konnektor
- Romeo Orlandi
- 29 set
- Tempo di lettura: 6 min
The other side of the moon # 3:
Asia Meridionale, dove l’insurrezione è la regola

La protesta non va radicalizzata, si vince al centro, senza una chiara linea politica non si va da nessuna parte, se non ricordiamo da dove veniamo non sapremo mai dove andiamo, abbiamo bisogno di un partito strutturato, i social media distruggono la teoria e impediscono la prassi, ci vogliono sempre prudenza, lungimiranza, preparazione dei dirigenti. Gli asiatici poi sono indolenti, contadini dediti al lavoro nei campi e alla preghiera. Infatti: tre insurrezioni in tre anni. Impreviste, esplosive, vittoriose. Tutte nel sub-continente indiano, ai margini dell’ex impero britannico dissoltosi con l’indipendenza e la nascita di nuovi Stati nel 1947.
Il Nepal è un paese himalayano incastonato tra la Cina a nord e l’India a sud. Ha 32 milioni di abitanti; è grande metà dell’Italia. Nel 2008, dopo 240 anni, l’ultima dinastia monarchica è stata abbattuta da una rivoluzione guidata da un partito comunista maoista. Da allora è in vigore una costituzione democratica e le urne vedono l’alternarsi di compagini alla guida del paese, tutte di sinistra: dal Congresso (modellato su quello indiano), ai comunisti, ai marxisti-leninisti. Il 12 settembre 2025 l’esecutivo si è dimesso, dopo che la protesta di piazza era divenuta ingestibile. Tutto era cominciato pochi giorni prima. Il governo aveva messo fuori legge le piattaforme social, per un cavillo legale. Sì è trattato della miccia che dava fuoco alla prateria ormai secca. La rabbia di non poter dialogare, la violazione di diritti di base, l’impossibilità di comunicare con la diaspora che sorregge l’’economia nepalese è diventata incontenibile. I figli delle élite ostentavano invece – proprio sugli stessi social media – la loro vita lussuosa, lontana sideralmente dalle privazioni della popolazione. La miscela della rivolta è stata completata dalle accuse di incompetenza, corruzione e nepotismo che i governi nepalesi debbono regolarmente fronteggiare. I giovani della Gen Z (qualsiasi cosa voglia dire) hanno capeggiato la rivolta. Sono scesi in strada e hanno lasciato molte vittime sull’asfalto, uccise dalle forze dell’ordine. Poi hanno ripreso vigore e attaccato il parlamento, la Corte Suprema, i Ministeri, le sedi dei partiti di governo. Hanno travolto i militari di guardia, dato fuoco ai palazzi, saccheggiato gli uffici, distrutto le automobili. Negli scontri di quei giorni sono morti almeno 72 dimostranti e 3 agenti. L’ex Primo Ministro KP Sharma Oli – capo di un partito m-l – si è rifugiato in una caserma dell’esercito. Il divieto sui social media è stato revocato, i rivoltosi hanno contribuito a scegliere un nuovo Primo Ministro, ad interim, lontano dalla gerarchia dei partiti. Si tratta di Sushila Karki, un ex alto magistrato, prima donna a capo dell’esecutivo che ha promesso una ricompensa per le vittime della repressione e libere elezioni nel marzo del 2026. L’immagine più diffusa della protesta ritrae i giovani rivoltosi che puliscono con la ramazza le strade di Kathmandu dopo la fine degli scontri.
Il Bangladesh ha la stessa superficie del Nepal, ma registra 180 milioni di abitanti. Fino al 1971 faceva parte del Pakistan, del quale costituiva la porzione orientale. La sua geografia è dominata dai fiumi Gange e Brahmaputra, il cui delta si trova nel Golfo del Bengala. Nel luglio 2024 la protesta sociale era diventata diffusa, radicata, incontrollabile. Il governo della Lega Awami veniva accusato platealmente di incapacità, appropriazione, favoritismi, cessione sospetta di risorse nazionali, brogli elettorali. Gruppi di studenti, militanti di gruppi di estrema sinistra, si erano uniti ai diseredati e ai contadini delle campagne che non trovavano lavoro in città. In un clima incandescente il governo ha scelto di intervenire con una repressione brutale. Luglio è stato il mese della rivoluzione per la democrazia e del massacro. Più di mille manifestanti hanno perso la vita durante gli scontri durati per più di 2 mesi. In seguito, il movimento di protesta ha scelto due strade: la sfida pacifica con assemblee permanenti e occupazioni e la risposta militante. Sono state attaccate caserme di polizia e centri di detenzione. Il 4 agosto l’ex Primo Ministro Sheikh Hasina (al potere da 15 anni, dopo quattro mandati elettorali, figlia dell’eroe dell’indipendenza del 1971, Sheikh Mujibur Rahman) si dimette e fugge in India. Il caos che ne consegue cede poco alla volta spazio a un tentativo di normalizzazione. Il movimento di protesta – incarnato dalla Lega degli Studenti – propone e ottiene la nomina a Premier di Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace, inventore del microcredito, unico ritenuto in grado di curare le ferite di un paese disunito, povero e che a stento riesce a intercettare i vantaggi della globalizzazione asiatica.
Sri Lanka, l’ex Ceylon, ha una popolazione di 24 milioni di abitanti, con una superficie pari a ⅕ dell’Italia. È un’isola nel versante meridionale del sub-continente, chiamata La lacrima dell’India. È un paese ancora povero, ma con livelli di reddito superiori al Nepal e al Bangladesh. Fino al 2022 la vita politica – anche qui scadenzata da competizioni elettorali – è stata dominata dalla famiglia Rajapaksa. Dopo la sconfitta militare delle Tigri Tamil – la cui insurrezione militare nel nord-est del paese è durata 26 anni – la repressione è continuata, mentre il paese non è riuscito a sconfiggere il sottosviluppo. Sono emersi costantemente i limiti di una politica clientelare, dominata dal clero buddhista, incapace di una visione per una crescita solida e costante. La corruzione e stravaganti ambizioni economiche – come l’imposizione di rigide misure ambientali che hanno proibito i fertilizzanti e ridotto le produzioni agricole – hanno condotto il paese verso una crisi economica devastante, con inflazione, svalutazione della rupia, carenza di elettricità, scaffali vuoti e povertà diffusa. Il default del paese era dietro l’angolo, le proteste popolari, ininterrotte, aumentavano di intensità, mentre il Presidente – insensibile alle domande di dimissioni e di nuove elezioni – continuava a scegliere ministri dal suo entourage. Il 9 luglio 2022 i manifestanti si avvicinano alla residenza presidenziale, travolgono le postazioni della polizia a protezione e irrompono nel palazzo. Lì bivaccano, presso un’ostentazione di ricchezza a loro sconosciuta, si fotografano, addirittura si bagnano nella piscina e si esibiscono nella palestra. Il Presidente Gotabaya Rajapaksa si dimette, si nasconde per 4 giorni e vaga in alcuni paesi vicini. Dopo 52 giorni rientra pacificamente a Colombo, atteso da un Presidente a tempo, figura navigata del tradizionale milieu. Due anni dopo, al termine di una incessante campagna elettorale, si insedia un nuovo Presidente. Il 23 settembre giura a Colombo Anura Kumara Dissanayake, dopo aver vinto il ballottaggio con il 60% dei voti. È esponente del Janatha Vimukthi Peramuna (in inglese People’s Liberation Front), una formazione marxista-leninista che ha dato vita a due lunghe guerriglie negli anni ’70 e ’80. Dopo aver attenuato il suo fervore rivoluzionario, il movimento ha intrapreso la via parlamentare, pur se il Presidente continua a definirsi marxista. È probabile che il suo pragmatismo continuerà a prevalere sulla precedente impostazione teorica perché i problemi di lunga data di Sri Lanka avranno bisogno di un approccio realista e di una politica conseguente per bilanciarsi tra le ambizioni egemoniche sull’isola di India e Cina.
Per non ricadere in luoghi comuni speculari a quelli sopra menzionati, vanno evitate facili associazioni analitiche. I tre paesi sono diversi tra loro e le insurrezioni non sono minimamente paragonabili a quelle di Washington e Brasilia. Fanno leva su uno scontento per le condizioni di vita, l’esclusione dalla ricchezza prodotta, l’emarginazione delle campagne. Inoltre, hanno avuto luogo nei paesi politicamente più deboli dell’area e dell’intera Asia Orientale. Sia in paesi vicini dove l’esercito svolge un ruolo importante – come in India e in Pakistan – sia in altri paesi più strutturati seppur coinvolti dalla protesta – come Thailandia e Indonesia – i ricambi istituzionali sembrano più difficili da raggiungere fuori dalle urne. Infine, gli esiti anche di breve periodo rimangono incerti: certamente insurrezione non è sinonimo di rivoluzione. Eppure qualche filo lega le esperienze, qualche insegnamento può essere tratto. Le cause della protesta: l’esclusione, la disuguaglianza, la sfiducia nella rappresentanza politica. Le caratteristiche della lotta: politica più che ideologia, pratica dell’obiettivo, assenza di leader designati, affermazione generazionale. È lo youth dividend, in paesi dove il 40% della popolazione ha meno di 18 anni. Per quanto possa sembrare eccentrico, questo arsenale ha funzionato, almeno nel breve periodo. Se il fardello del passato risulta troppo pesante, per un’insurrezione vittoriosa può essere sufficiente uno zaino leggero.
Romeo Orlandi è Presidente del think tank Osservatorio Asia, Vice Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN, economista e sinologo. Ha insegnato Globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi Master post universitari.