post-poetica
- Marco Giovenale
- 11 apr
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 22 apr
Note sulla scrittura asemica

Alcuni brani tratti da: Senso senza significato. Note sulla scrittura asemica. 2006-2023, di Marco Giovenale, ikonaLíber, Francavilla al mare (Ch), 2023.
L’«asemic writing» è definibile, con buona approssimazione, come quella modalità della grafica o del disegno – recursivamente presente nel mondo già in tutto il Novecento e fittamente poi nel primo ventennio degli anni Zero – che fa intervenire sulla pagina caratteri, segni e glifi che assomigliano appena a lettere tipografiche, oppure a grafie tracciate a mano, fantasmi imprecisi di linguaggi conosciuti; senza però in verità rinviare ad alcun alfabeto noto, ad alcuna parola o frase reale: nulla c’è da decodificare, perché di una apparenza di lingua significante affiorano solo le possibili cifre e forme, profili organizzati per pura fascinazione visiva; e l’ipotesi di un significato si rivela curiosamente fallace, vuota, negata.
Una volta abbattuto il significato, tuttavia, permane la percezione di un passaggio di senso, ampio, attivato in primis dall’evidenza del senso specifico, visivo, del linguistico. Il complesso dei segni, e il loro groviglio o la loro rarità sulla pagina, il denso o il labile, organizzano insomma lo spazio come parrebbero fare le lingue note, senza però costituire linguaggio comunicativo. Ci si potrebbe spingere più oltre. Si potrebbe cioè arrivare a dire che l’intera produzione di asemic writing che vediamo fiorire e crescere esponenzialmente da vent’anni a questa parte ha i titoli per essere pensata come una grande macchina di disorganizzazione e disintegrazione del significato a opera del senso stesso.
È opportuno sottolinearlo: il campo della scrittura asemica è ormai delimitato e definito da un buon numero di pubblicazioni che in linea di massima, quasi tutte, insistono sull’elemento che un mio articolo del 2013 sulla rivista «l’immaginazione» faceva presente, ossia sulla natura di scritture senza significato sul fronte verbale, ma ricche di senso, in generale; e attivanti (a vuoto) i recettori del significare linguistico in particolare, come appena detto. Posta la ineliminabilità di una istanza di senso – in accezione ampia – dall’esperienza e dalla percezione umana, è evidente che materiali segnici della più diversa natura, soprattutto se elaborati in forma grafica inedita, e se caricati di un’attesa di linguaggio, sollecitano e accrescono la percezione addirittura quasi tattile, fisica, di tale ineliminabilità.
È dunque in campo una sorta di allusione al linguaggio subito revocata, spostata; un felice scarto – più o meno laterale, marginale, ai limiti non del detto ma del dicibile. Lo suggerisce Barthes in un celebre saggio del 1979: Cy Twombly «fa riferimento alla scrittura [...] e poi si dirige altrove. Dove? Lontano dalla calligrafia, cioè dalla scrittura formata, segnata, calcata, modellata, quella che nel XVIII secolo veniva chiamata bella mano. A modo suo [Twombly] dice che l’essenza della scrittura non è né la forma né l’uso, ma solo il gesto, il gesto che la produce lasciandola trascinare: uno scarabocchio, quasi una sozzura, una negligenza» […].
Addenda, inclusioni (senza conclusioni)
I
Abbiamo visto all’opera, in questa sommaria successione diacronica di concetti e ritratti, molte sincronie. E temi, ricorrenze, affinità, punti (non) fermi, probabilmente riassumibili così:
senso, ma senza significato (o addirittura responsabile della scomparsa del significato) in una:
imminenza di linguaggio, o allusione al linguaggio, ma espressa in:
segni “nulli”, fatti per essere visti più che letti, inoltre sottoposti a:
deformazione, riformulazione, distorsione, che fanno tutt’uno con la loro evidente:
natura essenzialmente non comunicativa, che nasce da e approda a una:
illeggibilità, condizione disturbante quanto attraente, accompagnata dalla netta percezione del:
gesto (pittorico o meno) che ne è origine come segno di energia (vitale), che insieme è traccia di uno:
spostamento della scrittura entro il campo indecidibile già proprio dell’astrattismo e di un:
grafismo indifferenziato (Barthes) come di una:
variazione interminabile e (percezione della “originaria”) variabilità e instabilità dei segni, tutti.
II
È l’incerto il territorio dell’asemico, proprio in quanto si fonda su o parte da uno stato di flickering multiplo tra (1) grafia che punta a una lingua, (2) lingua che però non esiste, (3) grafia che torna allora a sé in aspetto di disegno (astratto), (4) disegno che si nega come tale perché (appunto) in origine punta a una lingua, chiudendo cosi il cerchio. Questo motore (o movimento rotatorio o magari ellittico, quindi con accelerazioni e decelerazioni) è forse particolarmente vicino al motore di accensioni e quiescenze di senso che fa funzionare qualsiasi cosa, dal godimento per una musica (una frase musicale che sta per dire qualcosa e poi devia, o forse no, o forse il cambiamento è la cosa che andava detta), alla lettura di una pagina inedita, all’esplorazione di una casa abbandonata, all’autoipnosi di fine sera quando si cerca di tornare quanto più indietro possibile in determinate memorie – eccetera.
[…]
V
La scrittura asemica può essere vista anche come complessivo grande atto di ironia (sull’opera particolare, sul linguaggio in generale) nel suo promettere lettere e realizzare glifi, porre apparenti significanti che però visibilmente negano il significato. È un passo prima o già dentro l’indecidibilità di alcune scritture di ricerca postpoetica (dal 1960 in poi) lineari e leggibili quanto inafferrabili.
Marco Giovenale, editor, traduttore e asemic writer, è tra i fondatori e redattori di gammm.org (2006), sito di materiali sperimentali. Insegna storia delle scritture italiane di secondo Novecento e contemporanee, in particolare presso centroscritture.it. È autore di numerose opere di e sulla poesia.