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konnektor

  • Immagine del redattore: Romeo Orlandi
    Romeo Orlandi
  • 14 lug
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 10 set

The other side of the moon # 1: Assenza, negazioni e spessore di Xi Jinping

Chip Codella
Chip Codella

Il testo analizza il ruolo crescente della Cina nei Brics e sulla scena globale, guidata dall’ambiziosa politica estera di Xi Jinping. Pur assente al vertice di Rio, Xi ha influenzato le linee guida dell’organizzazione, sempre più alternativa all’Occidente. La Cina punta a rafforzare la propria posizione economica e politica con prudenza, attraverso iniziative come la Belt and Road e una crescente centralizzazione del potere interno. Il modello cinese, efficace nel suo contesto, non è esportabile nei paesi democratici. Xi rappresenta il volto di un esperimento unico di sviluppo e affermazione globale.


 «the other side of the moon» è una rubrica del reparto konnektor a cura di Romeo Orlandi.

L’Asia è lontana, si mantiene invisibile, si conferma differente. Proprio come l’altra faccia della luna: non la vediamo mai. Eppure cresce, ritrova l’orgoglio, rimette a posto le lancette della storia. La «rotazione sincrona» non funziona più, è tempo di conoscere l’oscurità, la diversità, anche il pericolo. L’Asia vista con lenti disincantate; senza orientalismi, esotismi, paure, tentativi di imitazione. Realismo nell’analisi, analisi prima dello schieramento.

Il Presidente cinese non è andato a Rio de Janeiro il 6-7 giugno per il 17° vertice dei Brics Plus. La sua assenza è stata notata, non più di quanto avrebbe fatto la sua partecipazione. Il summit si è svolto senza di lui – sostituito dal Primo Ministro Li Qiang – ma le sue conclusioni risultano allineate con quanto Xi Jinping auspicava. Il comunicato di chiusura è stato dettato da posizioni prudenti. Il cemento dell’organizzazione si è rafforzato, l’unità dei partecipanti estesa, la contrapposizione agli Usa, all’Ue e a Israele contenuta. I dieci paesi membri hanno riaffermato la loro alterità all’Occidente sulle questioni di fondo – dialogo, crescita, multilateralismo, transizione verde – pur evitando toni bellicosi. Era esattamente quello che voleva Xi.


Dalla loro nascita nel 2009 l’organizzazione dei Brics – ora sempre meno informale – ha visto numerosi sviluppi. Da semplice acronimo (Brasile, Russia, India, Cina e successivamente Sudafrica) ha raddoppiato i partecipanti, con l’inclusione di Egitto, Etiopia, Emirati Arabi, Iran e Indonesia. Tiene meeting annuali, si è dotata di una segreteria, ha una lunga lista di attesa per nuovi membri, e soprattutto ha fondato una Banca multilaterale – la New Development Bank con sede a Shanghai – che finanzia progetti di sviluppo. Se l’Istituto è considerato alternativa alla World Bank, per analogia i paesi Brics sono classificati come concorrenti del G7. Pochi numeri confermano la validità di tale suggestione: rappresentano quasi la metà della popolazione, più del 30% del Pil mondiale. La differenza in valore assoluto con quello del G7 si va assottigliando speditamente. Se calcolato con il metodo PPP (Purchasing Power Parity, a parità di potere d’acquisto) i paesi Brics hanno superato in totale quelli del G7 da alcuni anni. Questa combinazione di prestazioni e di dimensioni è dovuta in larga parte alla Cina, che ne rappresenta approssimativamente la metà del peso totale.


La evidente eterogeneità dei paesi Brics non costituisce un ostacolo alle ambizioni cinesi. Paradossalmente, proprio la mancanza di unità ideologica rende inutile e probabilmente dannosa la necessità dello schieramento. La supremazia di Pechino è nei fatti; non va imposta ai partner ed esposta come minaccia ai paesi industrializzati. Il nemico per i Brics continua a essere il sottosviluppo, non necessariamente il capitalismo. Più del Sol dell’Avvenire, conta raggiungere migliori condizioni di vita per popolazioni immense che finora non hanno intercettato i vantaggi della globalizzazione. Nel rispetto delle forme in un’Associazione tra pari, Pechino guida un nuovo schieramento, variamente chiamato Global South, Paesi Emergenti, Nuovo Terzo Mondo.


Anche se le transazioni intra Brics in renminbi (la valuta cinese) sono in aumento, Xi e gli altri leader sono consapevoli che una partita decisiva si giocherà sulla capacità di creare una moneta comune accettata dalla comunità internazionale. Ancora oggi la grande maggioranza degli scambi avviene in dollari e la moneta statunitense continua a essere accettata nel mondo perché considerata sicura. Questa supremazia concede a Washington la possibilità di finanziare i propri disavanzi con margini inesistenti per gli altri paesi. La Cina svolge un ruolo conosciuto nei twin deficit statunitensi. Da un lato aggrava quello commerciale, con un suo attivo che negli ultimi anni ha variato da 300 a 500 miliardi di dollari. Dall’altro – si potrebbe dire con gli stessi soldi – finanzia il deficit di bilancio americano. Più prosaicamente: con i ricavi delle biciclette vendute a WalMart la Cina compra titoli di Stato, cioè porzioni di Stati Uniti.


Si tratta di una situazione oggettivamente insostenibile e che sta dando luogo alle reazioni di Trump. Tuttavia su questo squilibrio, su questa credit card mentality americana, si basano molte delle fortune economiche della Cina e degli altri paesi esportatori. Ogni variazione di questo assetto provocherebbe – lo sta già facendo – crisi potenzialmente incontrollabili. Per la Casa Bianca il problema viene acuito dalle dimensioni della Cina, che inoltre, al contrario di Giappone, Germania, Italia e Corea del Sud, non ha truppe di Washington sul proprio territorio. Infine, è tra le potenze vittoriose della Seconda guerra mondiale, siede permanentemente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, possiede un arsenale nucleare. Cosa accadrebbe se Pechino smettesse di acquistare Treasury Bond statunitensi, se ne richiedesse la restituzione, se gli Stati Uniti disattendessero la richiesta? Gli scenari sono ovviamente preoccupanti, si tratterebbe – affermano gli analisti più acuti – di una financial nuclear option. Ugualmente, la nascita di una nuova moneta controllata dai Brics sarebbe un’accelerazione probabilmente non tollerata. Ecco perché la Cina sceglie di procedere con prudenza, senza clamore, come se la sua avanzata appartenesse all’ordine naturale delle cose.


L’intera politica estera che Xi ha impresso alla Cina è ambiziosa. Si dirige verso ovest con la Belt and Road Initiative, un immenso reticolo di tragitti e progetti che tendono al decollo economico. Ne sono interessati 140 paesi nei quali verranno costruite infrastrutture per facilitare gli scambi. Il pragmatismo è la matrice di questa impresa gigantesca; non sfuggono ovviamente le implicazioni politiche che renderanno la Cina più forte e inattaccabile. L’altro versante dell’assertività cinese risiede invece nel Mar Cinese meridionale dove Pechino rivendica con forza alcune isole, atolli, scogli che ne sposterebbero i confini marittimi migliaia di chilometri più a sud. Si tratta in entrambi i casi di una politica estera inedita per la Cina. La timidezza di un paese impegnato a sconfiggere il passato e a calamitare gli investimenti internazionali è ormai al tramonto. La Cina è diventata forte da rivendicare il suo ruolo storico: riscuotere cioè i dividendi politici dei successi economici.


Tutto ciò ha bisogno contemporaneamente di continuare la crescita e di mantenere il controllo. Il timone in mano a Xi è la conseguenza dell’inasprirsi della situazione politica. La Cina factory of the world sta esaurendo il suo compito. La povertà è stata sconfitta e l’immenso opificio mondiale dove si produce tutto per tutti a prezzi bassi è ormai platealmente insufficiente per Pechino. Per rialzare la testa, per evitare un altro «secolo delle umiliazioni» è necessaria una guida forte e autorevole. Non ci sono spazi – l’Occidente avrebbe dovuto capirlo prima – per riforme democratiche, partecipazione dei cittadini alla vita politica, dissenso, autonomia delle minoranze, dialettica sociale o parlamentare. Pechino svela il suo Chinese dream of rejuvenation e propone il suo volto nazionalista, peraltro mai nascosto. Risfodera l’orgoglio, mette da parte la sua titubanza, smentisce l’aspettativa che si sarebbe omologata agli standard del liberismo. Non è più timida o defilata per non intimorire governi e multinazionali, quando le era vitale attrarre investimenti stranieri.


Ora la Cina, seppur ancora un paese di reddito medio, mette in gioco la sua stazza, la sua storia, la sua omogeneità culturale. La politica, le scelte di Xi Jinping ne sono la conseguenza. Il Presidente rappresenta per il suo paese la migliore guida verso un percorso pressoché obbligato. Certamente la sua impronta non è marginale, le sue caratteristiche non irrilevanti. Accetta volentieri un compito rischioso e difficile. La sua biografia è costellata di trionfi e sofferenze, il suo pedigree è impeccabile.


Princeling, cioè figlio principino di un alto dirigente del Pcc poi tormentato dalla Rivoluzione Culturale, Xi ha conosciuto l’asprezza di condizioni di vita spartane, di umiliazioni, di una lunga penitenza prima di essere ammesso nel Partito. È ingegnere, ideologo, propagandista, perfetto conoscitore della macchina politica. La sua intelligenza è brillante, la competenza è indiscutibile. Dopo una lunga carriera in diverse Province, conquista la carica di Segretario generale (ben più importante di quella di Presidente della Repubblica) nel 2012. Da allora modella senza esitazione il suo Partito: elimina gli oppositori, usa la lotta alla corruzione come strumento politico, non pone limiti ai suoi mandati, accentra alla sua Segreteria compiti che normalmente attengono all’Esecutivo. Ottiene quello a cui ambiva: rafforzare la Cina e il proprio ruolo. In campo internazionale suscita timore, riceve minacce, riscuote ammirazione. Si tratta di una miscela ineliminabile per chi governa la transizione di un paese così importante.


Di fronte a successi finora indubbi, almeno tre interrogativi sorgono nell’Occidente industrializzato.


1)  È possibile – o addirittura auspicabile – trarre esempio dall’esperienza politica cinese, cioè dal suo imprinting ideologico? La risposta è negativa, senza alcun dubbio. Il controllo, il pensiero unico, la storia intrisa di nazionalismo, l’assenza di un dibattito plurale sono tutti incompatibili con società moderne, avanzate, dove anche gli antagonismi non rinunciano alla dinamica sociale. La Cina rimane un paese di eccezione.


2) È applicabile un modello di sviluppo che conduca ai risultati economici conseguiti dalla Cina? No, ugualmente. Il comando sulla forza lavoro è totale, i sindacati non sono antagonisti, il dissenso in fabbrica viene confinato a rivendicazioni secondarie. Siamo lontani anni luce dal fordismo e dal post-fordismo. La lotta di classe come motore dello sviluppo è una sofisticazione ancora irraggiungibile per Pechino.


3) Su un versante marcatamente anticapitalista, può la Cina raccogliere l’opposizione al liberismo, unificare teoricamente le nuove soggettività, costituire la sintesi per condurre le istanze di lotta e di liberazione verso l’uguaglianza e la liberta? Certamente no, e a distanza di 60 anni queste suggestioni vetero marxiste dovrebbero veramente essere archiviate come ricordi singolari. E poi, infine, Pechino non è minimamente interessato a sventolare questa bandiera.


Rimane in conclusione, dentro la Grande Muraglia, un esperimento titanico e originale di progresso, un impegno che ha condotto fuori dalla povertà centinaia di milioni di persone, il riscatto sociale e politico – avvenuto pacificamente – di una civiltà millenaria. Di questo percorso, la figura imponente e complessa di Xi Jinping – serio, rigoroso, inflessibile – rappresenta sia l’approdo che la ripartenza. Non meraviglia che la sua barca che si appresta a salpare sia sempre più affollata di seguaci.

 

Romeo Orlandi è Presidente del think tank Osservatorio Asia, Vice Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN, economista e sinologo. Ha insegnato Globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi Master post universitari.

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