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- Gabriel Hetland

- 2 giorni fa
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Omicidi ai Caraibi

Incapace di offrire un modello di sviluppo globale in grado di integrare minimamente le variabili della complessità dell’attuale crisi sistemica del capitalismo storico, la potenza statunitense ricorre a una strategia di guerra multidimensionale, che inevitabilmente semina morte e distruzione, limitando al contempo le opzioni coerenti, eque e sostenibili per uscirne.
Questo testo è stato pubblicato su «Sidecar», il blog della «New Left Review», rivista pubblicata a Madrid dall’Istituto República & Democracia di Podemos e da Traficantes de Sueños.
«L’abbiamo fatta saltare in aria. E lo rifaremo», ha affermato il segretario di Stato americano Marco Rubio. «Non me ne frega niente di come la chiamate», ha aggiunto il vicepresidente J. D. Vance. Entrambe le dichiarazioni si riferiscono al primo dei dieci attacchi letali effettuati nell’ultimo mese dagli Stati Uniti contro imbarcazioni nelle acque internazionali dei Caraibi (sette attacchi) o del Pacifico (tre attacchi) nelle vicinanze del Venezuela o della Colombia, che, secondo le informazioni disponibili, hanno causato finora la morte di quarantatre persone. Washington ha affermato che le navi trasportavano carichi di droga destinati alle coste statunitensi, ma non ha fornito alcuna prova al riguardo; quelle disponibili indicano che le vittime del primo attacco, perpetrato il 2 settembre, potrebbero essere stati solo dei pescatori. L’operazione è stata accompagnata da un aumento della presenza militare statunitense nei Caraibi, che comprende otto navi da guerra, una squadriglia di F-35, un sottomarino nucleare e oltre 10.000 soldati. Trump ha definito il governo di Maduro un «cartello narcoterrorista» e le informazioni disponibili indicano che i tentativi di raggiungere un accordo diplomatico sono stati interrotti dal governo statunitense all’inizio di questo mese. Il 9 ottobre il governo venezuelano ha richiesto una sessione di emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, citando «minacce crescenti» e l’aspettativa di un imminente «attacco armato» contro il proprio Paese. Come bisogna interpretare questa drammatica escalation della politica statunitense?
Washington ha considerato a lungo l’America Latina il proprio «cortile di casa», come affermato nella famosa dottrina Monroe del 1823, e avvertiva le potenze europee di lasciare la regione nelle sue mani e non, ovviamente, in quelle dei latinoamericani stessi. Nel corso del XIX e XX secolo, gli Stati Uniti hanno ripetutamente interferito negli affari latinoamericani. Tra i casi recenti più noti, in cui il coinvolgimento statunitense ha oscillato dal sostegno dietro le quinte e dall’appoggio politico all’intervento diretto, vi sono il colpo di Stato del 1954 contro Jacobo Arbenz in Guatemala, il colpo di Stato del 1973 contro Salvador Allende in Cile, l’invasione di Panama nel 1989 – che, come molti hanno sottolineato, presenta sorprendenti parallelismi con le attuali azioni di Trump contro il Venezuela, – il rovesciamento del presidente haitiano Jean-Bertrand Aristide nel 1991 e poi di nuovo nel 2004, e il colpo di Stato perpetrato in Honduras nel 2009.
Negli ultimi venticinque anni, tuttavia, il Venezuela ha subito più tentativi di provocare un cambio di regime istigati dagli Stati Uniti rispetto a qualsiasi altro paese latinoamericano. L’ossessione di Washington al riguardo è iniziata pochi anni dopo l’elezione di Hugo Chávez alla presidenza della Repubblica nel 1998, in seguito alla quale gli americani hanno sostenuto numerose iniziative per destituirlo, tra cui il colpo di Stato militare del 2002 e il blocco petrolifero del 2002-2003, che ha colpito il settore economico più importante del Paese. Sia il governo Bush che quello Obama hanno destinato milioni di dollari a esponenti dell’opposizione venezuelana, tra cui l’ultima vincitrice del Premio Nobel per la pace, María Corina Machado, da decenni ardente sostenitrice del rovesciamento violento del governo venezuelano, nonché dei recenti omicidi perpetrati dagli Stati Uniti, fatti convenientemente ignorati dal comitato incaricato di assegnare il premio. Il sostegno di Washington all’opposizione è continuato dopo la morte di Chávez nel 2013 e l’elezione del suo successore, Nicolás Maduro. Obama ha supportato un’ondata di proteste, spesso violente, nel 2014, che ha causato almeno quarantatre morti, e Maduro ha affrontato nel 2017 un’altra ondata di proteste dell’opposizione, a volte anche violente, anch’esse sostenute dagli Stati Uniti.
Nel 2015 Obama dichiarò che il Venezuela rappresentava una «minaccia straordinaria e insolita per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti», un’accusa talmente ridicola che fu respinta persino dai leader dell’opposizione venezuelana quando fu inizialmente pronunciata. Tuttavia, questa dichiarazione fu utilizzata per giustificare l’imposizione di sanzioni al Paese da parte degli Stati Uniti, che contribuirono in modo decisivo alla distruzione dell’economia venezuelana. Come dimostra Francisco Rodríguez in The Collapse of Venezuela: Scorched Earth Politics and Economic Decline, 2012-2020 (2025), sebbene le politiche governative siano state una delle ragioni principali del collasso economico del Venezuela, sono state le sanzioni a rendere praticamente impossibile la ripresa. L’ostilità verso il regime ha poi raggiunto un nuovo livello durante il primo mandato di Trump, che ha applicato una politica di «massima pressione» per rovesciare Maduro. Oltre alle sanzioni punitive, che venivano applicate all’industria petrolifera venezuelana, Trump ha sostenuto la farsa dell’autoproclamazione di Juan Guaidó come presidente del Venezuela nel gennaio 2019. Negli anni successivi, i sostenitori di Guaidó hanno chiesto un intervento umanitario nel Paese guidato dagli Stati Uniti, hanno apertamente sostenuto la coercizione economica statunitense (così come ha fatto la maggior parte dei leader dell’opposizione), hanno esortato l’esercito a ribellarsi contro Maduro e nel maggio 2020 hanno finanziato l’Operazione Gideon, consistente in un’invasione via mare del Venezuela, spettacolarmente mal concepita, da parte di mercenari sostenuti dagli Stati Uniti, che sono riusciti a sopravvivere solo dopo essere stati salvati dai pescatori venezuelani e consegnati alle autorità.
Pertanto, le recenti azioni di Trump devono essere intese come parte di un modello di aggressione statunitense di lunga data nei confronti del regime socialista bolivariano. Tuttavia, esistono anche notevoli differenze rispetto al passato. Da un lato, il governo statunitense ha effettivamente abbandonato la copertura retorica della «democrazia» e dei «diritti umani», utilizzata a lungo, anche durante il primo mandato di Trump, come scusa per la belligeranza contro il Venezuela. Oltre a questa retorica, in precedenza si era insistito notevolmente su un’apparenza di multilateralismo: la «presidenza ad interim» di Guaidó, ad esempio, ha ricevuto il sostegno di decine di paesi in tutto il mondo. Sebbene Argentina, Paraguay e Perù si siano allineati con gli Stati Uniti e la Repubblica Dominicana di Abinader abbia partecipato a operazioni congiunte nei Caraibi, l’attuale governo statunitense sembra considerare il sostegno internazionale come qualcosa da utilizzare in un secondo momento, dopo aver agito. La supervisione di Washington sulla regione è sempre stata esercitata all’interno di uno spettro che oscilla tra la forza e il consenso, l’amministrazione Trump ha chiaramente privilegiato la prima: la tendenza sembra orientarsi verso ciò che Ranajit Guha ha definito «dominio senza egemonia».
Il secondo mandato di Trump è stato caratterizzato da una chiara opzione per la forza bruta, come dimostra il suo uso della politica commerciale per costringere i paesi a piegarsi alla sua volontà, come nel caso dell’imposizione di dazi del 50% al Brasile per l’offesa di aver messo sotto processo Bolsonaro. Si considerino anche, tra l’altro, il cambio del nome del Dipartimento della Difesa, ora denominato Dipartimento della Guerra, il dispiegamento della guardia nazionale in diverse città statunitensi, la persecuzione dei suoi nemici politici attraverso i tribunali, nonché il rifiuto di fingere una fittizia unità a seguito dell’omicidio di Charlie Kirk (Trump ha risposto alla dichiarazione di Erica Kirk di aver perdonato l’assassino di suo marito con la frase: «Io odio i miei nemici»). Il bombardamento delle imbarcazioni venezuelane rientra in questo schema. L’unica giustificazione offerta per la perpetrazione di queste esecuzioni extragiudiziali è la necessità di combattere l’indefinito fantasma del narcoterrorismo, categoria che unisce la guerra alla droga e la guerra al terrorismo, e rispetto alla quale il governo Trump non ha fornito alcuna prova a sostegno di tale accusa. Come sostiene Miguel Tinker-Salas, storico venezuelano e professore al Pomona College di Claremont, in California, il governo statunitense ha agito come giudice, giuria e boia. Il messaggio trasmesso dall’uccisione di non combattenti da parte del governo statunitense è: «Faremo ciò che vogliamo e quando vogliamo e non dobbiamo dare spiegazioni né giustificarci davanti a nessuno».
L’operazione sembra essere in linea con la nuova Strategia di Sicurezza Nazionale, che sarà pubblicata a breve e che, secondo le informazioni disponibili, sostiene un ripensamento della sicurezza emisferica, attribuendo particolare importanza alle relazioni con l’America Latina, alla migrazione e ai cartelli della droga. Tuttavia, l’idea che i bombardamenti di imbarcazioni avranno un impatto significativo sul flusso di droga verso gli Stati Uniti è assurda per il semplice motivo che la stragrande maggioranza della droga proveniente dall’America Latina arriva attraverso il corridoio del Pacifico orientale, non dai Caraibi. Va anche notato che, sebbene il Venezuela sia una rotta di transito per il 10-13% della cocaina mondiale (secondo le agenzie statunitensi), non fornisce assolutamente il fentanil, che causa il 70% dei decessi per droga negli Stati Uniti. L’affermazione del governo guidato da Donald Trump secondo cui Maduro è il capo del Cartel de los Soles è altrettanto inverosimile; gli esperti di criminalità organizzata in Venezuela negano l’esistenza di tale cartello.
Se gli Stati Uniti non stanno bombardando i natanti venezuelani per fermare il traffico di droga, perché lo stanno facendo? Un motivo è il tentativo di Rubio di imporsi sugli altri membri della cerchia ristretta di Trump. L’ossessione del Segretario di Stato per la destituzione di Maduro risale alla sua carriera politica nel sud della Florida e al ruolo cruciale che vi hanno svolto per decenni gli esuli venezuelani e cubani, affiliati all’estrema destra e nettamente anticomunisti. Ci sono altre figure importanti presenti nella cerchia ristretta di Trump che condividono la sua posizione, come il direttore della CIA John Ratcliffe e Stephen Miller. Come sottolinea Greg Grandin, la posizione bellicista di Rubio nei confronti del Venezuela contrasta con quella dell’inviato speciale di Trump, Richard Grenell, che ha sostenuto la necessità di raggiungere accordi con Maduro. Secondo un recente articolo del New York Times, Grenell è riuscito a ottenere concessioni straordinarie dal governo venezuelano, tra cui un accordo che avrebbe dato alle aziende statunitensi un controllo significativo sulle risorse del Venezuela, compreso il petrolio. Trump, tuttavia, ha respinto l’accordo e, secondo tutte le fonti, attualmente favorisce la posizione intransigente sostenuta da Rubio.
Potrebbero anche esserci in gioco una serie di incentivi interni. Il conflitto con il Venezuela fornirebbe una giustificazione per ricorrere all’Alien Enemies Act del 1798, che consentirebbe di espellere i venezuelani, come ha cercato di fare il governo americano. Se si verificasse uno scontro militare, è probabile che i tribunali adottino una posizione più favorevole, consentendo l’espulsione dei venezuelani in quanto considerati una minaccia alla sicurezza nazionale. Tale conflitto distoglierebbe anche l’attenzione da altri problemi rispetto ai quali Trump è vulnerabile, come i documenti di Epstein, che lo hanno tormentato per mesi e che sembrano sul punto di esplodere dopo la vittoria di Adelita Grijalva nelle elezioni speciali in Arizona, che garantisce ai membri democratici della Camera dei Rappresentanti voti sufficienti per obbligare il governo a pubblicare i documenti rimanenti, anche se finora lo speaker repubblicano della Camera, Mike Johnson, si è rifiutato di far prestare giuramento a Grijalva affinché possa occupare il suo seggio (Grijalva ha minacciato azioni legali).
Maduro sostiene che l’offensiva nei Caraibi faccia parte di un nuovo tentativo per un cambio di regime in Venezuela. Trump lo ha negato pubblicamente, ma ci sono indicazioni che stia prendendo sul serio l’idea. Secondo alcune fonti, gli Stati Uniti starebbero preparando un’azione militare in Venezuela. Gli attacchi aerei contro obiettivi nel continente, che costituirebbero un’escalation significativa, potrebbero iniziare entro poche settimane, e Trump ha autorizzato la CIA a compiere azioni sotto copertura nel Paese. Non si può escludere la possibilità che il presidente cambi improvvisamente idea, data la sua storia di capricci e di disinteresse per le operazioni che non procedono senza intoppi. Indipendentemente dall’esistenza o meno di un piano coerente per rovesciare Maduro, sembra chiaro che il governo statunitense spera di provocarlo affinché reagisca. Finora, il presidente venezuelano non ha abboccato. Al di là della mobilitazione delle milizie popolari, la risposta militare del Venezuela si è limitata al volo di due F-16 armati su una nave della Marina statunitense nel sud dei Caraibi. In seguito alla minaccia di un intervento statunitense, sono aumentate le domande sulla preparazione militare del Venezuela. Si sa poco al riguardo, ma recenti articoli pubblicati su media statunitensi specializzati in questioni militari suggeriscono che le difese del Venezuela, sebbene disomogenee, rappresenterebbero un ostacolo importante. Finora, sembra che l’aggressione statunitense abbia rafforzato Maduro sul piano interno. Si consideri, ad esempio, la dichiarazione del Partito Comunista Venezuelano, ferocemente critico nei confronti di Maduro e che considera il suo governo autoritario, illegittimo e anti-operaio, in cui si afferma che, in caso di invasione statunitense, la posizione del partito subirebbe un «cambiamento radicale» in nome della difesa della sovranità del Venezuela.
Per ora, l’amministrazione Trump sembra intenzionata a proseguire la sua politica di affondamento delle imbarcazioni venezuelane. I tentativi del Congresso di ostacolare questa politica sono stati finora infruttuosi: c’è stata una votazione sulla «War Powers Resolution to End Unauthorized Hostilities in Venezuela», presentata dalla deputata Ilhan Omar, ma è stata respinta per tre voti. Per lo più, l’opposizione dei Democratici si è avvalsa di ragioni procedurali, riassunte dalla senatrice del Michigan Ellisa Slotkin, che si è lamentata del fatto che «se il governo Trump vuole entrare in guerra contro un’organizzazione terroristica, deve rivolgersi al Congresso, informarci e chiedere la nostra approvazione», aggiungendo: «Io, in realtà non ho alcun problema a combattere i cartelli». A livello internazionale, il presidente colombiano di sinistra Gustavo Petro ha definito i bombardamenti dei natanti un «atto di tirannia», e nella riunione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 10 ottobre, Russia e Cina hanno condannato con forza le azioni di Trump; altri diplomatici europei e africani si sono guardati bene dall’esprimere critiche. Se la guerra sia davvero all’orizzonte rimane una questione aperta, ma Caracas ha buoni motivi per temere il peggio.
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Gabriel Hetland è professore associato presso l’Università di Albany, State University of New York, specializzato in Studi latinoamericani e caraibici. Autore di Democracy on the Ground.Local Politics in Latin America’s Left Turn (2023).

