periferie
- Massimo Ilardi
- 10 giu
- Tempo di lettura: 6 min
Leggendo l’ultimo Tronti

Una riflessione dopo la lettura del libro postumo di Mario Tronti, Il proprio tempo appreso col pensiero, a cura di Giulia Dettori, Il Saggiatore, 2024
Una premessa è necessaria se ci apprestiamo a leggere uno scritto di Mario Tronti, il più raffinato interprete del pensiero politico del Novecento. Non siamo più nel Novecento, nel secolo del primato della politica, della centralità della fabbrica con dentro il rifiuto del lavoro della classe operaia, degli immensi latifondi con dentro la fame di contadini esasperati e dispersi, dei grandi partiti di massa la cui forza dipendeva da una rigida coesione interna, dal consenso assoluto alle loro ideologie e dall’ubbidienza alle loro gerarchie e, infine, non siamo più nel secolo di una società che esisteva come tale perché forgiata e organizzata dai partiti, dai padroni, dalla religione o dalle istituzioni dello Stato. Questa società è esplosa, disintegrata dall’emergere incontrastato di una cultura del consumo che ha le sue chiavi di lettura nell’individualismo, nella negazione della memoria, nella domanda di libertà, nel presente come unico tempo di vita degno di essere vissuto e nella rivolta come forma conflittuale che non si trasforma mai in rivoluzione o lotta di classe per l’abbattimento del sistema ma per l’appropriazione del presente e delle sue risorse. Il sistema non si abbatte ma si sfrutta è la parola d’ordine dei nuovi soggetti antagonisti. Non ci piace, è legittimo ma è comunque da qui che deve partire un pensiero critico come quello di Tronti che vorrebbe trasformare il mondo. Pur rifiutandolo si deve imparare a conoscerlo e accettare le sue sfide, non fosse altro perché è l’unico mondo in cui il destino ci ha costretto a vivere. Non si cambia nulla e neanche ci si difende rifugiandosi nella propria interiorità, nella libertà del proprio spirito come sceglie di fare invece lo stesso Tronti, perché prima o poi il mondo ci raggiunge e ci costringerà a fare i conti con lui. Tanto vale affiggere la propria interiorità sulle porte della chiesa di Wittenberg per verificare se ha la forza di combattere le forme di vita del proprio tempo. Solo così forse una interiorità fortemente critica del proprio tempo può trasformarsi in una eredità.
Se questo è realismo politico, allora partiamo da qui, dalla definizione di realismo politico fatta proprio da Mario Tronti. È un buon inizio, secondo me, per riflettere sul suo ultimo libro uscito postumo, curato da Giulia Dettori, Il proprio tempo appreso col pensiero, Il Saggiatore, 2024: «Realismo politico – scrive Tronti – è lucida analisi dei rapporti di forza in campo, giudizio disincantato sugli interessi in conflitto, calcolo delle possibilità di successo di un’iniziativa, a difesa o all’attacco. Suo luogo di elezione è lo stato di eccezione, dove c’è spinta oggettiva a salire di livello. Ma vale anche per lo stato normale, dove è necessaria una sapienza soggettiva per non rimanere chiusi dentro una situazione bloccata. Può essere dunque sia la presa del Palazzo d’Inverno in uno spazio e tempo che improvvisamente la rendono possibile, sia la cura attenta di un necessario sforzo di lunga durata per far maturare gradualmente le condizioni di un salto di sistema» E seguita: «Agisci efficacemente sul presente se hai una visione di futuro. Mentre ti sporchi le mani con la realtà, devi avere, e coltivare, una riserva di idee per un oltre, per un al di là» (p. 22).
Il salto di sistema, il suo superamento, l’andare oltre: obiettivi questi che costituiscono la ricerca ossessiva di un pensatore politico del Novecento che in questo caso però si confronta con una realtà sociale che non è più quella novecentesca. Non solo la coesione sociale rimane un lontano ricordo, ma gli stessi partiti sono stati spazzati via dalla formazione di una miriade di gruppi e di minoranze tra loro culturalmente e territorialmente ostili e il conflitto, come già scritto, esplode oggi non più per vendicare il passato dei vinti o per prefigurare e costruire un futuro per gli ultimi della terra ma per appropriarsi del presente e delle sue pratiche, prima tra tutte quelle di una libertà che non vuole ostacoli e responsabilità e che può agire solo qui e ora. E libertà non vuol dire democrazia, uguaglianza o giustizia sociale. Libertà è libertà, punto e basta. E soprattutto non si apprende con il pensiero: è solo il territorio, la sua occupazione, la sua appropriazione, il suo attraversamento che ci dà la misura della sua potenza. Non la libertà astratta dei diritti, non quella dello spirito, non quella della persona, dunque, ma quella individuale e materiale che si manifesta appunto sul territorio e che non vuole nella sua azione alcun impedimento e alcun rimando al futuro e che proprio per questo si contrappone all’agire politico.
Quel realismo politico che Tronti definisce in maniera così lucida e decisa perché non lo applica anche alla società per leggere il mutamento antropologico che negli ultimi decenni l’ha trasformata profondamente? Tronti non lo fa né in questo suo ultimo libro né in quelli precedenti perché forse si rende conto che il suo pensiero tutto piantato nella cultura del Novecento non riesce a leggerla, o, se lo fa, capisce che non riuscirà a redimerla con quelle stesse categorie novecentesche di cui era un insuperabile interprete. Non a caso ha scelto la via dello spirito e della sua libertà. Ma senza una nuova teoria della soggettività e una nuova teoria del conflitto che possano innescare, insieme a un pensiero della decisione, «un radicale cambiamento di orizzonte» non c’è modo di oltrepassare questo «presentismo assoluto», come lo chiama Tronti, non c’è un’alternativa a questo «miserabile», anarchico, volgare e distruttivo presente. Ma la responsabilità non va solo attribuita, come Tronti afferma, al «lento graduale totalizzante processo di imborghesimento dei ceti politici e intellettuali che pure provenivano dalla grande storia del movimento operaio» (p. 27), perché se così fosse si rimarrebbe ancora in quell’ottimismo di una volontà rivoluzionaria che prima o poi tutto travolgerà e tutto trasformerà. E non si tratta neanche e solo di crisi delle forme organizzative del partito e del crollo dei suoi istituti per la rappresentanza, né del «malfunzionamento delle democrazie contemporanee e della loro crisi di autorità», anche se tutto ciò è vero, si tratta di qualcosa di più: di mancanza di una cultura all’altezza dei tempi e che rende insensibile la vecchia cultura a quel mondo della pura contingenza, dell’intensità dei desideri, dell’eccesso di presente che sono le modalità in cui le vite di uomini e donne oggi si danno.
A questi comportamenti che fondano una società del consumo, la tradizione politica non sa rispondere, si rifugia nell’autoreferenzialità, trova più comodo accusare di antipolitica quello che si sottrae alle sue briglie e a un mondo di valori precostituiti, che prende corpo fuori della tutela non solo formale della legge e della legalità, che rinnega il passato trasmesso come pura eredità. Questi stessi valori, questa stessa legalità, questo stesso passato che invece la tradizione politica vuole ancora usare come fattori immutabili di coesione e di ordine. Coesione e ordine dettati appunto dalla tradizione che comanda, ad esempio, che la sola contraddizione fondamentale rimanga quella tra rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive e che l’economia e il lavoro siano gli unici contenitori dove possa esplodere la conflittualità sociale. Diventa evidente allora come quei cambiamenti sociali e antropologici non solo vengono sottovalutati nella loro importanza ai fini della nascita di nuove soggettività, ma non si riesce nemmeno a leggerli, né nella loro forza dirompente, né nei linguaggi delle culture che li provocano. La conseguenza più drammatica è che la politica rimane inchiodata là dove, almeno per il momento, il conflitto non c’é più, e che di conseguenza e ancora una volta verrà «bollita e fatta a pezzi».
Il fatto è che la politicizzazione del sociale, che é da sempre per la sinistra lo strumento essenziale per esercitare la sua egemonia, passa, ben prima di sognare un altro mondo possibile, attraverso la capacità di tradurre in politica quello che già c’é. E quello che già c’è non è forse disegnato dal consumo e dalle pratiche di libertà che hanno reso anacronistico ogni valore e, dunque, ogni istanza di «dover essere»? Allora a quando una lettura politica del consumo e della libertà senza la quale un ritorno in campo della stessa politica equivale a zero?
Massimo Ilardi, già docente di Sociologia Urbana presso la Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, Università di Camerino. È stato direttore delle riviste «Gomorra», «Outlet», «Asfalto magazine». Attualmente è nel collegio docenti del Dottorato di ricerca in Ingegneria dell’Architettura e dell’Urbanistica, Sapienza Università di Roma. Le sue ultime pubblicazioni sono: Il tempo del disincanto (manifestolibri, 2016), Potere del consumo e rivolte sociali. Verso una libertà radicale (DeriveApprodi, prima gestione, 2017), Sinistra. La crisi di una cultura (manifestolibri, 2019), Le due periferie. Il territorio e l’immaginario (DeriveApprodi, prima gestione, 2022).