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- Thomas Deltombe

- 3 giorni fa
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La guerra segreta della Francia in Camerun

Le potenze coloniali occidentali sono incapaci di concepire un mondo non coloniale, il che significa in realtà che sono talmente impegnate nel mantenimento del capitalismo come sistema storico da arrivare a distruggere ogni equilibrio politico, ecosistemico e produttivo in grado di salvare la civiltà umana dalla catastrofe del suo dominio di classe.
Proponiamo un'intervista condotta apparsa su «Sidecar», il blog della «New Left Review» pubblicata con l’espresso consenso del suo editore a Thomas Deltombe uno degli autori del libro pubblicato originariamente da La Découverte, La guerre du Cameroun: L’invention de la Françafrique (1948-1971) (2016), e recentemente ripubblicato in un’edizione aggiornata da Verso Books con il titolo The Cameroon War: A History of French Neocolonialism in Africa (2025)
La guerra in Camerun ebbe inizio nei primi anni ‘50 con l’ascesa dell’Union des Populations du Cameroun (UPC), un movimento nazionalista che chiedeva l’indipendenza e la riunificazione dei territori sotto mandato francese e britannico. Parigi rispose con una repressione che si intensificò fino a diventare una lunga guerra di controinsurrezione a partire dal 1955, utilizzando metodi già impiegati in altri conflitti coloniali: internamenti di massa, punizioni collettive, bombardamenti aerei sui villaggi e omicidi selettivi. Quando fu dichiarata ufficialmente l’indipendenza nel 1960, la Francia insediò come presidente Ahmadou Ahidjo, un politico conservatore proveniente dal nord del paese, mentre continuavano, fino all’inizio degli anni ’70, le operazioni militari contro l’UPC. Lo Stato a partito unico di Ahidjo, sostenuto da consiglieri e servizi segreti francesi, schiacciò l’opposizione e costruì un apparato clientelare fedele, fornendo una base stabile per gli interessi petroliferi e commerciali della Francia. Il suo successore, Paul Biya, al potere dal 1982, ha mantenuto lo stesso assetto neocoloniale sotto l’apparenza di un sistema multipartitico, combinando la repressione autoritaria con una liberalizzazione selettiva, garantendo così la continuità di un regime le cui origini risalivano alla violenta repressione della lotta per l’indipendenza del Camerun.
Questa guerra, eufemisticamente definita «disordini», è stata a lungo relegata ai margini della storiografia ufficiale francese. Negli ultimi anni, Thomas Deltombe, Jacob Tatsitsa e Manuel Domergue ne hanno messo in luce la portata e la ferocia, e la loro meticolosa ricostruzione della lotta armata e della sua repressione è diventata un punto di riferimento sull’argomento. Il loro libro, pubblicato originariamente da La Découverte, La guerre du Cameroun: L’invention de la Françafrique (1948-1971) (2016), è stato recentemente ripubblicato in un’edizione aggiornata da Verso Books con il titolo The Cameroon War: A History of French Neocolonialism in Africa (2025). All’inizio di questo mese, la New Left Review ha parlato con Thomas Deltombe – storico ed editore di La Découverte, nato a Nantes nel 1980 – della sua ricerca alla luce della recente pubblicazione da parte del governo francese di un rapporto sul conflitto franco-camerunese, nel contesto del tentativo di Macron di preservare l’influenza della Francia sui suoi ex possedimenti africani.
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New Left Review Per iniziare la nostra conversazione, potresti offrirci una breve panoramica del tuo percorso? Come sei arrivato a interessarti al Camerun e alla sua storia coloniale e postcoloniale?
Thomas Deltombe Il mio lavoro sulla storia coloniale e su ciò che viene comunemente definito «decolonizzazione» risale al mio primo libro, pubblicato vent’anni fa, sull’islamofobia in Francia. Il tentativo di rintracciare le radici del razzismo contemporaneo mi ha portato al passato coloniale della Francia e ben presto mi sono reso conto che gran parte di ciò che mi era stato insegnato si basava su miti e omissioni. Uno dei miti più tenaci è che le colonie subsahariane della Francia ottennero l’indipendenza in modo pacifico, attraverso un accordo bilaterale con Parigi. Si traccia così una linea di demarcazione tra la cosiddetta «Africa nera» e il Nord Africa, in particolare l’Algeria, dove l’indipendenza è stata ottenuta con la forza. Questa narrazione è durata decenni, facendo passare sotto silenzio le aspre e per lo più infruttuose lotte armate per l’indipendenza combattute nell’Africa subsahariana. Quella che oggi è conosciuta come la guerra del Camerun è forse l’esempio più eclatante di tutti, e il fatto che sia stata dimenticata è proprio ciò che mi ha spinto a studiarla.
Quando ho iniziato a lavorare su questa storia a metà degli anni 2000 insieme al giornalista Manuel Domergue e allo storico Jacob Tatsitsa, ho scoperto che il conflitto aveva lasciato poche tracce nella storiografia convenzionale. Al massimo, appariva in una nota a piè di pagina, descritto come «disordini» che erano costati alcune centinaia di vittime. Al contrario, alcuni attivisti, in particolare camerunensi, che cercavano di rompere il silenzio su questo periodo, parlavano di un «genocidio» con centinaia di migliaia di vittime. Di fronte a versioni così diverse, ci siamo proposti di stabilire con la massima chiarezza possibile cosa fosse realmente accaduto in Camerun negli anni ‘50 e ‘60. Ci siamo immersi nella bibliografia esistente, poco conosciuta o da tempo dimenticata, prodotta da militanti, giornalisti e accademici. Questi scritti sono preziosi, ma spesso sono obsoleti o si concentrano solo sulle prime fasi del conflitto. Il nostro obiettivo era ricostruire l’intera sequenza, dalla creazione dell’UPC nel 1948 fino all’esecuzione del suo ultimo leader importante, Ernest Ouandié, nel 1971. Per cinque anni abbiamo lavorato in Francia e in Camerun, ma anche in Gran Bretagna, Paesi Bassi e Svizzera, raccogliendo tutto il materiale d’archivio che siamo riusciti a trovare e registrando il maggior numero possibile di testimonianze.
La nostra conclusione, presentata in Kamerun! Une guerre cachée aux origines de la Françafrique, 1948-1971 (2011), era che la Francia aveva effettivamente combattuto una guerra in Camerun durante gli anni ‘50 e ‘60. Da qui il titolo del nostro secondo libro, La guerre du Cameroun: L’invention de la Françafrique (1948-1971) (2016), che si basava sulla nostra precedente ricerca con l’intenzione di ampliarla. La designazione «guerra» è cruciale: il termine era stato usato raramente dagli studiosi precedenti e, nel caso, solo di sfuggita. A partire dal 1955, la Francia ha impiegato in Camerun le stesse tecniche che stava utilizzando in Algeria, teorizzate con la dottrina della «guerra rivoluzionaria». Non vedevamo alcun motivo per usare la parola «guerra» in un caso e non nell’altro. Se c’è stata una guerra in Algeria, c’è stata anche in Camerun.
New Left Review Come si spiega questa discrepanza nel modo in cui oggi in Francia si ricordano entrambi i conflitti, sia nella letteratura storica che nella percezione pubblica generale?
Thomas Deltombe La prima differenza è di ordine quantitativo: la popolazione del Camerun era in numero molto inferiore a quella dell’Algeria. La seconda è di ordine qualitativo: il Camerun non era una vera e propria colonia, ma un territorio sotto la tutela dell’ONU. E anche gli esiti sono stati completamente diversi. In Algeria prevalse il movimento indipendentista, in Camerun no. A entrambi gli Stati fu concessa l’«indipendenza», ma si trattò di indipendenze di tipo molto diverso. Un’altra differenza emerge dalla cronologia dei conflitti. La guerra d’Algeria ha avuto un inizio e una fine chiari: l’insurrezione del 1° novembre 1954 e gli accordi di Evian del 19 marzo 1962. In Camerun, le cose non sono state così semplici. L’amministrazione coloniale ha progressivamente inasprito la sua posizione nei confronti dell’UPC, che a sua volta ha iniziato a pianificare e poi a lanciare la sua strategia di resistenza armata intorno al 1955-1956. Il conflitto ha raggiunto il suo apice nel momento in cui la Francia aveva concesso al Paese la sua indipendenza formale nel 1960, per poi protrarsi fino all’inizio degli anni ‘70, ma perdendo gradualmente intensità. È stata una guerra, ma una guerra non dichiarata, che non ha avuto né un inizio né una fine ufficiali.
C’è una terza differenza importante: la guerra d’Algeria ebbe ripercussioni in tutta la Francia e oltre i suoi confini; la guerra del Camerun è stata combattuta in segreto. Per comprendere questo fatto, occorre considerare la particolare situazione giuridica del Camerun. Dopo la fine della colonizzazione tedesca nella prima guerra mondiale, il territorio è stato posto sotto tutela internazionale – come la Palestina, il Togo e il Ruanda – e affidato principalmente alla Francia, con la concessione di una piccola parte alla Gran Bretagna. Queste due «potenze amministrative», come venivano chiamate, si impegnavano a rispettare determinate norme di comportamento e a riconoscere determinati diritti alla popolazione locale. In virtù della Carta delle Nazioni Unite del 1945 e degli Accordi di tutela del 1946, esse furono incaricate non solo di mantenere «l’ordine pubblico interno», ma anche di garantire «la libertà di pensiero» e di preparare il popolo del Camerun «all’autogoverno e all’indipendenza». Proprio perché la Francia non stava rispettando questi impegni internazionali, ha combattuto la guerra in segreto.
«Deve regnare il silenzio», fu l’ordine dei vertici dell’amministrazione coloniale in Camerun nel 1958. La richiesta era assolutamente cruciale, perché la Francia stava combattendo contemporaneamente la guerra in Algeria, che provocava proteste nel Paese e la censura a livello internazionale nei confronti della sedicente «patria dei diritti umani». Il silenzio è continuato anche dopo l’indipendenza del Camerun. Dopo aver insediato con la forza un «regime amico» a Yaoundé, i leader francesi non avevano alcun interesse a rendere note le operazioni militari che continuavano in un Paese ormai considerato «indipendente». Qualsiasi pubblicità avrebbe messo in evidenza l’illegittimità del regime neocoloniale. Il silenzio divenne ancora più profondo quando il nuovo regime arrivò a diventare una brutale dittatura sotto il mandato del presidente Ahmadou Ahidjo, che continuava a godere del sostegno da parte della Francia. Fino a oltre la metà degli anni ‘80, il solo fatto di menzionare i «disordini» poteva comportare l’arresto da parte della polizia politica e la scomparsa in qualche lugubre «campo di internamento amministrativo».
Il governo francese ha sostenuto attivamente questa politica di cancellazione. Quando Mongo Beti pubblicò Main basse sur le Cameroun con Maspero nel 1972, il primo libro che svelava il lato oscuro della “decolonizzazione” del Camerun, le autorità lo vietarono e lo confiscarono immediatamente. Con il passare del tempo, e con la censura ancora in vigore, la memoria dei fatti fu cancellata o rimodellata a favore dei vincitori. I veri militanti indipendentisti furono bollati come «terroristi», mentre Ahidjo fu esaltato come «padre della nazione» e devoto «democratico», una favola che la stampa francese ha sostenuto diligentemente.
Un altro fattore che ha contribuito a questo silenzio è la straordinaria indifferenza, quasi disprezzo, dell’élite francese verso ciò che accade a sud del Sahara. Il razzismo coloniale, che per decenni ha classificato «bianchi», «arabi» e «neri» in una rigida gerarchia, è ancora vivo oggi: ciò che riguarda i «bianchi» è di estrema importanza, ciò che riguarda gli «arabi» merita una certa attenzione, ciò che accade ai «neri» non ha ovviamente alcuna importanza. Questo comportamento non è esclusivo della Francia, ma questo ordine razziale, ora implicito, rimane profondamente radicato nei media francesi.
New Left Review Nel 2023 Emmanuel Macron incaricò Karine Ramondy di costituire una commissione per indagare sulla guerra del Camerun, la Commission mémoire sur le Cameroun, una delle numerose iniziative presidenziali volte a rivedere il rapporto della Francia con il suo passato coloniale. Secondo te, che contributo può dare il lavoro di tale commissione?
Thomas Deltombe Fin dall’inizio, Macron ha posto le questioni relative alla memoria al centro della sua agenda politica e diplomatica. Anche prima della sua elezione a presidente della Repubblica nel 2017, ha suscitato scalpore dichiarando alla televisione algerina che la colonizzazione era un «crimine contro l’umanità», che richiedeva «scuse» da parte della Francia. A mio avviso, l’obiettivo principale di questa dichiarazione spettacolare era quello di mostrare il proprio coraggio e la novità del suo modo di intendere le cose. All’epoca appena quarantenne, Macron ha cercato di mettere in risalto la sua giovinezza e la sua volontà di «rompere i tabù» come modo per distinguersi dagli altri candidati alla presidenza. I commentatori facevano costantemente riferimento al fatto che avesse lavorato con Paul Ricoeur a un libro dedicato proprio alle questioni della memoria. In sintesi, il candidato Macron, che affermava di trascendere la divisione esistente tra destra e sinistra, prometteva una «rottura» in questo campo come in altri.
Una volta eletto, Macron ha ammorbidito la sua posizione. In continuità con i suoi predecessori, ha cercato di utilizzare la politica della memoria come strumento di pacificazione simbolica in una società francese spesso descritta come divisa da «guerre della memoria» tra i discendenti dei coloni, gli harkis, i nazionalisti africani, gli ebrei e altri attori. Allo stesso tempo, ha cercato di trasformare la memoria in uno strumento di soft power in Africa, dove l’imperialismo francese è sempre più apertamente messo in discussione. In entrambi i contesti, nazionale e internazionale, la parola d’ordine è stata «riconciliazione». Dall’Eliseo, Macron ha cercato, attraverso commemorazioni accuratamente messe in scena, di «riconciliare» la Francia con se stessa e con i suoi partner africani. Ho descritto il coinvolgimento di storici esperti di media come parte di una strategia di «memory washing». I più importanti sono Benjamin Stora e Pascal Blanchard. Stora, specialista in relazioni franco-algerine, è stato incaricato da Macron di redigere un rapporto sul tema a seguito delle massicce proteste contro la violenza della polizia nella primavera del 2020. Blanchard, che dirige un’agenzia di comunicazione incentrata sulla memoria e lavora da tempo per clienti aziendali, ha compilato, «sotto l’alto patrocinio della presidenza della repubblica», un elenco di personaggi storici «di diversa provenienza» a cui dovrebbe essere dato maggiore risalto nella sfera pubblica. In entrambi i casi, l’obiettivo dichiarato era quello di offrire gesti simbolici ai discendenti dei colonizzati su entrambe le sponde del Mediterraneo.
La stessa logica è stata alla base delle varie commissioni create dalla presidenza della Repubblica fin dal 2017. La più nota è quella presieduta da Vincent Duclert, incaricato di esaminare il ruolo della Francia nel genocidio in Ruanda. Nel marzo 2021 il suo rapporto ha debitamente confermato che la Francia aveva «responsabilità gravi e schiaccianti» nel genocidio della popolazione tutsi, ma, soprattutto, la commissione sul genocidio in Ruanda è servita a sbloccare le relazioni franco-ruandesi dopo un quarto di secolo costellato di tensioni. Da allora, la Francia ha effettuato importanti investimenti nel Paese, mentre l’esercito ruandese proteggeva gli impianti di gas della Total in Mozambico. Come ha sottolineato lo storico statunitense Nathaniel Powell, «il rapporto Duclert, paradossalmente, è servito da copertura per l’avvicinamento francese alla sanguinaria e aggressiva dittatura insediata a Kigali».
Ben presto l’Eliseo ha compreso il vantaggio di coinvolgere gli africani in questa tipo di impresa. Da qui la decisione di Macron di reclutare lo storico camerunese Achille Mbembe per organizzare un «vertice franco-africano» a Montpellier nel 2021 e di avviare «commissioni miste», che riuniscano accademici francesi e africani. Il primo organismo congiunto di questo tipo è stata la commissione sulla guerra del Camerun che hai citato, convocata nel 2023-2024 sotto la direzione congiunta di Ramondy e del cantante camerunese Blick Bassy. Il rapporto è stato presentato nel gennaio 2025. Da allora, Macron ha annunciato la creazione di una commissione mista sulla storia franco-malgascia e un’altra sulla storia delle relazioni tra Francia e Haiti. È significativo che sia stata annunciata un’altra commissione sulla guerra d’Algeria, che alla fine è fallita a causa del deterioramento delle relazioni diplomatiche tra Parigi e Algeri.
È importante sottolineare che lo scopo di queste commissioni è più politico, diplomatico e comunicativo che accademico. Finora, le commissioni hanno apportato poco a ciò che gli specialisti già sapevano, ma hanno comunque costituito un gruppo di «esperti» che, avendo accettato di collaborare con l’Eliseo, sono obbligati a fornire sostegno mediatico e a concedere l’imprimatur della loro autorità accademica. La strategia va ancora oltre. Approfittando dei riflessi corporativisti del mondo accademico francese e del clima di paura indotto dal potere politico in una professione sempre più precaria e vulnerabile, la presidenza ha stroncato sul nascere qualsiasi sfida alla sua politica della memoria. Gli storici che si sono messi al suo servizio vengono raramente, o mai, criticati nei circoli accademici, almeno in pubblico. Al contrario, sono invitati a numerosi seminari e conferenze, dove nessuno chiede se il loro ruolo debba davvero essere quello di lavorare per l’Eliseo e stringere la mano agli autocrati africani «amichevoli» con la Francia.
L’Eliseo sta utilizzando la politica della memoria per mettere a tacere il dissenso degli africani e dei loro discendenti in Francia. Paul Max Morin e Sébastien Ledoux lo dimostrano chiaramente nel loro studio L’Algérie de Macron: Les impasses d’une politique mémorielle (2024), le cui conclusioni sono ugualmente applicabili al suo approccio verso l’Africa subsahariana. Con una manciata di «gesti» simbolici, Macron spera di frenare la crescente ondata di proteste anti-francesi verificatesi a sud del Sahara e di contrastare quelle che lui definisce «manipolazioni della memoria» effettuate dalle potenze rivali, in particolare dalla Russia. In questo senso, continua una lunga tradizione coloniale e neocoloniale, consistente nell’accettare alcune delle critiche rivolte alla Francia per neutralizzare l’opposizione antimperialista. Il suo riformismo si aggiunge a quello dei suoi predecessori, che hanno cercato di prolungare la tanto decantata «presenza» della Francia in Africa, termine coniato da Mitterrand negli anni ‘50, attraverso innovazioni cosmetiche.
Il parallelismo con Mitterrand, che ho approfondito nella mia ultima ricerca, L’Afrique d’abord! Quand François Mitterrand voulait sauver l’Empire français (2024), è sorprendente. All’inizio degli anni ‘50, Mitterrand ricopriva prima la carica di ministro della Francia d’Oltremare (in pratica, ministro delle colonie subsahariane) e poi quella di ministro dell’Interno, con responsabilità sull’Algeria. Fu uno dei principali teorici del neocolonialismo, ideando una strategia per indebolire le proteste radicali attraverso concessioni riformiste. A suo avviso, l’introduzione di piccoli aggiustamenti, combinata con la creazione di alleanze con le élite locali più moderate – le più propense ad accettare la «mano tesa» delle autorità coloniali – sarebbe stato il modo migliore per preservare ciò che poteva essere salvato degli interessi francesi nel continente. Macron si inserisce pienamente in questa tradizione neocoloniale. Il «piano di riconquista» di cui ha parlato durante la sua visita di Stato in Sudafrica nel maggio 2021 è molto simile a quello abbozzato da Mitterrand settant’anni prima: affidarsi agli imprenditori, agli intellettuali e agli artisti africani per contrastare i movimenti che chiedono una rottura totale con l’ex potenza coloniale, rapidamente bollati come «antifrancesi». Questo è il progetto alla base della retorica della «riconciliazione» franco-africana e degli slogan ripetuti fino alla nausea sulla «nostra storia condivisa».
Al fine di preservare questa presunta storia condivisa, imposta senza il consenso dei colonizzati e dei loro discendenti, e dato che «la Francia ha molto da fare nel continente», Macron ha dichiarato a Yaoundé, nel luglio 2022, la necessità di «eliminare gli ostacoli del passato». «Se prendiamo questa strada», ha sostenuto, «possiamo persino trasformare questi malintesi in un’opportunità. Un’opportunità per la Francia, naturalmente, perché credo che tra la Francia e il Camerun, tra la Francia e il continente africano, esista una profonda storia d’amore». Il resto del discorso, interamente dedicato agli interessi economici della Francia in Camerun e alle rivalità internazionali per le risorse dell’Africa, ha lasciato pochi dubbi su ciò che sta alla base di questa «relazione». Gli «ostacoli del passato» si frappongono alla salvaguardia degli interessi economici e strategici della Francia in Africa.
New Left Review Non c’è stato però un cambiamento nel discorso ufficiale? Dopo tutto, Macron ha riconosciuto per la prima volta che la Repubblica aveva combattuto una guerra in Camerun.
Thomas Deltombe Se si guarda alla versione dell’Eliseo, diffusa dalla stampa francese, la ricerca accademica ha spianato la strada alla politica: una commissione di storici ha stabilito che c’era stata una guerra in Camerun, il che ha portato il presidente della Repubblica a riconoscere la responsabilità della Francia. In realtà, le cose sono andate in modo molto diverso. Come ho detto, il presidente ha effettivamente cooptato gli storici per abbellire un esercizio di soft power basato sulla memoria. Lo so per esperienza diretta, poiché sono stato contattato dall’Eliseo pochi giorni prima del viaggio di Macron a Yaoundé alla fine di luglio 2022. Sono stato invitato a «sfidare pubblicamente il presidente» sulla guerra del Camerun, in modo che avesse l’occasione giusta per annunciare la creazione della sua commissione. Naturalmente ho rifiutato questa curiosa proposta. In ogni caso, Macron non aveva alcun dubbio sulla realtà del conflitto. «È chiaro che ci sono state atrocità, una guerra e dei martiri», ha dichiarato durante la stessa visita. «È già stato fatto molto lavoro e ora nessuno discute i fatti essenziali», ha confermato Mbembe, che ha accompagnato Macron nel suo viaggio e ha svolto un ruolo importante dietro le quinte.
Ciò non significa che il lavoro degli storici della commissione non abbia valore. Contiene una grande quantità di dettagli di indubbio interesse e si addentra in territori ancora poco esplorati, come il funzionamento dell’apparato giudiziario nel Camerun alla fine degli anni ‘50. Tuttavia, molte questioni cruciali rimangono nell’ombra, in particolare quella degli interessi francesi. La commissione ha evitato di affrontare gli interessi economici della Francia in Camerun e ha eluso lo scopo geopolitico del conflitto. È evidente che l’obiettivo era quello di evitare di mettere in imbarazzo i grandi dell’attuale regime camerunese, erede diretto di quello instaurato durante la guerra. È anche sorprendente che la commissione non abbia cercato di calcolare con precisione il numero delle vittime. Basandosi sulle cifre citate da autori precedenti, si è limitata a confermare che la guerra ha causato «decine di migliaia di morti». Date le notevoli risorse finanziarie di cui ha disposto la commissione, ci si sarebbe potuti aspettare uno studio demografico in grado di fare chiarezza su questa delicata questione.
Un’altra questione delicata che è stata tralasciata riguarda la qualificazione giuridica dei crimini commessi dalla Francia: torture, incendi di villaggi, deportazioni di massa. Crimini di guerra? Crimini contro l’umanità? Genocidio, come alcuni hanno affermato? La commissione ha invece dichiarato che non era compito degli storici fornire definizioni giuridiche dei crimini del passato. Posso accettare questo punto di vista, ma allora perché, quando nel giugno 2025 Macron è stato interrogato sulla natura giuridica dei crimini commessi dall’esercito israeliano a Gaza, il presidente ha risposto che spetterebbe agli storici decidere se si trattasse di genocidio? Se politici e storici continuano a passarsi la palla, quando sarà fatta giustizia per le vittime dei crimini coloniali?
New Left Review Macron ha rilasciato la sua dichiarazione sul Camerun sotto forma di lettera, giusto?
Thomas Deltombe È un documento sorprendente. In primo luogo, la lettera era indirizzata a Paul Biya, erede del regime di terrore instaurato dalla Francia durante la guerra combattuta in Camerun. Perché non indirizzarla al popolo camerunese, che è la vera vittima del conflitto, che ha sopportato l’autocrazia di Biya dal 1982? Da un punto di vista simbolico, la scelta è sorprendente. In secondo luogo, la lettera, presentata ovunque come un riconoscimento «ufficiale», non è mai stata pubblicata su nessuna piattaforma ufficiale. Non compare in nessuna parte del sito web dell’Eliseo, né sugli account dei social media del governo. È arrivata alla stampa solo a metà agosto 2025, quando la maggior parte dei francesi, compresi i giornalisti, è in vacanza. Da notare poi che ha coinciso con la notizia proveniente dal Camerun che Maurice Kamto, il principale oppositore di Biya, era stato escluso dalla corsa alle elezioni presidenziali previste per il 12 ottobre. Nella migliore delle ipotesi, comunque, si è trattato di un riconoscimento non ufficiale, ammesso che una cosa del genere possa esistere. Un gesto vuoto e meschino che, inoltre, alimenta la propaganda elettorale di Biya.
Letta riga per riga, la lettera di Macron è scandalosa. È vero che parla di una «guerra», come aveva già fatto nel 2022, ma non si fa più riferimento alle «atrocità», e tanto meno ai «crimini». Al loro posto, si ricorre all’eufemismo: «violenze repressive di vario tipo». La lettera cita i nomi di quattro ribelli nazionalisti uccisi dalla Francia, ma così facendo cancella le decine di migliaia di vittime del conflitto. Peggio ancora, postula la negazione assoluta del coinvolgimento francese nella morte di Félix Moumié, presidente dell’UPC, avvelenato a Ginevra nell’ottobre 1960 da un agente dei servizi segreti, nonostante alti funzionari francesi abbiano da tempo riconosciuto la responsabilità di Parigi nell’omicidio.
Un’altra caratteristica sorprendente della lettera è che si riferisce solo al cosiddetto periodo della «decolonizzazione». La commissione di storici ha fatto lo stesso, limitandosi per mandato agli anni 1945-1971. In questo modo, la disputa storica franco-camerunese è chiaramente limitata solo a quel periodo, il che permette di tralasciare molte questioni fondamentali come i crimini commessi dalla Francia fino al 1945, un’epoca di saccheggi incredibili e lavori forzati di massa, e il sostegno incondizionato fornito da Parigi a un regime autocratico e repressivo, durato in Camerun per decenni, periodo di tempo segnato anche dal massiccio sfruttamento delle risorse a vantaggio soprattutto di multinazionali francesi come Total e Bolloré.
Eppure questa lettera, che non offre né scuse né suggerimenti di riparazione, viene salutata dalla stampa come un «importante punto di svolta commemorativo» (per citare il sempre compiacente Pascal Blanchard). A mio parere, sembra piuttosto uno scherzo di cattivo gusto, di pessimo gusto in realtà, data la portata e la gravità dei crimini in questione.
New Left Review In Camerun, per molto tempo è stato cancellato qualsiasi riferimento alla guerra sotto il regime di Biya. Tuttavia, i massacri, i villaggi incendiati e gli omicidi politici hanno lasciato profonde cicatrici. In che modo continua a circolare oggi la memoria di quei fatti nella società camerunese? Hai idea di come sia stato accolto lì il rapporto della commissione Ramondy?
Thomas Deltombe Non sono la persona più indicata per descrivere come i camerunesi percepiscano le iniziative commemorative di Macron, ma nelle testimonianze che abbiamo raccolto sul campo ci è stato ripetuto più volte che «la guerra non è finita». Questa frase ha colpito profondamente Manuel, Jacob e me. Perché questa guerra senza fine, combattuta a bassa intensità per decenni, potrebbe facilmente riaccendersi in Camerun. In altre parole, non è solo una questione di storia. È ancora un tema scottante del presente. È qui che sta l’errore di Macron. Attraverso i suoi stratagemmi commemorativi, cerca di relegare al passato fenomeni storici che, in realtà, non si sono conclusi. La sua grande idea, come ho detto, è quella di «eliminare gli ostacoli del passato», esigere dai suoi omologhi africani di «voltare pagina». In realtà, si tratta di un esercizio di autoassoluzione: ora che «noi» abbiamo riconosciuto i nostri crimini, smettiamo di ossessionarci con il passato. Ma è difficile scrivere una «nuova pagina di storia», quando la sceneggiatura politica proviene direttamente dal neocolonialismo dell’era Mitterrand e quando Parigi continua a sostenere vecchi dittatori filo-francesi.
New Left Review Le recenti battute d’arresto subite dalla Francia nel Sahel – il ritiro dal Mali, dal Burkina Faso e dal Niger, la graduale riduzione dell’operazione Barkhane – sembrano segnare la fine di un ciclo di attività militare e politica. In questo contesto, la Françafrique è ancora una lente utile per comprendere le attuali relazioni franco-africane, o dovrebbe essere messa da parte in quanto categoria obsoleta?
Thomas Deltombe In L’empire qui ne veut pas mourir: Une histoire de la Françafrique (2021), il libro che ho co-curato sull’argomento, la definiamo come un sistema neocoloniale molto flessibile. Da quasi quarant’anni se ne proclama la morte, ma il neocolonialismo francese si è continuamente adattato ai grandi cambiamenti mondiali: la caduta del muro di Berlino, la «guerra al terrorismo», l’ascesa della Cina. Ogni appuntamento elettorale porta con sé la promessa di rompere con questo passato neocoloniale, ma una volta in carica, i nuovi leader fanno il contrario e cercano di riformare il sistema per prolungarlo. Questa era la dottrina di Mitterrand all’epoca della decolonizzazione negli anni ‘50 e la stessa logica è in vigore dalla metà degli anni 2000. Come ho detto, Macron si inserisce in questa tradizione: riformare la Françafrique per mantenerla in vita, ma di fronte a un’ostilità insolitamente forte in Africa, causata dalla congiuntura storica e aggravata dalla sua stessa arroganza, ha avuto molto meno successo di quanto si aspettasse. La sua politica africana, come del resto quella nazionale e internazionale, è un fallimento. La Francia è ora vituperata in gran parte del continente; le ex roccaforti della sua «doppia línea di fortezze» si sono rivoltate contro il loro antico protettore: Mali, Niger, Burkina Faso e, in una certa misura, Senegal. Tuttavia, sotto questi cambiamenti a volte drammatici, che hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, ci sono delle continuità. Alcuni regimi rimangono fedeli alla Francia: Costa d’Avorio, Benin, Togo e Repubblica del Congo. I meccanismi fondamentali, come la cooperazione in materia di sicurezza e il franco CFA, rimangono saldamente in piedi.
Il Camerun, che dal 1960 ha avuto solo due presidenti, è un esempio paradigmatico di questa continuità. Macron preferirebbe sicuramente avere a Yaoundé un omologo più giovane, «più moderno» e più favorevole alle imprese, ma nel frattempo continua a sostenere il regime di Biya. Non ha sospeso la cooperazione in materia di sicurezza, nonostante la guerra abbia devastato le regioni anglofone del Paese, causando 6500 morti e 700.000 sfollati dal 2017. Nell’ambito dell’accordo di cooperazione, Macron ha inviato il capo della gendarmeria francese in Camerun lo scorso giugno, visita che ha suscitato grande interesse in un momento in cui il governo di Biya stava facendo tutto il possibile per manipolare le prossime elezioni presidenziali. La visita ha segnato «una nuova tappa nel rafforzamento delle relazioni di sicurezza tra i due Stati», come ha sottolineato Jeune Afrique.
New Left Review L’erosione dell’influenza francese in Africa ha spianato la strada ad altre potenze: la Russia, come hai già menzionato; la Cina, onnipresente attraverso prestiti e infrastrutture; la Turchia, con la sua crescente influenza diplomatica e militare; gli Emirati Arabi Uniti, che cercano di ampliare la loro presenza attraverso investimenti e alleanze in materia di sicurezza. Come dobbiamo interpretare questa nuova configurazione multipolare? Si tratta di un’opportunità per le società africane, in grado di mettere in competizione le potenze tra loro, o semplicemente di un cambiamento nella dipendenza?
Thomas Deltombe Non spetta a me dire con chi devono lavorare gli africani. Ciò che mi interessa è il discorso ufficiale e mediatico in Francia. Anche in questo caso, i parallelismi con gli anni ‘50 sono sorprendenti. Allora come oggi, la Francia, ansiosa di conservare il suo impero africano, guardava con nervosismo sia alle rivendicazioni popolari africane sia alla concorrenza imperiale delle potenze rivali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica). La paura della «perdita», onnipresente tra i commentatori degli anni ‘50, è ancora viva oggi. Gli articoli di giornale e i programmi televisivi sono pieni di questa paura: «Non perdiamo l’Africa!», «La Francia sta perdendo l’Africa?», «Come Emmanuel Macron ha perso l’Africa». Un vocabolario rivelatore, sessantacinque anni dopo l’indipendenza.
Il corollario di questa ansia (post)coloniale è il presupposto che gli africani, incapaci di scegliere il proprio destino, siano condannati a vivere sotto tutela: se non sotto quella della Francia, allora sotto quella di Mosca o Pechino. L’implicazione è che la Francia potrà anche non aver sempre agito in modo irreprensibile in Africa, ma gli africani starebbero molto peggio sotto il dominio di Vladimir Putin o Xi Jinping. Anche ammesso che ciò fosse vero, i francesi non sono nella posizione di impartire tali lezioni.
New Left Review L’accesso agli archivi rimane una questione cruciale per la storia della guerra del Camerun, così come per altri conflitti coloniali. In Francia, gli annunci ufficiali di «libero acceso» sono spesso accompagnati da restrizioni che, con il pretesto di proteggere la privacy o la sicurezza nazionale, mantengono in pratica il segreto. Da parte del Camerun, l’accesso è altrettanto limitato, sia per il periodo coloniale che per i decenni successivi. Come affronti queste sfide?
Thomas Deltombe La questione degli archivi solleva diversi problemi. Uno dei meno discussi, ma forse il più importante, è la loro conservazione. In Camerun, gli archivi vengono spesso lasciati marcire in stanze umide e poco ventilate. Un’altra questione è l’accessibilità. In termini generali, molti archivi relativi alla guerra del Camerun sono aperti. Con Jacob e Manuel, abbiamo potuto consultare migliaia di documenti in Francia e in Camerun, il che, a mio parere, ci ha permesso di ricostruire una storia ragionevolmente accurata del conflitto. La commissione istituita da Macron ha avuto accesso a materiali aggiuntivi, in particolare agli archivi del Service de documentation extérieure et de contre-espionnage (SDECE), ma le è stato vietato l’accesso agli Archivi Nazionali di Yaoundé, che noi stessi avevamo consultato alcuni anni prima, ufficialmente perché erano in fase di ristrutturazione. Altre collezioni rimangono chiuse, come gli archivi del Service de coopération technique de police (SCTIP) in Francia o i registri centrali della polizia e della gendarmeria in Camerun.
Tutti i ricercatori che lavorano su questioni coloniali sono ben consapevoli della profonda asimmetria – e dell’ingiustizia – esistente in questo campo: i cittadini delle ex potenze imperiali godono di un accesso molto più facile alle risorse archivistiche rispetto agli altri. Per questo motivo chiediamo da tempo che gli archivi relativi alla storia franco-camerunese siano completamente digitalizzati e resi disponibili online. Da parte sua, la commissione Ramondy-Bassy ha raccomandato almeno di inviare in Camerun un disco rigido con i documenti che aveva consultato, in modo che i ricercatori locali potessero lavorarci. Nella sua lettera a Biya, Macron non ha acconsentito a questa modesta richiesta. Si è limitato a promettere che gli archivi della commissione sarebbero stati riuniti in un unico luogo, presso gli Archivi Nazionali francesi. Pertanto, i ricercatori camerunesi potranno consultarli solo se la Francia concederà loro un visto e se riusciranno a raccogliere i fondi necessari per recarsi a Parigi. Una ben misera concessione da parte di un uomo che riempie i suoi discorsi di chiacchiere sulla «memoria condivisa».
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Marc André, La guerra d’Algeria negli archivi francesi, in «New Left Review» 149 Settembre-Ottobre 2024
Rahmane Idrissa, Il Sahel: una mappa cognitiva, in «New Left Review» 132 Gennaio-Febbraio 2022, Scontro di interessi intorno al Sahel, in «Diario Red» 11/09/24 e Il rovesciamento di Damiba in Burkina Faso, in «El Salto» 16 oct 2022.

