeste Impero per il controllo del mercato orientale, a cavallo della Prima guerra mondiale, vennero le leggi di proibizione del commercio illegale di alcol (negli Usa) e di oppio (in Cina), con l’eccezione della quota parte per usi farmaceutici.

Fino agli anni Settanta, la repressione del consumo e dei consumatori non aveva una posizione prioritaria nelle agende politiche degli Stati. I consumatori problematici venivano guardati con una certa benevolenza, a volte assistiti da associazioni caritatevoli o da relazioni di prossimità. È a partire dalla legge promulgata dal presidente Nixon – il 31 dicembre 1970, seguita subito dalle altre nazioni occidentali – che si abbatte la grande repressione.

 Perché? Dichiarando la droga come il principale nemico della nazione e dando la caccia a trafficanti e tossici, il governo americano dichiarava guerra sia alle minoranze razziali – neri e ispanici – che alla generazione hippie. Pericolosi per lo spirito WASP, suprematista e virile. Da cinquant’anni la guerra agli stupefacenti ha provocato centinaia di migliaia di morti in tutto il mondo, in America Latina in particolare, in scontri tra poliziotti, militari, trafficanti e bande rivali, senza contare gli innocenti. Molto più delle morti per overdose da ero o altre sostanze. Senza però mettere fine al commercio né ridurre la domanda. Al contrario, il consumo di psicotropi illeciti è esploso negli ultimi decenni, quanto il relativo sanzionamento con pene capitali – come in Cina, Iran, Arabia Saudita, Usa e altrove2 – ed esecuzioni sommarie: nelle Filippine di Duterte o nelle favelas di Rio. Di temibili criminali responsabili di omicidi e atrocità, oltre che di traffico di stupefacenti? Sì, anche, ma costituisce una minoranza dei reclusi. Il resto sono pedoni, lavoratori a rischio in questa economia sotterranea; delinquenti, forse, ma non criminali. Condannati a pene severe, spesso sovradimensionate rispetto all’entità dei reati.3


Qual è il profilo dei condannati per traffico di stupefacenti?


Lo studio condotto da Michelle Alexander sulla popolazione carceraria negli Stati Uniti ha concluso che la guerra alla droga è una guerra razziale e sociale. Su 31 milioni di persone detenute negli States dagli anni Ottanta alla prima decade degli anni Duemila gli afroamericani e gli ispanici rappresentano la maggioranza. In Francia, dove i condannati per traffico di droga costituiscono circa il 20% dei detenuti, anche se le statistiche su base etnica sono vietate possiamo fondarci sulle origini geografiche dei prigionieri. In gran parte provengono dalle periferie di Sevran, Aulnay, Nanterre, Champigny, Bagneux, Créteil, per l'Île de France. Per Marsiglia, Grenoble, Tolosa, Lione l’esito è lo stesso: provengono da quartieri fondamentalmente neri e arabi.


Chi difende gli indifendibili?


Alla luce di queste evidenze plateali, certo in contrasto con tanti fantasmi sul mostro moderno chiamato «narcotraffico», possiamo riesaminare il fenomeno degli attacchi contro l’amministrazione penitenziaria. Appare chiaro che coloro che si scagliano contro i secondini sono solidali coi detenuti. Portatori di un messaggio semplice: «i nostri amici in prigione non sono soli, ci sono persone fuori che li sostengono e cercano di aiutarli».Come spiegare allora il silenzio dei social, di norma attestati contro le violenze di Stato? Perché né i siti dell’ultrasinistra, né i comitati contro le violenze poliziesche, né legali ovvero associazioni a tutela dei diritti dei prigionieri (OIP, LDH) sono intervenuti? Perché i trafficanti sarebbero indifendibili? Perché l’alcool è socialmente ammissibile e le sostanze no?Anche i familiari delle vittime delle violenze di Stato non osano mettere in discussione il pregiudizio della polizia: «già noto negativamente ai servizi di polizia per traffico di stupefacenti». Che giustifica la repressione più brutale, fino all’omicidio. Perché spacciare è vergognoso, indifendibile: «La droga è spazzatura, i trafficanti sono venditori di veleni, senza scrupoli, che intossicano i ragazzi». Dei criminali senza appello, contro i quali si dà carta bianca alle forze di polizia per fermarli a tutti i costi.Difendere i «tossici», gli «spaccia» – soprattutto quando si ribellano e affrontano i poteri istituzionali – sembra ancora una battaglia inconcepibile, tanto la stigmatizzazione e la criminalizzazione hanno imposto un pensiero dominante e non suscettibile di messa in discussione. I solidali che hanno cercato di avviare un movimento a difesa dei diritti dei reclusi hanno osato questa sfida. Sotto un logo che dice molto – DDPF, Difesa dei Diritti dei Prigionieri Francesi –. Come un appello un po’ naïf allo stato di garanzia, al rispetto dei detenuti, ponendo l’accento sul fatto che si tratti di connazionali, di francesi, non di stranieri. Come il Comitato Adama e altri collettivi di tutela contro gli abusi di polizia, chiedono di essere trattati come cittadini francesi, a pieno titolo. Non discriminati, razzializzati, inferiorizzati.  Una questione di dignità. Anzitutto. Di rispetto, semplicemente.Azioni chiare, esemplari, riproducibili attorno a tutti gli istituti di pena. Auto-organizzate da gruppi locali. Azioni politiche, diciamolo. Con l’intenzione – come chiarito dal primo comunicato – di creare un movimento.

Note

[1] Mi permetto di rinviare all’opera collettiva dal mio seminario (2015-2021) all’EHESS: A. Stella e A. Coppel (a cura di), Vivre avec les drogues, Paris, L’Harmattan, 2021 (edizione inglese: Living with Drugs, Londra, ISTE, 2020).

[2] Secondo l’associazione Ensemble contre la peine de mort, probabilmente metà dei giustiziati al mondo sono condannati per traffico di droga.

[3] M. Alexander, La couleur de la justice. Incarcération de masse et nouvelle ségrégation raciale aux Etats-Unis, Paris, Syllepse, 2017 (prima edizione negli Usa nel 2010).

Alessandro Stella è stato membro di Potere operario e poi dell’Autonomia. Rifugiatosi in Francia all’inizio degli anni Ottanta, è oggi direttore di ricerca in Antropologia storica presso il CNRS e insegna all’EHESS di Parigi. Tra i suoi libri: La Révolte des Ciompi (1993); Histoires d’esclaves dans la péninsule ibérique (2000); Amours et désamours à Cadix.

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