top of page
ahida_background.png

periferie

  • Immagine del redattore: Alberto Violante
    Alberto Violante
  • 5 giorni fa
  • Tempo di lettura: 8 min

Aggiornamento: 1 giorno fa

# 3 Numeri, paura, crimini e città: L’unica cosa di cui aver paura è la paura

Roberto Gelini
Roberto Gelini

Il testo critica l’adozione da parte della sinistra liberale di un discorso securitario ispirato alla Teoria della Finestra Rotta, nonostante i dati mostrino un declino della criminalità e della percezione del rischio in Italia nell’ultimo decennio. Questa retorica, secondo l’autore, serve a distogliere l’attenzione da problemi strutturali come austerità, crisi sociale e turistificazione delle città.

L’analisi suggerisce che la vera relazione significativa non è tra degrado urbano e crimine, ma tra segregazione sociale e percezione di insicurezza: dove i ceti si separano spazialmente, la paura aumenta. Per ridurre l’insicurezza servono quindi politiche di rigenerazione urbana e di edilizia sociale diffusa, non misure repressive o narrative allarmistiche.

 

Quello che pubblichiamo, è il terzo testo sul tema qui si può rileggere il primo e a questo link il secondo testo.


Ricominciamo da dove avevamo iniziato il rapporto tra liberalismo e ossessione sicuritaria. La scena che ritengo solitamente più rappresentativa di questa relazione andò in onda all’incirca 12 anni fa nell’ultimo format condotto Santoro sull’emittente La7. L’ex magistrato e (a giudizio di chi scrive) modesto romanziere Carofiglio, illuminava il pubblico sulla valenza della Teoria della Finestra Rotta, e sulla sua utilità nel combattere una delle cicliche emergenze cucite attorno alla città di Napoli. Per chi non ne avesse consuetudine, la Teoria della finestra Rotta è quel pensiero che ha iniziato ad incrociare il degrado urbano con il crimine, sulla base di un fondamento semiologico. Nella sostanza la percezione di elementi di degrado, lancerebbero al criminale il segnale che l’infrazione normativa (di qualsiasi tipo) sia tollerata, lasciando il campo libero al dispiegamento della sua azione. Ne consegue che ci sia bisogno di politiche “Legge ed Ordine” scatenate contro ogni cosa si muova nel panorama urbano dalle cartacce agli spacciatori. È evidente come l’idea che ci si trovi di fronte alla rappresentazione di un’antropologia predatoria in natura, cui basta leggere dei segnali per scatenarsi, e come tale rappresentazione del mondo sia tecnicamente un pensiero reazionario, perché invita a diffidare stabilmente della cooperazione. Chi ha letto il primo intervento di questa serie ricorderà come le teorie di Wilson, oltre ad essere la quintessenza della criminologia di destra siano anche falsificate dalla Storia del declino del crimine sia in Europa che negli Stati Uniti, che non avvenne solo nelle città in cui vennero applicate le politiche ad essa ispirate, e più in generale, il calo del crimine si verificò in un periodo di cambiamento delle città americane –su questo ritorneremo tra poco- e fu sostanzialmente viziato dal fatto che la misurazione del successo di queste politiche, era già in qualche maniera il presupposto del loro stesso successo.  


Ora, in questi giorni pensavo che aver assistito a un ex esponente del sistema giudiziario, ed esponente politico del maggior partito di Sinistra liberale celebrare queste teorie come fondamento delle soluzioni di politica urbana da intraprendere, fosse il livello più basso del dibattito politico. Quando si arriva in fondo però c’è sempre qualcuno che si incarica di iniziare a spalare, e solitamente è un esponente del centrosinistra. Da qui l’insistenza di editoriali Veltroniani sulla Sicurezza, che tempo di fare uscire questo terzo intervento sono addirittura diventati una sequela [1]. Non entrerò nel merito dei presupposti dell’ultimo articolo di Veltroni perché sono sostanzialmente un esempio del meccanismo psico-sociale di conferma del pregiudizio, basandosi su un leggero aumento delle denunce di alcuni reati per ri-lanciare l’urgenza della questione sicurezza. I crimini –come già detto- sono in sé fenomeni rari, al contrario del lavoro o degli acquisti, che sono attività quotidiane. Una loro moderata variazione in un unico intervallo di tempo può pertanto essere effetto del caso. Pensare che una variazione annuale inferiore al 5% avvenuta nel 2024 su alcuni reati basti a falsificare l’intero dibattito sul declino del crimine in Occidente è quantomeno pretenzioso, se non in malafede. Dopo gli anni di crisi economica ci sono sempre dei reati contro la proprietà che hanno un rimbalzo, ma quello che conta nei reati è un trend decennale. Dopo gli anni del Covid ad esempio i borseggi sono stati 236 circa ogni 100mila abitanti contro i 229 del 2019, ciò non toglie che, negli anni dell’austerità, erano ancora di più (298 nel 2014).


Non sto dicendo che nei prossimi anni non ci potremo trovare di fronte ad una recrudescenza di alcune pratiche criminali, ma mi sto domandando perché, prima ancora che questo avvenga in maniera manifesta il problema viene posto come costitutivo da una parte “sinistra” della classe dirigente. Che possa esser fatto da destra è autoesplicativo, visto che l’universo discorsivo del mantenimento della sicurezza implica che l’ordine sociale rimanga inalterato essendo il suo scuotimento (l’arrivo di popolazioni alloctone, le ambizioni consumistiche etc.) ad aver provocato il crimine e quindi l’insicurezza. Meno chiaro è perché lo faccia la sinistra liberale. Forse guardando le date del primo discorso citato (erano gli anni dell’austerità) possiamo aiutarci. Se si parla di sicurezza nella maniera in cui lo stanno facendo nelle ultime settimane Veltroni o Renzi, non si parla della crisi sociale devastante, e del fatto che gli unici successi che il Governo Meloni può accampare sono quelli espressi sul piano dell’ordoliberismo europeo (rigore, finanze in ordine, aumento dell’occupazione espresso grazie all’ingrossamento dei flussi turistici dall’estero etc.). Questi punti (di cui il successo nella turistificazione del paese è forse il più importante) sono pienamente condivisi dal centrosinistra di Renzi e Veltroni, che non casualmente sono stati entrambi sindaci. Diciamo che, sul piano sociale, ed escludendo il discorso sulla democrazia e le istituzioni sulle quali si rilevano ancora differenze, l’unico punto di attacco possibile resta questo. A questo punto ci si potrebbe chiedere se il discorso sulla sicurezza agito da “sinistra” sia identico a quello che negli anni settanta portò al fiorire delle indagini statistiche di Vittimizzazione e al consolidarsi di un approccio “realista” in Criminologia. La risposta è no, e ancora una volta andiamo a dare un’occhiata ai dati per capire perché. In Italia ci sono almeno 3 indagini statistiche nazionali che fanno domande sulla percezione di criminalità e sulla paura del crimine. Tutte registrano nell’ultimo decennio un abbassamento degli indicatori di percezione, in linea col declino del fenomeno. Per citare l’indagine aspetti della vita quotidiana si va dal 10,7% delle famiglie che nel 2014 percepivano molto il rischio di criminalità al 6,3 % che lo percepivano nel 2024.Un probabile innalzamento ci potrà essere in questi anni visto il piccolo aumento di alcuni reati ma questo non cambia il quadro che ha davanti chi studia questi processi. Un quadro che si conforma alla consolidata acquisizione di questi studi che ci tocca, visto il livello di propaganda, ricordare. Se subisci un reato tendi ad avere più paura e a percepire maggiormente la criminalità, quindi una maggiore diffusione effettiva tende a sposarsi anche con una maggiore percezione. L’approccio socialdemocratico classico, si rifaceva a questa banale visione tendendo a credere all’aumento della percezione del crimine, quando veniva registrato, per porvi rimedio partendo dai quartieri di edilizia sociale. Quello che il neo-sicuritarismo neo-liberista fa è sostenere che ci sia una epidemia di panico sociale (anche quando questa non c’è) per proteggere di più e meglio i quartieri di interesse turistico. Tutto a posto quindi? Non proprio. Un’evoluzione nel problema della percezione del crimine e della paura urbana c’è e toccherebbe tenerne conto, ma le cose sono –come al solito- molto più complicate. In questo discorso complicato il problema non è solo che dell’espressione “paura del crimine urbano”,  viene falsificata la prima parte (la paura del crimine), ma che viene reificato l’aggettivo (l’urbano), come se la città non fosse un oggetto storico ma il luogo perenne del crimine delle classi pericolose da Jack Lo Squartatore a Blade Runner senza soluzione di continuità. Proviamo quindi a fare un accenno ad un discorso di metodo diverso.

Sappiamo che le città, soprattutto nelle loro sezioni storiche, sono state oggetto di una finanziarizzazione degli immobili che li ha resi preda di una bolla speculativa difficile da fermare, nella convinzione che l’unico utilizzo profittevole dello spazio urbano sia quello di destinarlo al consumo usa e getta di flussi turistici esterni, con capacità di spesa altrimenti non presenti sul territorio, e sostanzialmente inesauribili. Lasciamo perdere quanto sia un’illusione sostituire la produzione con il turismo, tutto ciò ha però comportato un’inflazione dei beni immobiliari (al netto di una spiccata oscillazione dei prezzi) molto forte con un conseguente effetto di espulsione dei ceti a medio reddito dai centri cittadini. Ora il panorama urbano dentro cui ci muoviamo è questo. E’ chiaro che quartieri sfrangiati, dove i ricchi vivono sempre di più con i ricchi e i poveri sempre di più con i poveri non sono il modello sociale classico in cui sono cresciute le città mediterranee nel dopoguerra, ma ha a che fare tutto ciò con la percezione della criminalità? Per iniziare a ragionare su questa domanda abbiamo preso le risposte positive alla domanda sul rischio di criminalità dell’indagine sulla Sicurezza dei cittadini posta ai rispondenti dei comuni delle aree metropolitane. Da una parte avremo quindi la percentuale di persone che nelle aree metropolitane delle regioni hanno detto che notavano molto o abbastanza il rischio di criminalità, dall’altra, per ogni regione, abbiamo calcolato un indice di segregazione [2], cioè un indice che stabilisce se abitanti, caratterizzati da redditi diversi, sono distribuiti equamente nelle singole aree urbane (approssimate in questo caso ai codici di avviamento postale) di ogni città. Come si può vedere la relazione è abbastanza rappresentata da una curva lineare. In altre parole mano a mano che sale la segregazione sociale, sale anche la percezione del crimine. 


ree

Come e perché questo avvenga, è impossibile dirlo da un grafico senza fare la figura dei Veltroni di turno, ma certamente la segregazione dei ricchi può essere l’occasione che attira tentativi di reati contro la proprietà, così come la segregazione dei poveri può favorire in alcune aree le carriere criminali di persone prive di altre possibilità e che si socializzano ad un percorso nel mercato –ad esempio- degli stupefacenti, come alternativa ad ingressi difficili (o impossibili) nell’economia legale. Un aspetto invece accertato e interessante [3] è che, non solo le classi sociali non sono distribuite equamente nella città, ma i reati non sono equamente distribuiti tra le persone. Poche persone subiscono un numero sproporzionato di reati, anche se questo tratto si è allievato nel corso degli anni col declino del crimine. Ora, se queste poche persone fossero quelle segregate in alcuni e solo in alcuni quartieri, la nostra relazione inizierebbe ad avere un senso, che la riconduce al discorso delle politiche pubbliche francesi sui “quartieri sensibili”, che potremmo tradurre per ragioni di spazio come il fare politiche urbane di rigenerazioni in aree mirate. Neanche questo tipo di politiche hanno avuto un grandissimo successo, per motivi che qui è impossibile approfondire, ma quantomeno ai cugini d’oltralpe sono state risparmiate le fesserie sulle finestre rotte. Il punto, senza girarci intorno, è che dentro alcuni quartieri (classicamente quelli di edilizia residenziale pubblica), si possono sviluppare delle economie criminali legate al mercato delle sostanze. Le vittime dei piccoli reati connessi a queste situazioni sono soprattutto gli abitanti di quegli stessi quartieri.


Visto che abbiamo citato il caso francese, concludiamo passando ad una scala europea. L’indagine Eu-SILC oltre a rilevare i redditi pone, in merito alle condizioni di vita, la domanda sulla percezione del rischio di criminalità nella propria area di residenza. Si possono così suddividere le risposte delle famiglie sotto, e sopra la soglia di povertà alla domanda sul crimine nel proprio quartiere. Nel 2023 in quasi tutti i paesi europei (tranne la Polonia) le famiglie povere dicono di soffrire il rischio di criminalità in misura maggiore di quelle non povere. Nei paesi appunto con una maggiore segregazione sociale come la Francia e il Regno Unito (i cui dati risalgono però a prima della Brexit) il divario con cui questa maggiore percezione si dispiega è assai più consistente. 


ree

Il collegamento tra segregazione sociale, svantaggio e vittimizzazione potrebbe avere un senso. Solo che le città italiane hanno –finora- distribuito il disagio sociale in maniera abbastanza diffusa nello spazio urbano. Se fosse vero quello che andiamo dicendo, non solo per motivi di giustizia sociale –che lo suggeriscono comunque-, ma anche come forma di contrasto al senso di insicurezza le politiche da fare sarebbero quelle di rigenerazione dei quartieri popolari esistenti e di recupero urbano degli immobili abbandonati in modo da poter distribuire una nuova offerta abitativa destinata alle persone a basso reddito in tutte le parti della città, evitando l’innalzamento della segregazione sociale. Ovviamente Il processo di speculazione selvaggia interconnesso colla turistificazione e l’abbandono delle periferie esistenti stanno andando in direzione opposta, senza che il variopinto mondo delle finestre rotte pensi che sia questa la vera cosa di cui avere paura.


Note

[2]  Abbiamo utilizzato l’indice H multigruppo di Theil, abbiamo poi utilizzato la trasformata logaritmica dell’indice per linearizzare la relazione

[3]  Le ultime evidenze empiriche le si trovano qui: REATI CONTRO LA PERSONA E LA PROPRIETÀ_VITTIME ED EVENTI


Alberto Violante è un sociologo e organizzatore sindacale. Si occupa di crimine e mercato del lavoro.

bottom of page