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  • Immagine del redattore: Martijn Konings
    Martijn Konings
  • 7 giorni fa
  • Tempo di lettura: 9 min

Trump: controllo della politica monetaria e governo autoritario?

Scott A Ross
Scott A Ross

Il governo statunitense ha pretese smisurate nella sua brama di potere, ingiuste per la maggioranza, grossolane nella loro concezione e autoritarie nei loro contenuti. E ha capito che deve controllare unilateralmente tutti le leve della gestione macroeconomica per poter giocare le carte belliche e geopolitiche che, a suo avviso, gli consentiranno di arrestare la crisi irreversibile della sua egemonia.


Questo testo è stato pubblicato su «Sidecar», il blog della «New Left Review».


Trump è determinato a piegare la Federal Reserve. Durante l’estate è riuscito a inserire uno dei suoi principali consiglieri economici, Stephen Miran, nel Consiglio dei governatori, ha cercato di destituire un’altra governatrice, Lisa Cook, e ha intensificato la sua lunga disputa con il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell. Trump stesso nel 2018 aveva nominato Powell, un banchiere d’investimento repubblicano, ma il suo impegno a proteggere la banca centrale dalle interferenze politiche lo ha esasperato sin dalla sua rielezione. Come dobbiamo interpretare la campagna di pressione di Trump contro la Federal Reserve? Quali potrebbero essere i suoi effetti sulla formulazione delle politiche economiche? E come dovrebbe reagire la sinistra?


L’obiettivo immediato di Trump è quello di abbassare i tassi di interesse – cosa che secondo lui Powell sta facendo troppo lentamente – al fine di stimolare la crescita economica e ridurre il costo del debito pubblico. La Federal Reserve ha agito con cautela in questo senso, perché una drastica riduzione dei tassi a breve termine aumenterebbe l’inflazione – attualmente è del 3%, al di sopra del suo obiettivo del 2%, e ancora in crescita – il che minerebbe la fiducia degli investitori e farebbe aumentare i tassi a lungo termine. Pertanto, l’ossessione del governo Trump di ridurli non ha molto senso, a meno che questa impazienza non sia sintomo di un’offensiva più ampia per assumere il controllo della politica monetaria. Strategia che potrebbe includere la manipolazione degli indicatori di inflazione (il governo ha dimostrato la sua propensione a manipolare i dati o a ostacolarne la raccolta) o una qualche versione di controllo dei prezzi (“accordi” su favori politici ed economici a settori economici chiave in cambio di un aumento moderato dei prezzi). La questione davvero cruciale, tuttavia, è che il programma di quantitative easing della Federal Reserve serve a porre un rigido limite minimo al ribasso del valore degli asset, mentre il suo impatto sull’inflazione dei prezzi al consumo è molto meno diretto. Controllare tale programma, e rimodellarlo per promuovere interessi in linea con il movimento MAGA, rappresenta il vero premio.


La scorsa settimana, il segretario al Tesoro Scott Bessent ha insinuato che l’ostinazione della banca centrale fosse in parte responsabile delle tendenze recessive visibili in alcuni settori dell’economia. Ha anche utilizzato le pagine del «Wall Street Journal» per attaccare il quantitative easing, accusando la banca centrale di essere diventata un «sostegno de facto per i proprietari di asset», che arricchisce gli investitori a spese del resto della società. Il governo Trump, afferma Bessent, vuole invertire questa tendenza verso un «obiettivo nascosto» e riportare la Fed a occuparsi solo di garantire la stabilità finanziaria. Gli analisti progressisti si sono affrettati a difendere la banca centrale, considerando gli attacchi del governo Trump come un altro fronte nella sua campagna contro le norme e le istituzioni politiche. Paul Krugman, ad esempio, ha denunciato l’intervento di Bessent come «vile, subdolo e sordido», insistendo sul fatto che il quantitative easing era l’unico modo in cui la Federal Reserve poteva mantenere a galla l’economia dopo la crisi finanziaria del 2008. Krugman ha ragione quando afferma che tale politica non rappresenta una cospirazione. Non bisogna, però, dimenticare che le disuguaglianze inerenti alla logica della stabilizzazione macroeconomica provano che la spettacolare crescita della rete di sicurezza finanziaria ha riempito le tasche della classe ricca proprietaria di asset, escludendo al contempo la classe media dalla proprietà immobiliare.


Per quanto corretta sia la sua opinione, la sincerità della critica di Bessent è senza dubbio discutibile. È difficile credere che il segretario al Tesoro – un ex gestore di hedge fund che, con un patrimonio netto stimato di almeno 600 milioni di dollari, è uno dei membri più ricchi del governo più ricco della storia degli Stati Uniti – stia perdendo il sonno a causa dell’aumento delle disuguaglianze. Ed è evidente che la sua opinione sui salvataggi varia a seconda dei beneficiari. Si mostra favorevole quando includono uno spirito politico affine come il presidente Milei, oltre ad alcuni colleghi di vari hedge fund che hanno investito pesantemente nel peso argentino. Al contrario, quando gli è stato chiesto quale sarebbe stata la sua risposta se la città di New York avesse avuto bisogno di aiuti federali affinché il nuovo sindaco Zohran Mamdani disponesse delle risorse necessarie per cercare di risolvere la crisi del costo della vita, ha citato il messaggio di Gerald Ford alla città di New York mezzo secolo fa: «Andate all’inferno». 


Al centro del conflitto c’è una differenza fondamentale tra i diversi approcci alla socializzazione del rischio. Quando un’azienda o un settore sono sotto pressione, la principale preoccupazione della Federal Reserve è la minaccia sistemica che l’una o l’altro possono rappresentare, anche se le misure di stabilizzazione avvantaggiano in primo luogo quelle entità che sono troppo grandi per fallire. L’amministrazione, al contrario, è più interessata a un approccio basato sulla discrezione e sul clientelismo. Sebbene più selettivo, quest’ultimo non è necessariamente più economico. Ad esempio, la Fed potrebbe voler affrontare lo scoppio quasi inevitabile della bolla dell’intelligenza artificiale nello stesso modo in cui ha gestito la fine dell’era dot-com: fornendo ampia liquidità, ma accettando comunque il sostanziale deprezzamento di molti asset tecnologici. È probabile che l’amministrazione Trump voglia offrire molto di più, dato che le aziende tecnologiche sono diventate alleate chiave, rivestendo ruoli strategici nella macchina mediatica di MAGA e nello sviluppo delle capacità di sorveglianza e militari.


Sarebbe difficile per il Dipartimento del Tesoro organizzare da solo tali interventi. Anche in circostanze normali, è necessario il sostegno attivo della Federal Reserve per mantenere «ordinato il mercato» in una situazione di debito pubblico, e ancor più in questo momento in cui quasi certamente dovrà finanziare il deficit federale legato ai periodi di guerra. Il drastico aumento del debito pubblico allontanerebbe ulteriormente i falchi del deficit zero, un gruppo ancora potente al Congresso. Pertanto, il Tesoro di Trump ha bisogno della Fed. L’aspirazione di Bessent non è una banca centrale di dimensioni ridotte, come suggerirebbe la sua retorica, ma un’istituzione che eserciti i propri poteri per promuovere le priorità del potere esecutivo.


Questa “Fiscal Dominance“ volta a sostenere il debito pubblico rappresenta un anatema per gli economisti convenzionali. La critica di Krugman alla discrepanza tra la diagnosi di Bessent – la Fed è stata catturata da interessi particolari – e la sua soluzione – mettere la Federal Reserve nell’orbita del potere esecutivo – è perfettamente azzeccata. Ma possiamo rifiutare la soluzione di Bessent senza salire sulle barricate per difendere l’idea ingenua e ingannevole dell’indipendenza della Fed, ignorando l’intreccio del suo apparato di stabilizzazione con le aziende dai bilanci più consistenti di Wall Street. Dimenticare questo aspetto non fa che rafforzare il programma MAGA: la gente comune diffida delle affermazioni di neutralità della Fed, e a ragione.


Il principio di indipendenza della banca centrale statunitense risale all’«accordo» del 1951, quando la Federal Reserve si assicurò il diritto di aumentare i tassi di interesse anche quando tali misure erano destinate ad aumentare i costi di indebitamento del Tesoro. Tuttavia, lo status di tale norma è rimasto incerto per diversi decenni: la Fed aveva più margine di manovra per combattere l’inflazione, ma continuava a prestare molta attenzione al costo del finanziamento pubblico, nonché alle preoccupazioni dei presidenti in materia di crescita e occupazione. Alla fine degli anni ‘70 si verificò un cambiamento decisivo, quando Jimmy Carter diede le redini della Fed a Paul Volcker, il quale dichiarò subito di voler frenare la crescita dell’offerta di moneta e lasciare che i tassi di interesse salissero al livello necessario per ridurre l’inflazione – all’epoca era ben al di sopra del 10% – ignorando le proteste dei gruppi di interesse, compresi i politici. Tuttavia, come i critici hanno sottolineato da tempo, l’indipendenza della banca centrale è sempre stata più un mito che una realtà e, di conseguenza, il modello tecnocratico ancorato alla stabilità difficilmente ha avuto effetti neutri, come dimostrato dalla grave recessione causata dall’aggressiva politica di aumento dei tassi di interesse attuata da Volcker. Anche se la Federal Reserve è diventata più autonoma, le misure di stabilizzazione finanziaria adottate hanno protetto sistematicamente le banche più importanti: è il cosiddetto intervento dello stato salvatore, portato a nuove proporzioni in seguito alla crisi finanziaria del 2008 con il passaggio ad acquisti di asset su larga scala.


Il mandato di Powell scade nel maggio 2026 e nei prossimi mesi Trump nominerà un successore che, spera, sarà più ricettivo nei confronti dei suoi desideri. Bessent sta attualmente intervistando i candidati. Uno dei favoriti è Kevin Warsh, persona che gode della sua piena fiducia. Warsh, che si presenta come il Volcker attuale, ritiene che una banca centrale dedicata esclusivamente al controllo della crescita dell’offerta monetaria dovrebbe riscuotere un livello di credibilità tale da produrre naturalmente tassi di interesse più bassi. Tuttavia, le speranze di una ripetizione della Grande Moderazione – l’era dei tassi di interesse bassi che seguì il mandato di Volcker – sono destinate a essere deluse. La riduzione dell’inflazione durante il decennio 1980-1990 dipese in larga misura da una serie di eventi specifici: la distruzione dei sindacati, l’ascesa della Cina come fornitrice di importazioni a basso costo e la capacità dei mercati finanziari di assorbire la liquidità, evitando così che i consumatori «inseguissero beni troppo scarsi» e provocassero di conseguenza un aumento dei prezzi al consumo. Forse Warsh ne è consapevole, il che spiegherebbe perché, in realtà, non prevede il ripetersi della terapia d’urto. Al contrario, ha indicato che poiché la banca centrale, con le sue politiche di quantitative easing, in pratica, sta giocando sul terreno della politica fiscale, il Tesoro ha a sua volta il diritto di fare la voce forte nella gestione del bilancio della Federal Reserve. Il nuovo «accordo» che lui immagina stabilirebbe un maggiore – e non minore, come nel 1951 – coordinamento tra il Dipartimento del Tesoro e la Fed.


Trump potrebbe invece optare per uno fidato come Kevin Hassett, attuale direttore del Consiglio economico nazionale della Casa Bianca, che eseguirebbe i suoi ordini per ragioni più che ovvie. Un altro candidato, Christopher Waller, gode del favore della maggior parte degli economisti per le sue credenziali ortodosse e la sua esperienza, anche se si è sforzato di sottolineare che queste non rappresenteranno un ostacolo rispetto alle preferenze politiche del presidente. E poi ci sono voci secondo cui Trump starebbe valutando l’idea di scegliere lo stesso Bessent come presidente della Fed, il che sarebbe il modo più enfatico per comunicare che le casse pubbliche e l’infrastruttura finanziaria della nazione non rispondono più ad autorità separate. Indipendentemente dall’esito, diventa difficile immaginare che qualunque futuro presidente della Fed non allineato fedelmente agli ordini di Washington possa rimanere a lungo in carica.


L’attacco di Trump alla Fed è un’altra variante della consueta strategia MAGA: alimentare sentimenti pro- mercato e anti-establishment per rafforzare le prerogative dell’esecutivo. Questo trucco politico è sempre disorientante, ma in pochi ambiti i progressisti hanno perso così tanto la bussola nell’arrivare a formulare una risposta convincente. Durante questa seconda amministrazione Trump, con i suoi impulsi autoritari molto più pronunciati, l’indipendenza della banca centrale è diventata un importante punto di riferimento, un’ulteriore occasione per affermare il valore della competenza tecnica apolitica. Tuttavia, considerare tale tematica come una strategia politica praticabile significa ignorare il modo in cui le politiche di stabilizzazione della Federal Reserve hanno alimentato l’estrema polarizzazione economica, che ha rappresentato un terreno così fertile per l’emergere e il consolidamento della destra populista.


Non c’è nulla di contraddittorio nel cercare di strappare il controllo dell’infrastruttura finanziaria della nazione sia al modello «troppo grande per fallire» difeso da Wall Street che alle ambizioni di governi autoritari. Del resto una politica che metta insieme questi obiettivi e miri alla creazione di istituzioni in grado di rendere la gestione monetaria dipendente dalla legittimazione democratica sembra impossibile da realizzare in questo momento. Le enormi e persistenti conseguenze della crisi finanziaria hanno portato il movimento di Trump a capire che, se vuole davvero trasformare le cose imponendo la propria visione, dovrà controllare la politica monetaria. Mentre la valanga MAGA rende sempre più incoerente una politica incentrata sulla difesa dello status quo, il tempo a disposizione dell’opposizione per imparare la stessa lezione sta per scadere.

Testi consigliati 

Aaron Benanav, Beyond Capitalism – 1, « New Left Review» 153, Beyond Capitalism –2, « New Left Review» 154. 

Bernie Sanders, No crowns, no clowns, no kings! e Trump y la política estadounidense, «Diario Red» 23/10/25 e 18/08/25. 

Robert Brenner e Dylan Riley, Sette tesi sulla politica americana», « New Left Review» 138 

Tim Barker, Disallineamento di classe negli Stati Uniti, «Sidecar» 11/11/24, e Alcune questioni sul capitalismo politico, « New Left Review» 140/141

Anton Jäger, Hyperpolìtics in America, «Diario Red» 24/05/25 e «New Left Review» 149

Matthew Karp, Trump redux: from 2016 to 2024, «Diario Red» 05/07/25 e «New Left Review» 150, Party and class in American politics, «New Left Review» 139, e Maxed out, «Sidecar» 23/05/25 e «Diario Red» 27/05/25

Robert Brenner, Dylan Riley et al., Sul capitalismo politico: il nuovo dibattito Brenner (2024).


Martijn Konings insegna Economia politica all’Università di Sydney. Ha scritto The Bailout State: Why Governments Rescue Banks, Not People (Polity, 2025).




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