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- Shubhanga Pandey

- 19 nov
- Tempo di lettura: 11 min
Rivolta sull’Himalaya

L’irruzione di nuove masse popolari sulla scena politica ha scatenato una crisi irreversibile del sistema politico nepalese, la cui trasformazione strutturale dipende tuttavia dalla capacità di questi nuovi soggetti politici di diventare forze realmente antisistemiche e veramente costituenti.
Questo testo è stato pubblicato su «Sidecar», il blog della «New Left Review», rivista pubblicata a Madrid dall’Istituto República & Democracia di Podemos e da Traficantes de Sueños.
Quando migliaia di adolescenti e ventenni nepalesi si sono riuniti l’8 settembre scorso nel quartiere degli edifici governativi di Kathmandu, per la maggior parte di loro si trattava della prima esperienza politica. Il fattore scatenante immediato delle proteste, che già da diversi giorni stavano prendendo piede, è stato la mesa al bando da parte del governo di oltre due dozzine di social media. Ma i manifestanti della «Generazione Z», come sono stati soprannominati, avevano obiettivi più ampi: l’élite politica cleptocratica del Nepal, con i suoi stili di vita opulenti esibiti sui profili social dei propri figli, ignari delle difficoltà affrontate dai nepalesi comuni. Gli eventi hanno presto preso una piega violenta e sorprendente, quando la polizia ha aperto il fuoco sui manifestanti disarmati, dopo che alcuni di loro avevano abbattuto le barriere di protezione erette vicino al Parlamento. Diciannove persone sono morte in poche ore e centinaia sono state ricoverate in ospedale. Proiettili di gomma e proiettili veri hanno continuato a fischiare fino a notte fonda.
La violenza ha catalizzato la più grande rivolta urbana nella storia moderna di Kathmandu. Il 9 settembre, folle inferocite hanno incendiato la capitale, dando fuoco a ministeri, tribunali, case di politici e di magnati dell’industria, stazioni di polizia e aziende. Scene simili si sono ripetute in tutto il Paese, col risultato di ridurre in cenere i simboli locali dell’autorità. La rivolta ha attirato molti più partecipanti rispetto al numero di coloro che erano stati attaccati il giorno prima, compresi sostenitori di partiti politici e gruppi di sottoproletari alleati con monarchici e nazionalisti indù. Il ministro degli Affari esteri e suo marito (un ex primo ministro) sono stati aggrediti nella loro casa. Il primo ministro K. P. Sharma Oli si è dimesso e si è rifugiato in una caserma dell’esercito; il presidente del Paese è stato messo in isolamento. Ad eccezione delle truppe che pattugliavano le strade, lo Stato sembrava essere scomparso. Il numero finale dei morti ha superato i settanta, mentre il numero dei feriti è salito a duemila.
Poco dopo la caduta del governo, l’esercito, che ha assunto un ruolo politico attivo per la prima volta nella storia moderna del Paese, ha invitato il movimento di protesta a nominare un rappresentante per formare un governo. Sushila Karki, una giudice in pensione di 73 anni, nota per la sua integrità professionale, è stata scelta con una sorta di sondaggio fatto in una chat dell’applicazione di messaggistica istantanea Discord. Il Parlamento è stato sciolto e il governo provvisorio di Karki, formato da tecnocrati e funzionari senza affiliazione partitica e sostenuto dal movimento, ha avuto l’incarico di indire elezioni entro sei mesi.
Questi eventi segnano una rottura senza precedenti nella politica nepalese. A prima vista, questa rivolta ha provocato il rovesciamento del governo apparentemente più forte degli ultimi anni, una coalizione guidata dal Partito Comunista Nepalese (Marxista-Leninista Unificato) di K. P. Oli e sostenuta dal Congresso Nepalese di tendenza liberale, che godeva di una maggioranza di due terzi nel Parlamento nazionale. Ma le ultime settimane suggeriscono che sono in atto cambiamenti più profondi nella politica nepalese: due generazioni di politici, che hanno dominato la vita pubblica dall’inizio degli anni ‘90, sono state emarginate, almeno per il momento, ed è stato messo in crisi l’ordine politico in vigore dal trionfo del movimento democratico nel 2006. Lo smantellamento della monarchia autocratica indù del Nepal e il processo di inclusione dei maoisti, un tempo ribelli, come forza legittima nella politica democratica sono stati supervisionati dai principali partiti nepalesi, il Congresso Nepalese e il Partito Comunista Nepalese (Marxista-Leninista Unificato), entrambi ora screditati ed emarginati.
In realtà, questo accordo post-2006 – ufficialmente fondato sul trittico secolarismo, federalismo e repubblicanesimo – ha sempre rispecchiato le divisioni irrisolte di tipo regionale, etnico, di casta e di classe. La Costituzione del 2015, andata in porto dopo un decennio di false partenze, ha rappresentato un compromesso inadeguato. Da allora, i principali partiti nepalesi hanno iniziato in pratica a convergere, diventando oligopoli politici praticamente indistinguibili, senza praticamente alcuna opposizione e apparentemente impermeabili agli scandali sempre più gravi che affliggono il Paese. Il potere ruota tra coalizioni intercambiabili formate dai tre partiti principali, mentre la carica di primo ministro passa da uno all’altro degli stessi tre leader (K. P. Oli ricopriva la carica di primo ministro per la quarta volta).
La rivolta non solo ha spazzato via questo sistema, almeno temporaneamente, e con esso le vecchie strutture di clientelismo politico organizzate finora dai quadri dei rispettivi partiti; altrettanto inequivocabile è il crollo di un’intera grammatica ideologica, che stava a fondamento del pensiero e del dibattito politico in Nepal fin dagli anni '60. Si trattava di un linguaggio di diritti, redistribuzione e status, portato avanti dai gruppi liberali e di sinistra, che perseguivano la democrazia parlamentare e intendevano affrontare le divisioni di classe e regionali realmente esistenti nel Paese. L’istituzione di una repubblica laica è stato il grande successo ideologico di questo linguaggio politico. I suoi principali sostenitori – i partiti politici, le ONG e la stampa – sono oggi, tuttavia, tra le istituzioni più screditate del Nepal. Offuscate dal loro legame con un ordine politico corrotto, questi ideali hanno lasciato il posto a slogan contro la corruzione – forse il motto del movimento – e a favore del buon governo e del merito.
Il Nepal è il terzo Paese della regione in cui una rivolta popolare ha rovesciato il governo negli ultimi anni: le proteste nepalesi seguono le rivolte che hanno rovesciato la dinastia Rajapaksa in Sri Lanka nel 2022 e il regime di Sheikh Hasina in Bangladesh nel 2024. I tre movimenti erano guidati da una popolazione urbana, spesso composta da migranti recentemente arrivati nelle città, che non erano stati integrati nelle rispettive economie nazionali, tutte caratterizzate da una grande disuguaglianza. Tuttavia, i manifestanti dello Sri Lanka e del Bangladesh hanno sfruttato strategicamente le reti di attivisti e le formazioni politiche esistenti, sia quelle di recente creazione che quelle già consolidate. L’Aragalaya, nome dato al movimento di protesta dello Sri Lanka, ha unito sindacati, federazioni studentesche e vari collettivi di attivisti; in Bangladesh la mobilitazione guidata dagli studenti ha ricevuto il sostegno del partito di opposizione Bangladesh Nationalist Party e dell’Islamic Assembly of Bangladesh. La rivolta in Nepal, al contrario, è stata caratterizzata da una profonda ostilità nei confronti dei partiti politici ed è stata in gran parte estranea ad altre istituzioni tradizionali di azione collettiva, come sindacati, gruppi studenteschi e associazioni professionali. Tali istituzioni non sono riuscite a offrire spazio alla popolazione giovane del Nepal, ma hanno spesso fatto da porta d’accesso al lucroso mercato della fornitura di servizi pubblici, monopolizzato dai tre grandi partiti, un sistema che ha alimentato la corruzione tra le élite e il risentimento tra i giovani emarginati. In questo contesto, la messa al bando dei social media, fatto che ha scatenato la protesta, è stata vista come un attacco all’unico spazio collettivo su cui i giovani nepalesi sentivano di avere un certo controllo.
Il rifiuto dei vecchi modelli politici è stato alimentato da diversi processi ed eventi. Il Nepal non ha subito un collasso economico debilitante né un’inflazione galoppante, come invece è accaduto in Sri Lanka, né una repressione governativa prolungata, come è avvenuto in Bangladesh. Tuttavia, il reddito pro capite è di 1400 dollari all’anno, uno dei più bassi della regione, e i nepalesi hanno visto scarsi miglioramenti nelle loro prospettive economiche negli ultimi anni, nonostante la riforma costituzionale del 2015 e la sua retorica inclusiva. Circa l’80% della popolazione lavora nel settore informale del Paese, spesso in condizioni precarie e con salari bassi, e oltre il 20% dei giovani è disoccupato. Negli ultimi tre decenni, la principale valvola di sfogo per questa pressione demografica di sottoccupazione giovanile è stata l’emigrazione di manodopera su larga scala, che l’accordo post-2006 non è riuscito a frenare. Tra il 2008 e il 2022, 4,7 milioni di nepalesi, in un Paese di 30 milioni di abitanti, hanno ottenuto nuovi permessi di lavoro per emigrare. Le rimesse inviate dall’estero al Nepal rappresentano un terzo del PIL nepalese, superando il totale degli aiuti e degli investimenti stranieri. (Casi di corruzione, che coinvolgono ministri del governo, hanno riguardato il rilascio di visti o programmi di reinsediamento di rifugiati legati al traffico di lavoratori).
La destinazione principale della classe rurale, spesso proveniente da famiglie che abbandonano l’agricoltura, sono le economie emergenti del Golfo e del Sud-Est asiatico. Nel 2023 oltre 770.000 nepalesi hanno ottenuto permessi di lavoro per lavorare in queste regioni. Si parla meno del numero considerevole di membri della piccola borghesia e della classe media di estrazione urbana che sono emigrati in Occidente, di solito con il pretesto di proseguire gli studi superiori. In realtà, una parte importante dei manifestanti era costituita da studenti, molti dei quali speravano che un titolo universitario e un passaporto garantissero loro una posizione migliore all’interno della forza lavoro di reserva globale. Da notare, d’altra parte, l’esodo molto più consistente di nepalesi verso l’India, sia per motivi di lavoro che di istruzione, nonché la massiccia emigrazione attraverso reti illegali.
Il movimento di protesta – all’interno del quale molti dei partecipanti provenivano da contesti provinciali e spesso da caste inferiori – rappresenta un luogo di convergenza di questi segmenti socialmente eterogenei. Il loro modus operandi spontaneo e orizzontale è in parte il risultato della loro esperienza generazionale. La loro memoria di un’azione collettiva non si richiama all’insurrezione maoista dei primi anni ‘90 e 2000, ma al volontariato di base in risposta ai terremoti del 2015. Grazie all’economia globale delle donazioni e alla diffusione della cultura delle ONG in Nepal, le organizzazioni non profit gestite dai giovani sono proliferate, affrontando problemi di ogni tipo, dalla carenza di cibo alle molestie sessuali fino alla discriminazione di casta. Tra i coordinatori delle proteste dello scorso settembre c’era una di queste ONG, Hami Nepal, nata dopo il terremoto e cresciuta durante la pandemia di Covid-19. Per chi è lontano dalla politica convenzionale, queste mobilitazioni decentralizzate sono diventate un modo per essere politici senza fare politica in modo tradizionale.
Ideologicamente, l’immaginario di coloro che hanno guidato le proteste è stato anche formato da un’ecologia dell’informazione radicalmente trasformata. Un uso maggiore dei telefoni cellulari e un acceso più semplice ed economico ai dati hanno eroso il dominio del giornalismo e dell’analisi tradizionali, dando vita a uno spazio mediatico alternativo, che tende al reazionario e devia facilmente verso il complottistico. Le piattaforme che diffondono voci contrarie all’establishment eclissano i media tradizionali in termini di influenza e partecipazione. In questi spazi, la politica nazionale è spesso considerata un’estensione della competizione tra le grandi potenze, mentre i politici e i giornalisti sono visti come servitori delle agenzie di intelligence straniere. È interessante notare che gli immobili della più grande azienda mediatica del Nepal erano tra gli edifici incendiati il 9 settembre. Cresciuti in questa sfera pubblica trasformata, i giovani nepalesi sono spesso profondamente scettici nei confronti della politica tradizionale. Dato che la politica non è più considerata un mezzo per mediare tra gli interessi e le idee in conflitto nella società, prevale una sorta di demonologia politica fatta di «agenti», «infiltrati» e «traditori». Le teorie un po’ confuse che spiegano il mondo ed esagerano la posizione del Nepal nelle questioni globali mantengono un fascino seducente per settori importanti della popolazione.
Il risultato della transizione politica in corso, sebbene impossibile da prevedere con certezza, dipenderà in parte dall’interazione delle forze e dei gruppi di interesse che competono per ottenere influenza. Un angolo dell’arena politica è occupato dal governo provvisorio di Karki, i cui funzionari mantengono legami segreti con i manifestanti; in un altro siedono, screditati, ma anche scontenti e potenzialmente poco collaborativi, i tre principali partiti. A causa dei fallimenti mortali dei loro vecchi leader, c’è da aspettarsi che si verifichino lotte interne per il loro controllo. Tuttavia, nonostante la loro impopolarità, la loro capacità organizzativa rimane ineguagliabile. Un terzo blocco chiave è costituito dai sindaci indipendenti recentemente eletti, alcuni dei quali sono arrivati a raccogliere un seguito su scala nazionale, e da una manciata di partiti di recente creazione, la cui fama sui social media compensa la loro mancanza di organizzazione e di struttura ideologica coerente. Sebbene questi attori siano in contrasto tra loro, condividono un obiettivo comune: la caduta del vecchio sistema. Anche i monarchici e i nazionalisti indù aspettano dietro le quinte. Sostenuti da provocatori ben finanziati, hanno cercato di trasformare la crisi in caos nella speranza di minare la fiducia dell’opinione pubblica nella repubblica laica. Infine, ci sono diversi partiti di livello regionale che affermano di rappresentare comunità etniche emarginate. Nati dalla promessa di decentralizzazione fatta dopo la guerra civile, queste forze, un tempo potenti, continuano a diffidare di qualsiasi minaccia alla struttura federale del Nepal. E, infine, c’è l’esercito, pronto a intervenire nuovamente se l’ordine pubblico dovesse crollare.
Sebbene il governo di Karki goda di una buona dose di fiducia da parte dell’opinione pubblica, è fragile, il che è in parte dovuto alla natura del movimento senza leader che, in teoria, lo guida. Nessuno sa se coloro che affermano di rappresentarlo tengano presente le tendenze espresse dalle chat, leggano lo stato d’animo della strada o semplicemente prendano le loro decisioni tra di loro. Il governo è anche gravato da aspettative divergenti, e talvolta contraddittorie. Sebbene il suo obiettivo principale sia quello di indire le elezioni, ci si aspetta anche che il governo indaghi sugli omicidi dell’8 settembre scorso e sui disordini del 9. Molti si aspettano che avvii indagini sui principali scandali di corruzione e persegua i colpevoli. Tuttavia, il fattore decisivo è forse la posizione del governo rispetto alla Costituzione del 2015. Creata dai tre partiti oggi destituiti, la solidità delle sue disposizioni fondamentali è sempre più messa in discussione e alcuni sostengono che tale Costituzione dovrebbe essere completamente abrogata. L’uso del sistema proporzionale nelle elezioni parlamentari e l’istituzione di governi provinciali nell’ambito di una struttura federale sono stati oggetto di critiche specifiche. Da parte loro, i rappresentanti del movimento chiedono che un esecutivo eletto dal popolo sostituisca il primo ministro espressione della volontà del Parlamento, presupponendo così che il governo sarebbe meno prigioniero della politica dei partiti. Queste iniziative costituzionali potrebbero aprire nuove divisioni, anche tra il governo ad interim e i protagonisti delle proteste.
Anche le attività di attori non statali possono rappresentare delle difficoltà. Dall’inizio delle proteste, i media tradizionali, gli opinion leader e le persone influenti della regione e dall’estero si sono impegnati a fondo per attribuire il cambiamento di regime, di volta in volta agli Stati Uniti, all’India o alla Cina, a seconda di chi si esprime. Il conduttore televisivo di estrema destra Arnab Goswami, ad esempio, preoccupato per il deterioramento delle relazioni dell’India con gli Stati Uniti, suggerisce che quest’ultimo Paese abbia avuto un ruolo nelle proteste, vedendole come un’ulteriore prova – dopo Colombo e Dacca – dell’accerchiamento e dell’isolamento strategico dell’India. Non va sottovalutato il potere di questi discorsi nell’influenzare la politica in Nepal. I militanti nazionalisti indù degli Stati settentrionali dell’India, che hanno cercato attivamente partner nella politica nepalese, pongono minacce concrete di altro tipo.
Ma il futuro politico immediato del Nepal dipende in gran parte dall’evoluzione della sua «Generazione Z», un’espressione che crea confusione più di quanto spieghi. L’8 settembre, era incentrato su un gruppo informale di studenti delle scuole superiori e universitari, alcuni online, altri nelle strade. Il giorno dopo, con il Paese in fiamme, l’espressione «8 settembre» era diventata una categoria politica e le folle di giovani che manifestavano contro il divieto dei social media si sono ritrovate improvvisamente al centro di una rivolta esistenziale. Tuttavia, con il placarsi del fervore della ribellione e in assenza delle strutture organizzative e del bagaglio ideologico dei movimenti più convenzionali, la coalizione dei giovani nepalesi potrebbe andare incontro a dispersione o addirittura a fratture, soprattutto se le vie per emigrare si restringono. Dallo scoppio delle proteste, gli Emirati Arabi Uniti hanno smesso di rilasciare visti di lavoro e di viaggio ai cittadini nepalesi, mentre Australia, Canada e Stati Uniti hanno inasprito le loro politiche, che colpiscono sia gli studenti internazionali che i potenziali migranti. La riduzione delle opportunità economiche può mettere a dura prova la solidarietà politica in un momento in cui la sua necessità è sempre più sentita.
La calma è tornata nelle strade di Kathmandu, ma è una calma che esprime sia la disperazione collettiva che il raggiungimento di un risultato trionfale. Il disincanto da solo è qualcosa di rischioso su cui costruire alleanze. Tuttavia, il fatto che giovani di origini e background sociali molto diversi si siano decisamente lanciati nel campo della politica può essere un segnale di un futuro migliore, o almeno così sperano molti. Saranno i prossimi sei mesi a dirlo.
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Shubhanga Pandey è dottoranda presso il Dipartimento di Storia dell’UCLA ed ex redattrice capo di «Himal Southasian».

