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- Martin Barnay

- 5 dic
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La questione libica: Sarkozy e la Quinta Repubblica francese

Il processo e la condanna di Nicolas Sarkozy mettono a nudo il modus operandi del sistema partitico francese durante la Quinta Repubblica, evidenziando il suo mix tossico di corruzione, autoritarismo e relazioni coloniali con i paesi arabi e africani, mentre in patria queste stesse classi dirigenti imponevano il neoliberismo come nuovo paradigma sociale.
Questo testo è stato pubblicato su «Sidecar», il blog della «New Left Review», pubblicato a Madrid dall’Istituto Republica & Democracia di Podemos e da Traficantes de Sueños.
«Se vuoi essere un grande politico, hai bisogno di grandi problemi; i problemi insignificanti sono per politici insignificanti». Così si era espresso Nicolas Sarkozy nel 2018, difendendo il suo protetto Gérald Darmanin, ora ministro della Giustizia di Macron, che all’epoca era stato accusato di diversi casi di stupro. Secondo i suoi stessi criteri, Sarkozy si colloca comodamente tra i grandi della Quinta Repubblica francese. Giovedì 25 settembre, l’ex presidente è comparso davanti a un tribunale di Parigi per ascoltare il verdetto del suo processo per corruzione, in cui è stato accusato di aver ricevuto milioni di euro, pare almeno cinquanta, dalla Libia di Muammar Gheddafi per finanziare la sua campagna presidenziale del 2007.
Il processo è stato di portata insolita: oltre un decennio di indagini, tredici imputati, tra cui l’ex capo di Stato, tre dei suoi ministri e una manciata di intermediari di alto livello. Una folla considerevole ha assistito all’udienza: due aule del tribunale gremite e in più un auditorium in cui la sessione veniva trasmessa su maxischermo. Tra gli imputati, Sarkozy era seduto accanto al suo amico d’infanzia ed ex ministro dell’Identità nazionale, Brice Hortefeux; dietro di loro, tra il pubblico, c’erano la moglie di Sarkozy, Carla Bruni, e i suoi tre figli, tra cui Louis, ventenne laureato alla New York University e astro nascente della destra populista francese. Di fronte sedevano i rappresentanti dello Stato libico, parte civile nel processo, insieme a diverse ONG anticorruzione e ai familiari delle vittime del volo UTA 772, abbattuto nel deserto del Ténéré a seguito di un attentato attribuito ai servizi segreti di Gheddafi. Si notava l’assenza di Ziad Takieddine, l’intermediario accusato da tempo di fungere da principale canale di finanziamento libico alla cerchia di Sarkozy. Era morto due giorni prima a Tripoli, in Libano, dove si trovava per sfuggire a un mandato di arresto, «un’amara coincidenza» ha commentato il presidente del tribunale.
Le sentenze sono state severe. Alexandre Djouhri, il potente broker franco-algerino, che un tempo era considerato intoccabile, è stato condannato a sei anni di reclusione con ordine di incarcerazione immediata. Sarkozy è stato condannato a cinque anni di reclusione, con differimento della pena: ha alcune settimane di tempo per costituirsi, anche se la sua età (70 anni) lo rende suscettibile di ricevere un trattamento speciale, che sarà determinato in appello entro sei mesi. La sentenza, di ben 400 pagine, è una sentenza storica. Sarkozy è stato condannato per associazione a delinquere, poiché secondo il tribunale tra il 2005 e il 2007 la sua cerchia ha mantenuto contatti clandestini con il regime libico. Tuttavia, è stato assolto dall’accusa di finanziamento illegale della campagna elettorale: sebbene gli investigatori abbiano identificato flussi sospetti di denaro provenienti dalla Libia, non sono riusciti a dimostrare in modo inoppugnabile che i fondi in questione fossero arrivati all’ex presidente. Il tribunale ha anche respinto un documento per lungo tempo fondamentale per il caso: una presunta nota del ministro degli Esteri di Gheddafi, Moussa Koussa, datata dicembre 2006, in cui si impegnava a contribuire con 50 milioni di euro alla campagna di Sarkozy. Pubblicato per la prima volta da Mediapart nel 2012, il documento sarebbe stato trovato tra una serie di carte personali di Takieddine fornite alla stampa dalla sua ex moglie.
La copertura mediatica in Francia ha trattato il processo in gran parte come un dramma moralistico sull’avidità di Sarkozy. Senza dubbio, c’è molto da dire sul denaro e sull’uomo, che un tempo era soprannominato il «presidente bling-bling» [ostentato, eccessivo] e che è comparso alle udienze di questa primavera con un braccialetto elettronico alla caviglia per un’altra condanna per traffico di influenze. Tuttavia, al di là della storia dei suoi appetiti venali, questo episodio apre una finestra su come ha funzionato la vita politica francese per mezzo secolo. È significativo che la sentenza si sia basata sulla distinzione tra il comportamento di Sarkozy prima e dopo la sua elezione a presidente della Repubblica francese. Condannato per aver tentato di ottenere fondi attraverso contatti libici per le elezioni del 2007, quando la rivalità interna non gli garantiva l’accesso alle casse del partito, la sua sontuosa accoglienza a Gheddafi una volta in carica, accompagnata dalla firma di importanti contratti di difesa e sicurezza, è stata considerata una pratica abituale nelle relazioni con Tripoli.
I sospetti di irregolarità che incombono su Sarkozy non sono sorti dal nulla. I proventi della vendita di armi sono stati a lungo una delle risorse coperte della politica francese. Tutti i grandi paesi produttori di armi hanno avuto i loro scandali: Lockheed ha corrotto funzionari stranieri affinché acquistassero i suoi aerei Starfighter negli anni ‘60 e ‘70; l’accordo al-Yamamah di BAE Systems con la famiglia reale saudita ha coinvolto il figlio di Margaret Thatcher come intermediario; fondi provenienti dalla vendita di veicoli blindati Thyssen all’estero sono confluiti nelle casse della CDU sotto il mandato di Helmut Kohl. La Francia, comunque, sembrava essere ai margini di tale modello di comportamento ma per oltre un secolo la sua vita politica è stata segnata da les affaires. Oggi, le rivelazioni di media come «Le canard enchaîné» o «Mediapart» costituiscono la trama e l’ordito del dibattito partitico. Due fattori aiutano a spiegare questo fenomeno. In primo luogo, le norme di finanziamento delle campagne elettorali, insolitamente severe in Francia – divieto di donazioni da parte di aziende, limiti ai contributi individuali e limiti di spesa complessivi rigorosi – funzionano da incentivi per la nascita di canali di finanziamento paralleli. In secondo luogo, un’industria della difesa in gran parte autosufficiente, fuori dal patrocinio statunitense, consente agli intermediari e agli sponsor politici di competere liberamente sulla scena nazionale.
In questo senso, l’affaire libyenne è il culmine di una lunga storia, caratterizzata da decenni di lotte politiche interne per il controllo di denaro occulto, con i contratti per le armi che rappresentano forse la fonte più redditizia. Le sue radici risalgono agli inizi della Quinta Repubblica. Il ritorno al potere di De Gaulle nel 1958 aveva lo scopo di stabilizzare il Paese dopo anni di agitazione parlamentare. In un sistema quasi monopartitico, il Rassemblement du peuple français (RPF) gollista era finanziato attraverso canali istituzionali: assegnazione di stanziamenti discrezionali all’Eliseo e ai ministeri chiave, integrati da contributi di industriali accuratamente selezionati dal generale dopo la Liberazione, soprattutto nei settori del petrolio e delle armi, entrambi dominati dall’élite strettamente coesa degli ingegneri del Corps des Mines.
Nel settore petrolifero, la creazione nel 1966 del conglomerato parastatale Elf fornì alla Francia un braccio economico all’estero, in particolare nell’Africa subsahariana, dove valigette piene di contanti garantivano la cooperazione dei governanti locali e sostenevano le carriere politiche in patria. Nel frattempo, l’industria della difesa si consolidò attorno alla Dassault Aviation. Nel crepuscolo del colonialismo francese, anticipando l’inevitabile riduzione delle forze armate nazionali, il suo potente proprietario, Marcel Dassault, orientò il settore verso l’esportazione. Il caccia Mirage III, sviluppato sulla scia del disastro di Điện Bien Phu, fu prodotto proprio a questo scopo: fu venduto prima a Israele e poi ai clienti arabi dopo l’embargo imposto da De Gaulle dopo la Guerra dei Sei Giorni.
La crisi petrolifera del 1973, inondando di denaro le monarchie del Golfo, aprì una nuova bonanza per il settore della difesa. I fornitori occidentali fecero a gara per accedere a Riad e Abu Dhabi, dove non era tanto importante la qualità delle armi, ma gli intermediari in grado di ottenere una stretta di mano e una firma dai leader locali. I contratti di acquisto di armi cominciarono a includere commissioni del 20% circa per questi intermediari, cosa perfettamente legale fino al divieto dell’OCSE nel 2000. Parte dei profitti tornava al paese esportatore, riempiendo le casse delle campagne elettorali o i conti privati dei mecenati politici.
In questo clima, nel 1974 salì al potere Valéry Giscard d’Estaing, come successore dell’enfant terrible del gollismo, Georges Pompidou. Sebbene non fosse mai stato gollista e fosse spesso considerato vicino a Washington, Giscard adottò l’opinione di De Gaulle secondo cui la vendita di armi era un pilastro della sovranità nazionale e un modo per seguire una linea indipendente fuori dei blocchi della Guerra Fredda. Sotto la sua presidenza, la Francia salì al terzo posto tra gli esportatori mondiali di armi, dietro solo agli Stati Uniti e all’URSS. L’Arabia Saudita era il mercato più ambito, dominato da intermediari vicini alla famiglia reale, come Adnan Khashoggi e il principe Bandar. Il materiale francese godeva di grande popolarità, in particolare il missile antinave Exocet prodotto dalla Matra, che in seguito divenne famoso grazie all’aviazione argentina nelle Falkland, destinato inoltre a diventare un bestseller in Medio Oriente.
Per supervisionare questa politica, Giscard si affidò a un gaullista in ascesa dell’entourage di Pompidou, Jacques Chirac, che nominò primo ministro. Chirac colse l’occasione per viaggiare nel sud e nell’est del Mediterraneo, coltivando relazioni con vari leader locali, dalla monarchia marocchina alla dittatura di Hafez al-Assad in Siria. Nel 1976, convinto che Giscard non avesse alcuna intenzione di condividere il potere, abbandonò la sua carica nel governo francese, si impadronì dei resti dell’apparato gollista e poco dopo vinse l’elezione a sindaco di Parigi, una posizione dalla quale mantenne i suoi legami con il mondo arabo.
L’elezione di François Mitterrand nel 1981 segnò un punto di svolta. La sua vittoria, che pose fine a due decenni di egemonia del centro-destra, riformulò le regole del gioco. La rivelazione di piani di finanziamento illecito legati al suo stesso partito portò il presidente a introdurre riforme nel modo di ottenere fondi per le campagne elettorali. Le donazioni delle aziende furono vietate e sostituite da un finanziamento pubblico legato ai risultati elettorali, mentre la spesa totale fu limitata ben al di sotto del costo reale di una campagna nazionale. Le leggi approvate tra il 1988 e il 1990 includevano anche una discreta amnistia per i reati commessi in passato. Con il potere giudiziario ora coinvolto nella sorveglianza del denaro politico, gli ex porteurs de valises – spesso militanti di base il cui principale punto di forza era la fedeltà al partito – scomparvero e furono sostituiti, sul versante francese, da una nuova classe professionale di intermediari, esperti nei complessi schemi di riciclaggio e abili nell’eludere le citazioni in giudizio e districarsi tra le divisioni delle varie fazioni.
Le turbolenze globali causarono forti scossoni anche al panorama politico francese. L’eccesso di petrolio della metà degli anni ‘80 deprimendo il prezzo del greggio, ha ridotto in maniera significativa la domanda di prodotti militari proveniente dal Golfo, costringendo Parigi a cercare nuovi mercati. L’India e la Grecia, guidate da altri membri dell’Internazionale Socialista, offrivano alcune opportunità, ma le vere opportunità sembravano essere a Taiwan. Isolata diplomaticamente dalla normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Cina sotto l’amministrazione Carter, la ricca isola vide nel materiale militare francese il mezzo per intromettersi tra Pechino e uno dei più antichi partner occidentali della Repubblica Popolare Cinese. La Marina taiwanese espresse il proprio interesse per una vasta gamma di acquisti, in particolare le fregate La Fayette, sviluppate congiuntamente dal cantiere navale statale DCN e dal gruppo elettronico francese Thomson-CSF.
La presidenza Mitterrand vide anche due periodi di coabitazione politica, il peculiare accordo in base al quale un presidente francese deve governare insieme a un primo ministro appartenente all’opposizione che risulta maggioritaria all’interno dell’Assemblea Nazionale. Nel 1986, dopo che la destra ne aveva assunto il controllo, Mitterrand nominò primo ministro Jacques Chirac, leader del RPR neogollista. L’esperimento acuì le rivalità all’interno della destra; Chirac perse le elezioni presidenziali del 1988 contro Mitterrand e divenne cauto di fronte a quella che divenne nota come la «maledizione di Matignon», la sede del primo ministro francese. Quando la destra tornò al potere nelle elezioni legislative del 1993, Chirac preferì aspettare il momento opportuno e permise al fidato Édouard Balladur di assumere la presidenza del governo. Balladur promise di rimanere in disparte nelle elezioni presidenziali del 1995, ma presto rinnegò la sua promessa, candidandosi lui stesso alle elezioni e dividendo il campo gollista.
Fu in quel momento che Nicolas Sarkozy entrò sulla scena nazionale. Il giovane sindaco della ricca Neuilly-sur-Seine, scoperto da Chirac nel movimento giovanile gollista, fu reclutato da Balladur come luogotenente principale nella sua corsa al potere. Ma le ambizioni di Balladur si scontrarono con una dura realtà: nel 1993 Chirac continuava a controllare le casse del partito e le sue reti di finanziamento. Il nuovo primo ministro fu costretto a cercare risorse proprie e la vendita di armi gli offriva infinite opportunità. Da Matignon, collocò i suoi fedeli in posizioni strategiche, tra cui Sarkozy al Ministero dell’Economia e delle Finanze, responsabile ora dell’approvazione di tutti i contratti di difesa. Riattivando le trattative avviate dai socialisti, i balladuriani promossero l’accordo La Fayette con Taiwan, del valore di oltre 2 miliardi di euro, con commissioni che, secondo le voci, raggiungevano il 30% nonostante il divieto per contratto di effettuare tali pagamenti.
Parallelamente all’accordo con Taiwan, il governo Balladur portò avanti proprie iniziative: con l’Arabia Saudita un programma di messa in sicurezza delle frontiere (noto come MIKSA) e la vendita al Pakistan di sottomarini della classe Agosta, fabbricati dall’azienda francese DCN (ora Naval Group). Entrambi i progetti comportarono ingenti commissioni illegali che, secondo quanto sostenuto in seguito dai pubblici ministeri, contribuirono a finanziare la campagna presidenziale del 1995. Balladur, con Sarkozy come direttore della campagna, affermò in modo poco credibile che i 2,5 milioni di euro scoperti nelle casse della campagna provenivano dalla vendita di magliette e spille con l’effigie del candidato. I due contratti si basavano anche su un nuovo canale di intermediazione. Sebbene la Francia avesse in precedenza beneficiato dei suoi stretti legami con intermediari veterani come Khashoggi, negli anni ‘80 Dassault e altri appaltatori perdevano regolarmente le gare d’appalto a favore della concorrenza anglo-americana. Di conseguenza, gli ambienti politici e della difesa cercarono di creare reti alternative. Il team di Balladur si rivolse a Takieddine, un druso libanese che aveva gestito una stazione sciistica sulle Alpi francesi fino a quando non aveva incrociato la strada di un ex socio di Khashoggi ed essersi quindi reinventato intermediario tra i salotti parigini e il Medio Oriente.
Di fronte a queste iniziative dei rivali, la fazione di Chirac si assicurò un proprio mediatore. Alexandre (nato Ahmed) Djouhri, francese di origine algerina, ha una storia degna di Balzac: un’infanzia difficile nella periferia di Parigi negli anni ‘60, qualche legame con la microcriminalità, uno scontro con la polizia, che hanno fatto emergere il suo istinto nel muoversi nel demi-monde. Il giornalista Pierre Péan, il Seymour Hersh francese, ha dedicato uno dei suoi ultimi libri a Djouhri, che è senza dubbio una delle figure più intriganti dei circoli di potere francesi degli ultimi decenni. Péan ha tracciato la sua ascesa grazie a incontri fortuiti con uomini forti africani, una probabile iniziazione in una delle principali logge massoniche di Francia e infine la sua vicinanza a Dominique de Villepin, fidato luogotenente di Chirac e futuro nemico di Sarkozy. Dopo la vittoria presidenziale di Chirac nel 1995, Villepin ha trasformato Djouhri nell’uomo forte della fazione di Chirac nel Golfo, con la missione di smantellare la rete di Takieddine e sostituirla con un asse saudita più affidabile. La rivalità tra Djouhri e Takieddine è andata avanti fino a ben oltre il 2000 ed entrambi sarebbero diventati figure centrali nel processo Sarkozy-Libia.
Questi antagonismi politici riflettevano una lotta più profonda all’interno del capitalismo francese. I primi anni del dopo guerra fredda furono un periodo di consolidamento nell’industria della difesa: negli Stati Uniti, la cosiddetta “ultima cena” del 1993 portò Lockheed a fondersi con Martin e Boeing ad assorbire McDonnell Douglas. In Francia, Thomson-CSF, storicamente legata ai socialisti e successivamente a Balladur, si scontrò con Matra, il produttore di missili dell’imprenditore Jean-Luc Lagardère, alleato e amico di lunga data di Chirac. Chi avesse prevalso nel Paese avrebbe portato il tricolore all’estero.
La corsa presidenziale del 1995 risolse la questione a favore di Matra. Alain Gomez, amministratore delegato di Thomson, fu fatto fuori dal nuovo presidente. Lo stesso Gomez in seguito commentò, con una frase che è entrata a far parte del folklore politico, di aver «imburrato entrambe le fette di pane [Balladur e i socialisti], ma di aver dimenticato il prosciutto [Chirac]». I balladuriani caddero in disgrazia. Sarkozy fu escluso dalla cerchia ristretta di Chirac e sostituito da fedelissimi come Alain Juppé e Villepin. Ma Chirac andò presto a sbattere contro un muro. La sua prima iniziativa importante, una riforma della previdenza sociale, provocò una feroce resistenza sindacale. Nel dicembre 1995, più di un milione di persone manifestarono a Parigi e il governo cedette. Seguendo il consiglio di Villepin, Chirac sciolse l’Assemblea Nazionale per cercare di ripristinare la propria legittimità, ma la scommessa fallì e la sinistra ottenne una schiacciante vittoria nelle elezioni anticipate. Juppé fu sacrificato. Sarkozy approfittò dell’interludio per ricostruirsi, lasciando gli intrighi di palazzo a Villepin e presentandosi come l’uomo del partito sul campo. Onnipresente in televisione, soprattutto su TF1, di proprietà del suo amico magnate dell’edilizia Martin Bouygues, puntò su legge e ordine.
La rielezione di Chirac nel 2002, dopo la sorprendente avanzata di Jean-Marie Le Pen al secondo turno, consacrò la strategia di Sarkozy. Le questioni di sicurezza dominavano il dibattito pubblico e, in qualità di ministro dell’Interno, egli godeva della corrispondente visibilità, che lo portò a puntare alla presidenza nel 2007. Avendo osservato come Chirac avesse coltivato le relazioni con i paesi arabi fin dagli anni ‘70, Sarkozy sapeva che il curriculum presidenziale si plasmava all’estero. In un discorso pronunciato nel 2004 davanti all’American Jewish Committee a New York, dichiarò in un inglese stentato: «In Francia mi chiamano Sarkozy l’americano e ne sono orgoglioso». Si avvicinò al primo ministro del Qatar, Hamad bin Jassim, figura chiave dell’allineamento di Doha con Washington. Per i qatarioti, discreti sostenitori dell’invasione dell’Iraq, Sarkozy offriva un contrappeso atlantista a una classe politica francese ancora permeata dalla linea filoaraba di De Gaulle. Forse è stato attraverso questo canale, e l’influenza del Qatar sui Fratelli Musulmani, che ha iniziato a gravitare intorno alla Libia di Gheddafi.
Ma i fantasmi degli anni di Balladur erano tornati. Nel maggio 2002 un autobus fu fatto saltare in aria a Karachi, uccidendo undici ingegneri francesi che si trovavano in Pakistan per supervisionare la costruzione dei sottomarini Agosta per la DCN. Inizialmente i sospetti ricaddero su Al Qaeda: tre mesi prima, il giornalista del «Wall Street Journal» Daniel Pearl era stato assassinato dai militanti jihadisti nella stessa città. Ma nei corridoi parigini circolava un’altra versione: i servizi segreti pakistani avevano ordinato l’attacco per rappresaglia al blocco delle tangenti sull’accordo per i sottomarini Agosta. Dopo aver assunto la carica nel 1995, Chirac aveva dato istruzioni al suo ministro della Difesa di bloccare tutti i pagamenti relativi ai contratti del periodo del governo Balladur.
In qualità di ministro dell’Economia e delle Finanze dell’epoca, Sarkozy avrebbe dovuto essere nel mirino. Tuttavia, l’indagine si concentrò sulla «pista di Al Qaeda» sostenuta dal giudice Jean-Louis Bruguière, che in seguito avrebbe appoggiato Sarkozy nelle elezioni del 2007. L’episodio non fece altro che acuire le tensioni con i sostenitori di Chirac, tra cui spiccava Villepin. Uscito senza danni dal caso Karachi, Sarkozy si trovava ad affrontare lo stesso problema di Balladur: finanziare le proprie ambizioni mentre i suoi rivali controllavano le casse del partito. Già nel 1995 Chirac aveva posto Villepin a capo di una unità riservata dell’Eliseo incaricata di localizzare la cassa di Balladur. La ricerca si concentrò presto su Sarkozy, che all’epoca si profilava come il principale rivale di Villepin per la successione. I sostenitori di Chirac sospettavano che avesse riattivato il vecchio canale saudita attraverso Takieddine, compreso il gigantesco programma di sicurezza delle frontiere MIKSA, avviato sotto Balladur nel 1994 e soprannominato «il contratto del secolo» per le commissioni che prometteva. Alla vigilia della sua firma nel 2004, Chirac proibì a Sarkozy, allora ministro dell’Interno, di volare a Riad, insistendo affinché l’accordo fosse gestito tra capi di Stato.
Iniziò così quello che divenne noto come il caso Clearstream. Alla fine del 2003 un operatore finanziario libanese si avvicinò all’entourage di Villepin, affermando di aver scoperto conti segreti nei libri contabili di una camera di compensazione lussemburghese. L’elenco includeva politici e imprenditori di ogni tipo, ma un nome attirò l’attenzione dell’Eliseo: Nicolas Sarkozy. Villepin credette di aver trovato la prova inconfutabile. Con il tacito consenso di Chirac, i documenti furono consegnati a un giudice istruttore. Nel gennaio 2006, la trappola si chiuse: i conti erano falsi, inventati dallo stesso trader. Da un giorno all’altro, Sarkozy sembrò vittima di una campagna diffamatoria. La sua denuncia per diffamazione gettò un’ombra su Villepin, già vacillante a causa di un’ondata di proteste studentesche, disordini che, come avrebbe ammesso in seguito uno dei leader del movimento, erano stati discretamente alimentati dagli amici di Sarkozy nella polizia. In estate, Sarkozy era diventato il principale candidato della destra alla presidenza della Repubblica.
Djouhri, intuendo dove soffiasse il vento, fece pace con Sarkozy dopo anni al fianco di Villepin. Un incontro tenutosi nella primavera del 2006 all’Hotel Bristol, dove Djouhri era un habitué, confermò che Sarkozy sarebbe stato l’unico candidato della destra alle elezioni dell’anno successivo; con l’accesso alle casse del partito assicurato, la necessità del canale segreto libico svanì. L’avvicinamento diede i suoi frutti: quando la Libia decise di modernizzare la sua aviazione all’inizio degli anni 2000, Dassault si rivolse a Djouhri, mentre Safran, tramite Sarkozy, si affidò a Takieddine. Sotto la presidenza Sarkozy, Dassault si assicurò il contratto e Djouhri fu coinvolto in una serie di scontri fra industrie, tra cui quelli tra EDF e Areva, dove i suoi rappresentanti fecero pressione per condividere le competenze nucleari francesi con Cina, Qatar ed Emirati Arabi Uniti.
Inizialmente reclutato dal nuovo inquilino dell’Eliseo per stabilire contatti in Siria, Takieddine divenne presto un peso per Sarkozy. Nel 2011 fu arrestato all’aeroporto di Le Bourget con 1,5 milioni di euro in contanti. Interrogato dai magistrati, che indagavano sul finanziamento libico della campagna elettorale del 2007, testimoniò contro il suo ex datore di lavoro. Nel 2016 il corrotto intermediario andò oltre e dichiarò di aver consegnato personalmente valigette con denaro libico all’entourage di Sarkozy. Successivamente è stato condannato a cinque anni di reclusione, ma ha evitato la detenzione fuggendo in Libano.
La saga Djouhri si è protratta fino all’era Macron. Durante la controversa fusione dei giganti dei servizi pubblici (acqua, gas, elettricità, telefonia) Veolia e Suez, completata nel 2020, si vociferava che Djouhri possedesse fino al 10% delle azioni di Veolia per conto dei suoi mandanti, secondo le informazioni fornite da Péan, ancor meno amante dei riflettori. Le elezioni del 2017 hanno segnato una sorta di rottura, poiché il duopolio gollista-socialista, che esisteva da molto tempo, è crollato per lasciare il posto a un unico «blocco borghese», mettendo il potere nelle mani di un apparato statale tecnocratico meno vincolato dai cicli elettorali. Anche all’estero, il panorama è cambiato con il ritiro della Francia, almeno sulla carta, dalle sue ultime roccaforti militari in Africa, che per lungo tempo erano state una vetrina per l’industria nazionale degli armamenti. Con il riarmo tedesco che genera nuovi giganti industriali, spesso in collaborazione con appaltatori della difesa statunitensi, la posizione della Francia come secondo esportatore mondiale di armi appare sempre più precaria.
L’atteggiamento di Sarkozy giovedì 25 settembre, durante la sua apparizione in pubblico dopo aver appreso la sentenza, ha trasmesso un po’ dell’ambivalenza che regna nei circoli di potere francesi. Uscendo dall’aula del tribunale e trovandosi di fronte a un groviglio di telecamere, ha pronunciato un monologo di cinque minuti, chiaramente preparato in anticipo, in cui si presentava ancora una volta come vittima di una cospirazione politico-giornalistica. Per essere un uomo che rischia mezzo decennio dietro le sbarre, sembrava notevolmente indifferente. La sentenza del tribunale è categorica, ma la sua esecuzione rimane incerta. La sua assoluzione per finanziamento illegale della campagna elettorale e il rigetto da parte del tribunale del cosiddetto memorandum Koussa pubblicato da «Mediapart» non hanno scalfito la sua difesa. Tuttavia, dal punto di vista politico, la sentenza è un duro colpo. Con i ricorsi in sospeso, è probabile che l’influenza sotterranea di Sarkozy sulla destra risulti inefficace, soprattutto considerando chi potrebbe essere il probabile successore di Macron, l’ex primo ministro Édouard Philippe. Protetto di Alain Juppé, l’ultimo della fazione di Chirac, Philippe, con la sua notevole statura e la sua nota affabilità, contrasta nettamente con lo stile abrasivo di Sarkozy; i rapporti tra i due sono notoriamente velenosi.
Macron, dal canto suo, si è presentato alle elezioni con un programma di rinnovamento e alcuni gesti iniziali hanno suggerito una rottura con i precedenti: nel 2018 si è rifiutato di salutare Djouhri durante un ricevimento all’ambasciata algerina. Il nuovo governo ha preso le distanze dalla crudezza dei metodi utilizzati dai suoi predecessori, ma sono rimasti alcuni segni rivelatori. Un esempio è Alexis Kohler, l’eminenza grigia di Macron durante la sua presidenza, un raffinato funzionario pubblico senza la sfacciata avidità di Sarkozy o le torbide amicizie di Villepin. Kohler è stato costretto a dimettersi la scorsa primavera, dopo otto anni come segretario generale dell’Eliseo, coinvolto in alcune indagini su un conflitto di interesse in relazione alla vendita da parte di Vincent Bolloré della sua divisione logistica alla compagnia di navigazione MSC, il gruppo italiano guidato dai suoi cugini materni. Da allora è stato nominato direttore della banca d’investimento Société Générale, la stessa istituzione che all’epoca aveva canalizzato i pagamenti nella vicenda delle fregate di Taiwan. Plus ça change... [Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi]
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Martin Barnay è dottorando (Paul F. Lazarsfeld Fellow) presso il Dipartimento di Sociologia della Columbia University.

