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periferie

  • Immagine del redattore: Alberto Violante
    Alberto Violante
  • 6 giorni fa
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 5 giorni fa

Numeri, paura, crimini e città: per avviare un discorso

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Il testo analizza la contraddizione tra la diminuzione effettiva dei reati in Italia e la crescente percezione di insicurezza da parte della popolazione, come emerso nel report Eurispes 2023. Questa discrepanza rischia di alimentare una domanda sociale di maggiore repressione, anche in assenza di un reale aumento della criminalità. L’autore ripercorre l’evoluzione degli strumenti e delle politiche di controllo del crimine, dalla criminologia welfarista alle attuali tecniche predittive basate su big data e intelligenza artificiale, evidenziando come queste possano generare distorsioni e rafforzare stigmi territoriali. Viene infine mostrato un esempio concreto, il caso della caserma Levante di Piacenza, per illustrare come i dati sulla criminalità possano essere manipolati o influenzati da pratiche di polizia distorte, mettendo in discussione l’oggettività dei numeri e la narrazione dominante sulla sicurezza.

Nel 2023 l’Eurispes, pubblicò con l’ausilio della Polizia di Stato, un report sulla criminalità in Italia [1]. Il contenuto principale veicolato all’esterno era che, sebbene i reati stessero scendendo la percezione degli stessi fosse in aumento, e questo fosse un problema, quasi altrettanto grosso, per l’equilibrio dell’ordine sociale. Presa dal lato reazionario la tacita conseguenza di questa divergenza criminologica è che, sebbene si constata – o piuttosto proprio perché si constata – il buon lavoro delle forze dell’ordine nel controllo della criminalità, se ne deduce la necessità di una dose maggiore, capace di sedare la crescente paura del crimine. Negli anni seguenti mi è capitato di ascoltare spesso tesi simili, in questa o altre formulazioni, l’ultima in un editoriale di Walter Veltroni, ex segretario del Pd e sindaco di Roma, che sosteneva che «mai la percezione di insicurezza su tutti i fronti sia stata così alta, anche in Italia. Nonostante lo sforzo gigantesco delle forze dell’ordine, la vita degli italiani è attraversata da una crescente sensazione di ansia e di disagio per l’incolumità delle persone e dei loro beni» [2].


È davvero paradossale il fatto che alcuni paradigmi criminologici tra il crimine come fatto reale scientificamente analizzabile e la percezione dello stesso – al fine di relativizzare la repressione della norma e delle sue applicazioni – possa generare il suo opposto: l’aumento della repressione anche in assenza del fenomeno stesso. Una delle tante dimostrazioni che il problema di ogni decostruzionismo è, evidentemente, la posizione da cui viene agito. Per fare un excursus su questo problema partiremo da lontano e chiariremo che cosa significa parlare di criminalità. La facilità con cui si parla di aumento o diminuzione della stessa deriva dall’immediata identificazione dell’andamento del crimine con il conteggio delle denunce per la violazione di determinati dispositivi normativi (solitamente articoli del Codice Penale). Questa identificazione però è tutt’altro che scontata.



L’ossessione del crimine e gli strumenti di osservazione: dalle vittime ai Big Data


Durante i decenni del welfarismo fordista l’espressione classica del progressismo criminologico, soprattutto in UK, non era l’ossessione di placare la paura del crimine. Al contrario una corrente, cosiddetta realista, non negava il crimine come fatto positivo, sottolineava invece come a esserne vittima in misura sproporzionata fossero proprio le classi inferiori. Era un discorso teso a tutelare le popolazioni operaie (preferibilmente bianche) delle abitazioni di edilizia residenziale, con una maggiore attenzione del pattugliamento urbano delle forze di polizia. Negli anni successivi però questo stesso discorso si trasferì pervertito nella crociata contro gli anti-social behaviour che «infestavano» le città, e che trasformavano gli abitanti delle stesse aree urbane da vittime certificate ad autori potenziali. Di questa crociata l’alfiere forse più rilevante fu Tony Blair, modello politico e –f orse – esistenziale di Veltroni, che come tutti gli esterofili, è in fondo un provinciale che importa le mode estere con un certo margine di ritardo. Tra l’attenzione ai crimini nelle periferie e la repressione degli anti-social behaviour in mezzo era passata la crisi industriale che aveva reso agli occhi delle classi dirigenti britanniche le file di case popolari, un covo di disoccupati inviperiti piuttosto che di lavoratori da proteggere. Con l’arrivo del XXI° secolo e della Guerra globale al terrore l’approccio securitario si è ulteriormente pervertito. Si è aggiunta infatti all’identificazione di figure problematiche – che nell’Europa continentale e negli Stati Uniti includevano oltre ai giovani problematici gli immigrati e le persone non bianch – l’ossessione per la previsione dell’accadimento del crimine. Una ossessione parallela all’identificazione dell’ambiente urbano come criminogeno.


Ognuna di queste fasi ha avuto i suoi strumenti di lettura, come la criminologia lombrosiana rappresentava l’approccio sanitario alle classi pericolose, la criminologia welfarista ha affidato alle istituzioni pubbliche lo svolgimento di grandi indagini statistiche di vittimizzazione che indagassero la quota di reati contro la persona e la proprietà, reati che non erano stati denunciati alla polizia, per avere appunto una dimensione realistica del problema, non solo nella sua quantità, ma soprattutto nel profilo delle vittime.


Nella post-modernità il rapporto tra numeri dei crimini e della repressione cambia definitivamente. Ed è abbastanza significativo che l’esempio su cui si è costruito questo rapporto sia New York, il territorio che ha affrontato senza soluzione di continuità una guerra al crimine e la «guerra al terrore» post 11 settembre. La crociata contro il crimine fu l’eredità della crisi urbana degli anni Settanta che aveva unito altissimi livelli di povertà a un sistema di forte segregazione residenziale. L’economia legata al commercio di stupefacenti e la circolazione delle armi avevano fatto il resto alzando il tasso di densità criminale della città, soprattutto in alcune sue aree. L’allora capo del Dipartimento di polizia decise di cambiare il sistema di registrazione dei reati creando CompStat. CompStat non era nient’altro che un sistema digitale che riusciva a ricondurre la registrazione della denuncia di un crimine immediatamente al luogo e alla stazione di polizia che l’aveva raccolta. Successivamente tutte le polizie nazionali degli Stati occidentali hanno adottato dei sistemi che sono stati largamente ispirati a quel modello. In qualche misura, ma con significative differenze, anche lo SDI adottato dal Ministero dell’Interno negli anni 2000 in Italia a quel modello si è ispirato. Quello strumento di supporto solo apparentemente banale aveva innescato la possibilità di un confronto simultaneo tra le aree del crimine. Ogni giorno si registrava il luogo a maggior densità di accadimenti. Questo, da una parte, aveva rafforzato il pensare luogo e crimine come indissolubili, dall’altro aveva sconvolto le prassi operative della polizia. Ogni graduatoria infatti diventa immediatamente un sistema di registrazione della performance, e un sistema di registrazione della performance diventa immediatamente un sistema normativo. Le indicazioni sul contrasto al crimine indicate dalla Procura (negli Usa la persecuzione penale non è obbligatoria, e la sua priorità è frutto di scelte politiche che fanno parte dei programmi elettorali degli organismi rappresentativi) diventano immediatamente soglie quantitative da raggiungere, fissando il livello di repressività richiesto ai corpi di polizia. Per altro l’incentivo al rispetto quantitativo delle indicazioni si può trasformare non solo in persecuzione arbitraria durante il pattugliamento di strada, ma anche alla misclassificazione delle condotte. Negli Usa è stato riscontrato che le imputazioni dei reati derivavano anche dall’ansia di mostrare risultati coerenti con quanto dichiarato (in questo quadro, ad esempio, la detenzione di sostanze stupefacenti può facilmente diventare spaccio). I sistemi informatici di archiviazione e catalogazione dei reati non sono stati però l’ultimo stadio dell’intreccio tra quantificazione, ossessione securitaria e cambiamento dell’ordine pubblico. A partire dalla pratica di controllo dei luoghi di maggiore concentrazione del crimine (resa più comune – come detto sopra – dai sistemi informativi) si è naturalmente scivolati nell’ossessione per la capacità di previsione del crimine. Il celebre film tratto dal racconto di Dick, è stato girato quando l’intelligenza artificiale generativa era ancora di là da venire, ma oggi sembrerebbe più una cronaca che una distopia.


Le polizie dei paesi di mezzo Occidente sono impegnate a utilizzare risorse per identificare, in futuro, i luoghi di probabile maggiore accadimento dei reati. Il punto è che per quanto questi sistemi possano attingere all’impiego di nuove risorse di dati (ad esempio la concentrazione di segnali di aggancio a una cella telefonica), il calcolo si rifarà comunque a modelli computazionali in cui viene aggiornata un’esperienza data precedentemente [3]. Oltre ad avere limitata capacità previsionale nei casi in cui l’evento criminale non segua un pattern precostituito, si noti che nei Paesi in cui vengono utilizzati questo tipo di sistemi lo stigma spaziale dei quartieri a più alta concentrazione criminale viene rafforzato perché quegli stessi luoghi indicati come pericolosi saranno soggetti a più intensi controlli di polizia, e necessariamente anche a evidenze ed emergenze criminali più alte che non deriveranno necessariamente dal più alto numero relativo di crimini ma dalle pratiche di polizia concentrate in quei luoghi, istituendo così il più classico dei meccanismi circolari.


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Un esempio di confusione


Chiudiamo infine con un esempio concreto sulla confusione tra numeri di panico morale e crimine. L’esempio lo abbiamo preso qui in Italia, tratto non dai territori metropolitani, ma dalla grassa e ricca provincia padana, dedita, come e più di altri territori, al consumo di stupefacenti. Nel 2020 la caserma dei carabinieri Levante, sita in via Caccialupo a Piacenza, salì agli onori della cronaca. Cinque militari con diverse responsabilità avevano instaurato un sistema di terrore che, oltre a trattenere per fini e profitto personali una parte degli stupefacenti sequestrati, torturava gli spacciatori arrestati perché potessero allargare con le loro deposizioni il coinvolgimento ad altre persone, a prescindere dal loro grado di effettivo coinvolgimento nelle organizzazioni di distribuzione degli stupefacenti. Questo, oltre a guadagnare alla caserma una menzione speciale nel 2018 per «attività di contrasto al fenomeno dello spaccio di sostanze stupefacenti», restituiva nei dati del Ministero dell’Interno fino al 2020 (anno dell’inchiesta) questo livello di spaccio: quasi doppia delle altre medie città del Nord padano. Dopo l’inchiesta, al contrario, Piacenza resta sotto il livello di criminalità dell’area. Chissà che avrebbe detto Veltroni guardano questo grafico.



Note

[2]  È sbagliato ignorare la sicurezza, «Corriere della Sera» 12 agosto 2025.

[3] Senza addentrarsi nello specifico notiamo velocemente che questo accade sia che si impieghino modelli di serie storica, sia che se impieghino algoritmi di auto-apprendimento



Alberto Violante è un sociologo e organizzatore sindacale. Si occupa di crimine e mercato del lavoro.

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