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  • Immagine del redattore: camilla
    camilla
  • 29 mag
  • Tempo di lettura: 26 min

Aggiornamento: 5 giu

Lampi di femminismo





Il testo che segue è tratto dal libro Senza collare. Vita complicata di una donna alla ricerca della sua liberazione pubblicato da Savelli, collana «Il pane e le rose», nel novembre del 1977.

L’autrice è Camilla. La storia che racconta è ambientata nell’agosto del 1976. Camilla scrive a un’altra donna raccontando le sue giornate, ciò che la tocca nel corpo e nella mente, nella memoria e nel presente, nel bel mezzo della fine del suo consunto rapporto con un marito preso a simbolo del potere e insieme della miseria del genere maschile. Lo stralcio proposto è quello di apertura della narrazione. Camilla è alle prese con una riunione di «autocoscienza» con il suo piccolo gruppo femminista.

Il linguaggio utilizzato è semplice, diretto, spontaneo, a tratti elementare e schematico, eppure crediamo riesca a narrare aspetti fondamentali del femminismo negli anni della sua esplosione e massificazione all’interno dei sommovimenti rivoluzionari del decennio Settanta. 


«Ci scazziamo: bisogna parlarne o è meglio tacere e offrire al pubblico una faccia serena, forte, compatta? Non si getterà merda sul movimento parlando delle proprie incertezze e contraddizioni? Non mi getterò merda addosso parlando del mio privato? Dicendo che alcune di noi sono lesbiche e parlando di separatismo non allontaneremo le “altre” donne? Che significato hanno, allora, la “presa di coscienza” e la “messa in discussione”? Meglio tacere: sono ancora una volta condizionata al silenzio. No, meglio raccontare e raccontarsi, magari con un po’ di ironia. Al diavolo tutte le possibili strumentalizzazioni commercialpornopersonalcontro consuperdevianti».


Cara Lilli, sono qui sulla terrazza della radio, arroventata dal sole. Appena mi sono accorta di potermi gestire un po’ di spazi e di tempi miei (mia figlia è in campagna) ho deciso di scriverti un diario di quello che succede mentre non ci sei, un po’ per tenerti al corrente, un po’ per continuare un confronto con te, un po’ perché mi diverto. Un diario circostanziato, documentato, fantasticato, allegro e incazzato. Voglio partire dal vissuto, dal vivente, o almeno, dal vivibile. Prima di tutto mi auguro che il Portogallo sia bello e le tue passeggiate in Algarve con Othelo proficue. Ieri io e Pina ti abbiamo mandato i mortacci più sentiti perché ci hai abbandonate nell’incasinamento più totale. Ma di questo parleremo dopo. Ogni tanto qualche sopravvissuto all’estate e al 20 giugno si affaccia alla porta della terrazza, strizza gli occhi per vedere chi c’è e se ne torna nelle ombre interne. Io mi sono quasi denudata. Ho arrotolato i calzoni fino alle cosce, ho slacciato la camicia e mi lascio travolgere dal languore, dal casino, dalla raferazione estiva, dagli odori e dalle voci che salgono dal mercato di Campo de’ Fiori. Mi sento quasi una escrescenza della terrazza, un sasso, un pezzo di cielo, (l’altra metà?!), che vorrei abbracciare tutto, dissolvendomici. Sono una parte di un tutto universale. Guardo i tetti di Roma e penso a quante donne in questo momento staranno pulendo i cessi di casa loro, o le cucine; ad alcune finestre ci sono le lenzuola stese al sole. Io ho la mia penna in bocca e medito su come cominciare degnamente questa mia opera prima. La mia creatività è un buco nero. Accidenti! L’ho detto! Ecco da dove comincia la nostra castrazione. Ho detto buco nero come dato negativo; siamo tutte un buco nero, la cui creatività deve essere rivendicata, esaltata, nobilitata. W I BUCHI NERI. La mia creatività sarà un dolce, fertile, misterioso, ricco, variegato buco nero. 


Il vissuto, abbiamo detto: allora comincio da ieri sera, domenica, perché siamo riuscite, dopo tanto tempo, a fare il piccolo gruppo. Eravamo io, Fina, Serena e Marina. 

Ci sono sempre un po’ di reticenze quando si cerca di far partire un piccolo gruppo, così abbiamo parlato prima della radio (il nostro centro vitale, la nostra ragione d’essere), poi abbiamo cazzeggiato. In questi preliminari e in genere nella prassi quotidiana, emergono spesso le «differenze» fra «noi» e le «altre», mentre, in teoria, sosteniamo di essere tutte uguali, tutte vittime, tutte ugualmente oppresse. Ci escono battute di una cattiveria e di un sadismo del tutto «maschili».«Porcoddio, finiamola di pensare che siamo in un’isola felice di donne tutte uguali, e che il solo fatto di essere donne ci nobiliti automaticamente. Diciamocelo: ci sono donne stronze e donne non stronze», dice Marina. Iniziamo una breve discussione su questo, ma, anche se ci dispiace porre questa discriminante, riconosciamo alla fine che anche alle donne capita, talvolta, di essere stronze. La discussione era sorta perché una collega di Marina, cattolica (l’anno scorso è stata a Lourdes per una parente), contraria all’aborto e incinta, sapendola femminista e «democratica», si è rivolta a lei per sapere dove andare ad abortire. Il tutto ribadendo il suo orrore e la sua ostilità per l’aborto. Marina ci chiede dunque consiglio sulle persone più adatte dalle quali mandarla e un terzetto unanime ha risposto di mandarla a Lourdes. Ci ridiamo sopra, poi ci battiamo il petto in un mea culpa, perché tutto ciò è «poco femminista», e parliamo dell’aborto e di quello che significa per noi. (Grumi di sangue rappreso, angoscia, le gambe che tremano, il sapore-odore dolciastro dell’anestesia, precipitare all’indietro, la morte, il vuoto, incomprensibili spiegazioni del perché). Una violenza inaudita che però a volte evita altre violenze. Non aveva poi tutti i torti la collega cattolica di chiederlo, rifiutandolo. Dopo, tutte abbiamo sentito l’esigenza di parlare della sessualità. 


Sesso, lesbismo, orgasmo, masturbazione, condizionamenti oppure liberazione? 


PINA: Non so per voi, ma per me la sessualità è una cosa totale, generale, investe tutto. Non so se sono chiara. Non è una cosa che riguarda gli organi genitali e basta. Comprende tutto il corpo e anche la mente. Io vivo la mia sessualità facendo una passeggiata, chiacchierando, guardando un film, tenendo qualcuno per mano. La vivo più come dolcezza e amicizia che come rapporto sessuale; perciò la vivo raramente con gli uomini, che sono in gran parte, diciamo grandissima parte, dei figli di mignotta. Scusate compagne, non per dir male delle mignotte, ma in questo momento, non mi viene in mente niente di più adatto. Loro scopano, poi chiudono il circuito fino alla prossima volta. Tutti i rapporti che possono avere con noi non contano, sono marginali rispetto agli altri loro interessi; praticamente non esistono. Io poi, dopo il mio aborto, non sopporto più la penetrazione, ho paura di rimanere incinta, sento male alla vagina, mi viene mal di stomaco, mi succedono le peggio cose. Peppe, poveraccio, a volte è dolce, sa che non posso prendere la pillola e dice che ci sta attento lui. Io però sto male lo stesso e lui che, come tutti gli uomini, si identifica col suo cazzo, sentendosi rifiutato nel cazzo, si sente rifiutato tutto. Mi pianta certi musi che non finiscono più, si incazza; a volte ho l’impressione che mi odi e mi oppone un rifiuto totale. Proprio non ne vuol sapere. Se lo tocco io, diventa un pezzo di ghiaccio. L’altro giorno eravamo andati a letto dopo mangiato e ho cominciato a accarezzarlo. Sembra che andasse tutto bene. Un’ottima occasione per recuperare. Cazzo, mi chiamano al telefono. Vado a rispondere perché era una cosa urgente e vi giuro, compagne, che non ci sono stata più di due minuti. Beh, quando sono tornata si era addormentato. Era lì che russava. Io mi sono incazzata da morire. Mi sono sdraiata vicino a lui e ho cominciato a masturbarmi come una pazza. Poi ho pianto ed è tutto il giorno che sto male, anzi, questa sera quasi non volevo venire. Non so bene perché l’ho fatto: se per fargli rabbia, pensando che si svegliasse, per fargli vedere che posso essere autonoma sessualmente, o se l’ho fatto per me, perché mi andava. Lui ha continuato a dormire tranquillamente. O non si è accorto di niente o ha finto bene. 

Io, comunque, mi masturbo spesso, perché mi piace, perché mi conosco meglio di tutti gli altri, perché mi esaurisco in me stessa, senza avere tutti i problemi che vengono fuori quando si hanno rapporti con gli altri. Il lato negativo che riconosco nella masturbazione, almeno per me, è che la sento un po’ masochisticamente, come consapevolezza della mia inadeguatezza. Insomma, ho paura di non essere all’altezza di un rapporto con gli altri, ho paura di essere rifiutata e questo con la masturbazione non succede. Ho fatto anche un’esperienza omosessuale e mi sono trovata molto bene. Forse è un altro modo di esaurirmi in me stessa, uno specchio, ma non so. So soltanto che non mi sono mai sentita così «completa» e senza tensioni. Poi si sono ricreati i ruoli, come nel rapporto di coppia tradizionale; ho scoperto che facevo spesso «il maschio» della situazione, che opprimevo, stabilivo, ordinavo, e allora mi sono detta che non ne valeva la pena. 


SERENA: Non sono d’accordo col rifiuto della penetrazione e del maschio per quanto riguarda la sessualità. Posso rifiutarlo in altri campi, ma nel campo specifico non me la sento. Certe formule di rifiuto mi ricordano molto la mia infanzia, quando mia madre mi diceva che tutti gli uomini sono dei porci e che vogliono tutti la stessa cosa. («Perché, che altro vogliono?» l’ha interrotta Marina polemicamente, «Quando non la vogliono è perché hanno paura della fica dentata»). O le suore a scuola che mi dicevano: «Guai a toccarsi o a farsi toccare», perché ci sarebbero venute malattie innominabili, saremmo diventate cieche, o delle poco di buono e avremmo subìto punizioni eterne. Oppure le compagne di classe al liceo che mi consigliavano di fare «tutt » ma non «quello», perché finché una era vergine, aveva la patente. Mi ricordo ancora la frase: «Quando un uscio è aperto non si può più controllare quanta gente ci passa». 

Io, quindi, il sesso col maschio l’ho vissuto come liberazione da tutti questi condizionamenti e lo sento in modo positivo. Il mio uomo del momento non è che sia la fine del mondo, anzi diciamo pure che è un po'’stronzo, un impasto di zen, filosofie orientali e marxismo, però a me piace lo stesso scopare; anzi, vi dirò di più, mi piace anche essere sodomizzata. È ugualmente bello e non mi pone problemi di contraccettivi. 

Per quanto riguarda la masturbazione io non la pratico. Perché preferisco scopare con gli altri che da sola, dato che, come adulta, ho la possibilità di una vita sociale «normale». Penso che sia giusto che la pratichino i bambini, perché li aiuta a conoscere meglio il proprio corpo, ad avere fiducia in loro stessi, a superare remore e condizionamenti, a vivere il sesso in modo diverso da come l’ho vissuto io: ma in una persona adulta mi sembra un limite, più che una maggiore libertà di espressione. Sarà una forma di narcisismo, ma io ho bisogno dell’apprezzamento e del riconoscimento dell’altro e nell’altro. Avendo bisogno di «riconoscimenti», il maschio me ne dà di più, perché non sono ancora riuscita a rinunciare ai parametri secondo i quali il maschio vale di più e quindi il suo apprezzamento è più gratificante. E rapporto con una donna mi metterebbe in uno stato di insicurezza pazzesco, senza contare che sono convinta anch’io che i ruoli oppressore-oppresso all’interno di una coppia non si cancellano facilmente, anche fra donne. 


MARINA: Io mi sono accorta soltanto dopo mesi che per me la penetrazione era violenza. Non lo avevo capito quando Roberto mi entrava dentro dicendo «voglio spaccarti in due, infilzarti come uno spiedino, entrarti dentro tutto intero», in una specie di parto alla rovescia. La violenza di Roberto era anche ad altri livelli, ma a livello sessuale era più evidente. A un certo punto ho cominciato a vivere anch’io l’orgasmo come violenza che si faceva su di me, come appropriazione, come ulteriore schiavizzazione. Roberto era convinto che siccome mi scopava e mi faceva godere, poteva anche permettersi qualunque sopraffazione. Effettivamente, finché ci sono aspetti piacevoli in qualcosa, accetti con maggior tolleranza anche quelli spiacevoli. Quando gli aspetti spiacevoli erano diventati troppi e non riuscivo più a vivere bene nemmeno quelli piacevoli, sono diventata frigida, un pezzo di marmo. 

Mi sentivo rifiutata a troppi livelli per godermi il sesso. Mi sentivo brutta e avevo paura che Roberto scopasse con me soltanto per farmi piacere. Ho sempre creduto di essere brutta, fin da piccola, perché sono nera, ho i peli e sono bassa. Insomma, il mio corpo non corrisponde per niente ai canoni che ci vogliono imporre. A me sarebbe piaciuto essere Marilyn Monroe e mi ritrovavo senza petto, con le gambe storte e tutto il resto. Credevo di aver superato, crescendo, questi complessi, invece Roberto me li aveva fatti rivenire fuori tutti. Allora, frigidità. È vero, io sono completamente d’accordo che «la frigidità è una resistenza contro la sessualità come violenza». 

L’ho sperimentato fino in fondo. La frigidità non è un rifiuto masochistico del piacere, ma semplicemente il rifiuto di un piacere, perché è collegato a mille altri dispiaceri. Tutto qua. Roberto, poi, è il fallocrate in perenne erezione. Si considera bellissimo e dice che a lui le donne «la fica gliela sbattono in faccia». Io ero semplicemente una delle tante. Adesso non me ne frega più niente, le cose sono cambiate, ho una mia autonomia: però, fino a un anno fa, dipendevo psicologicamente da lui in modo totale. Mi chiedeva di spogliarmi in bagno, mentre lui guardava dal buco della serratura e quello stronzo si eccitava così. Io seduta sulla tazza del cesso che mimavo le spogliarelliste del Volturno e mi sentivo come una deficiente; non capivo perché lo facevo, ma lo facevo lo stesso. Riempiva la casa di pornoromanzi e io mi ci eccitavo sopra. Solo da poco riesco a vedere tutta la brutalità e la violenza fine a se stessa di quel tipo di sessualità; allora mi stava bene. C’aveva pure un bel cazzo di plastica bianco; insomma, tutti i sussidi elettrovisivi. E io facevo la casalinga: di giorno, mentre lui era a lavorare, stavo a casa a pulire, poi la spesa, la cucina, il figlio da allattare, portare al parco e la sera dovevo, secondo lui, essere una specie di odalisca, misteriosa, esotica, affascinante, truccata, che non appena lui metteva la chiave nella serratura, doveva mollare tutto e improvvisare una bella danza del ventre. Non dico niente di nuovo. Era il classico matrimonio borghese, col classico maschio borghese, «aperto» a sinistra. Poi c’erano altre donne, perché, mi diceva che una donna che si riduce «così», non può interessare nessuno. La morale di questi maschietti è che quando ci sono difficoltà e le cose non vanno, non si deve perdere tempo ad aggiustare i cocci, anzi, è meglio prendere il largo finché non si aggiustano da soli. E se non si aggiustano, si butta via il tutto e si compra una casa nuova. Io sono stata l’oggetto totale e mi sono subita tutta la mancanza di rispetto che implica questo ruolo: disinteresse per quello che facevo, dicevo o pensavo; per tutto quello che succedeva a casa. Una volta, quando io dormivo già nella stanza del bambino, s’è portato una donna a letto. Il bambino è andato la mattina a salutare il padre ed è corso da me a dire: «Mamma, c’è una bionda nel letto di papà». Io li ho sbattuti fuori tutti e due, ma non l’ho fatto per gelosia; l’ho fatto perché quello stronzo mi lascia già così pochi spazi, che non mi può togliere anche quelli che mi sono creata a casa mia. Per dirvene un’altra che aiuta a definire il tipo, una volta, tempo fa, mettendo a posto le sue camicie, mi sono accorta che il cazzo di plastica non c’era più. Era già il periodo in cui si scopava poco, quindi non lo usavamo da un bel po’. Gli ho chiesto dov’era. «Non c’è più?» mi fa con la tipica tattica maschile di rispondere a una domanda con un'altra domanda: «E dove lo hai messo?». «Dove l’hai messo te lo domando io», faccio. «E io che ne so? L’avrai messo tu da qualche parte, magari per nasconderlo e adesso te ne sei dimenticata. Sarà una tua rimozione inconscia. Vedrai che prima o poi salterà fuori». Questa frase è stata l’unica verità che mi ha detto. Ho accettato la sua spiegazione di tipo para-psicoanalitico e la cosa è finita lì. Dopo qualche mese, il giorno di Natale, stavo per andare a prendere Antonello da mia madre e mi trovo un bel pacchetto natalizio per terra, carino, ben confezionato, con slitte e renne. Credo che le renne fossero allusive a corna, vista la finezza di chi mi aveva mandato il regalo. Sopra c’era un cartoncino, indirizzato alla famiglia P. Guardo meglio. Il pacco aveva un’aria casareccia, la carta doveva essere un avanzo dei regali dell’anno precedente. Penso subito a una bomba, ai fasci, a qualcosa di politico. Roberto è conosciuto nel quartiere. Citofono alla portiera per sapere se qualcuno ha portato un pacco. Non ha visto nessuno, ma aggiunge che chiunque per entrare sarebbe dovuto passare sul suo cadavere; giura che è impossibile che ci sia un pacco e vuole venire su a vedere. È molto compresa del suo ruolo di artificiere. Anche lei sa che Roberto ha già avuto grane con i fasci. Scruta il pacco da lontano con occhio di falco, ci gira intorno. Poi si china ad annusarlo e auscultarlo e mi guarda scuotendo la testa. Alla fine, sulla paura ha prevalso per tutte e due la curiosità. Ruvidamente decide di passare all’azione. Abbiamo indugiato fin troppo. Si rimbocca le maniche e comincia a disfare, cautamente, il pacco. Sulla parte opposta del cartoncino era scritto «... ma il tuo è migliore...». Guardo di nuovo il pacco, ormai aperto. Una custodia di plastica, di quelle in cui di solito si mettono le orchidee, lasciava vedere qualcosa di lungo e cilindrico avvolto in velina bianca; quella delle scarpe o dei regali raffinati. Cazzo, era il cazzo di ritorno! Certe sagome sono inconfondibili. Era sicuramente Lui. Riguardo: «... ma il tuo è migliore...». Io non sono d’accordo, ma l’allusione è chiara. Mi fiondo sulla portiera che l’aveva già preso in mano e lo soppesava guardandolo perplessa. Glielo strappo e dico con voce esagitata: «È... è meglio che lo apra mio marito, non si sa mai. Potrebbe essere pericoloso. Lo ributto nella scatola, lo incarto di nuovo. Appena la portiera se ne è andata diffidente e perplessa ho aperto ed era proprio Lui. Anche i cazzi di plastica hanno le loro caratteristiche. Il mio aveva un neo proprio a metà che lo rendeva inconfondibile. Stronzo, penso; l’avevo nascosto e me ne ero dimenticata, per una mia rimozione inconscia! Vaffanculo. Non c’è più niente di sacro! Il Nostro cazzo nelle mani e nella fica di un’altra! E con che solerzia mi aveva aiutata a cercarlo. Io arrampicata sulla scala che lo cercavo nell’armadio in alto e lui che mi diceva dove dovevo guardare. Una bella presa per il culo, non c’è che dire! Esco sbattendo la porta, per smaltire la rabbia e mi imbatto nella portiera che mi guarda interrogativa. «Ha aperto?». «Era una bara». Butto là la prima cosa che mi viene in mente. «Una bara?!» fa lei con l’occhio rotondo per lo stupore. «Sì, una bara» rispondo io strafottente, «proprio una bara... sa di quelle in legno con dentro uno scheletro». «Uno scheletro?» L’occhio è sempre più rotondo. L’eccitazione e la curiosità la fanno saltellare di qua e di là. «Sì... il tuo è migliore allude probabilmente al Destino di mio marito e a quello dello scheletro. Che vuole, uno scherzo di cattivo gusto... Con la gente che gira al giorno d’oggi... Lei poi sa che mio marito ha già avuto minacce...». Abbasso gli occhi come sopraffatta dalla preoccupazione. «Anzi, volevo dirle... ecco, non ne parli con mio marito. Probabilmente è solo uno scherzo e mi sembra inutile preoccuparlo». «Certo, certo... Stia tranquilla... Io sono una tomba... cioè, volevo dire...». L’ho lasciata a meditare sulla sua gaffe e ho passeggiato pensando al che fare. Non mi è venuto in mente niente di abbastanza violento, se non di metterglielo in culo dritto dritto e fino in fondo, sussurrandogli che l’avevo ritrovato. Avevo pensato di non parlargliene neppure, ma non ho resistito. Che volete, ho sempre la mania di volere capire e chiarire, anche se non ci riesco mai. La sera, ho preparato la tavola e ho messo il cazzo dritto davanti al suo piatto, legato con un fiocco azzurro. «Secondo te, in linea teorica, è possibile che un cazzo di plastica metta le ali, sparisca e ritorni autonomamente il giorno di Natale?». «Tornato? Come» fa lui con aria finto-ottusa di chi vuol guadagnar tempo per trovare una balla plausibile. «Io non ne so niente. Sarà qualche scherzo. E poi perché dovrebbe essere proprio il nostro. Magari qualcuno ci ha voluto fare un regalo e l’ha comprato...». Si accorge anche lui che non regge, perché la voce gli si spegne mentre parla. Mi guarda in tralice per vedere se ho abboccato. Continuiamo per una mezz’ora. Gli dico che mi feriscono molto di più le bugie e l’equivoco che non il sapere che aveva un’altra. Tanto più che ci ero abituata. Niente da fare. È rimasto arroccato sul fatto che non ne sapeva niente e a un certo punto mi ha fatto anche pena, perché raccontava le peggio stronzate, le più implausibili pur di non dire la verità. Verità che ho saputo per caso qualche mese dopo. Vi risparmio i particolari, ma vi assicuro che non era molto edificante. Beh, è stata un po’ la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ho cominciato a prendere le distanze, a uscire, a trovare qualcosa da fare che non fosse soltanto il ragazzino, la casa e la scopata. Lilli mi è stata molto vicina. Poi è venuto il femminismo e Roberto sono riuscita finalmente a mandarlo affanculo. Appena mandato affanculo, scopre che mi ama e che senza di me non può stare. Tu Camilla ne sai qualcosa. Prima scopavamo ogni morte di papa; adesso è arrivato al colmo di infilarsi nel mio letto la mattina, per «sentire il mio calore e il mio odore» e di masturbarsi lì, da solo, come uno stronzo. Adesso, aboliti i rapporti umani e di amicizia con i maschi, abolito il rapporto sessuale, non è rimasto più niente. Abbiamo proprio due concezioni della vita opposte. Per me sono tutti fascisti, perché non sanno cos’è la collaborazione, ma conoscono soltanto o la prevaricazione o la sudditanza. Conoscono soltanto il «prendere» e non il dare, non «l’amore», ma il sesso nel modo più bieco e restrittivo. Io non ho ancora vissuto un rapporto lesbico, perché non sono mai andata a letto con una donna, ma mi sento lesbica, perché non scambierei una passeggiata, un film o un pranzo con un’amica col maschio più fico di Roma. Io con i maschi sono stata soltanto male. Il fatto è che siamo così condizionate, che se non soffriamo, siamo convinte di non amare sul serio; è perciò, forse, che a Serena piace prenderselo in culo. 


Guardavo le compagne che parlavano e mi piacevano tutte in un modo o nell’altro. Pina per la sua bionda, lattea fragilità: Marina per quei suoi riccioli neri da zingara, gli occhi stupendi, intensi, nerissimi, per il fatto che è piccola, scattante, per la sua robusta stretta di mano. È lei che mi è piaciuta di più nel collettivo, appena l’ho vista. È stata una attrazione istintiva e mi ha stupito che si sentisse brutta. E Serena, per la sua foga nel combattere contro i mulini a vento e per il suo amore-odio per il partito, il sindacato e il giornale. Abbiamo filosofeggiato un po’ su come il cattolicesimo ci ha inculcato la concezione dell’amore-passione sessuale, come qualcosa che è peccato e che quindi deve essere punito, appunto con la sofferenza. 


IO: Sarò una stronza, ma ho una visione della coppia un po’ alla Carosello. Vedo due allegri, saltellanti, sorridenti, con molta gioia di stare assieme, perennemente abbracciati. Vedo anche solidarietà quando c’è qualcosa che non va, aiuto, appoggio, ma l’ideale è essere allegri. In realtà questa situazione ottimale non l’ho mai trovata, eppure insisto col mio inguaribile fantasioso ottimismo. Andando indietro nel tempo, mi sono sempre sentita in qualche modo infelice nei miei rapporti sentimentali. Non riuscivano ad appagarmi, ma li cercavo. Dai tredici anni in poi, la mia vita è stata un perenne rapporto sentimentale insoddisfacente. Anche per me la sessualità comprende tanti livelli diversi, mentre col maschio è quasi sempre la scopata e basta. Scopata triste, poi, perché magari una non la vorrebbe fare, ma ci tiene all’amicizia o al rapporto intellettuale e sa che spesso quello passa attraverso la scopata, altrimenti il maschio si sente rifiutato e molla tutto. Così assieme al cervello, e all’amicizia, ti devi prendere anche il cazzo, sennò non vale. È un’offerta speciale, o tutto in blocco o si perde l’affare. Gli amici che non vogliono scopare io li conto sulle dita di una mano. Allora ci incastriamo in questi rapporti affettivi che si rinchiudono e si esauriscono in se stessi, eliminando o riducendo «l’esterno». O almeno, io mi sono sempre incastrata, perché evidentemente, il maschio mi dà delle sicurezze. Io ho rifiutato a lungo il sesso, per tutti i tabù che mi sono portata dietro, figuriamoci l’orgasmo! Ho vissuto male «il femminile», cioè le mestruazioni, per esempio, o il sesso, in cui, per me il maschio si prendeva un suo piacere e la donna no, ma lo subiva e non capivo bene perché. Da piccola avevo interiorizzato che bisognava sposarsi e avere dei figli, perché questo era il destino ottimale di una donna; sapevo che per avere tutto questo bisognava passare attraverso quella cosa turpe, misteriosa e inevitabile che era il sesso. L’ho sempre negato, quindi. A me nessun uomo mi avrebbe toccata; mio marito, l’unico autorizzato, avrebbe dovuto superare immani difficoltà, che io avrei messo sulla sua strada. Fantasticavo di tute inaccessibili con chiusura lampo e lucchetto, del quale avrei ingoiato la chiave. Questo atteggiamento era unito al desiderio di piacere, a una civetteria che mi dicevano fosse innata, ma che invece mi avevano insegnato. Ai maschi piacevo; non ho mai trovato nessuno che io volessi e che mi dicesse di no. Venivano a grappoli («quella è bona e anche un po’ mignotta, poi la mignottella allegra, non quella problematica»), e si trovavano di fronte a un muro e allora se ne andavano, oppure, dopo lunghe fatiche e argomentazioni, mi convincevano a scopare, ma lo facevo, così visibilmente «tanto per gradire», che un paio di maschi sono rimasti nell’impotenza più totale. Anche io, come Marina ho rifiutato a lungo l’orgasmo, perché lo sentivo come cedimento e come appropriazione da parte del maschio. Adesso riesco ad averlo, ma continua a sembrarmi troppo spesso un non-essere me stessa. Allora, quando il maschio mi interessa veramente, preferisco essere io a prendere l’iniziativa. Voglio essere vincente: voglio accarezzarlo, succhiarlo, ingoiarlo, appropriarmi del cazzo che si è appropriato di me e non dare niente in cambio. Sono io, caro compagno, che per una volta ti posseggo! Io sono favorevole ai pompini. Prendermelo in culo non mi piace; non ho mai provato, non lo so, ma non mi piace il concetto. Il pompino invece è psicologicamente soddisfacente, oltre a essere contraccettivamente valido. E vi spiego perché. L’uomo deve essere forte, temperante, dignitoso, silenzioso, deve comandare e non essere comandato, essere attivo e non passivo. Su questa ruolizzazione è basata la nostra oppressione sessuale Quindi vedo tutto ciò che può sconvolgere queste ruolizzazioni come qualcosa di positivo. La scopata «normale», è quasi più un bisogno corporale che affettivo per il maschio. Arriva, scopa, si rilassa, fuma una sigaretta e se ne riparte. È riuscito a riconstatare in poco tempo, con poca fatica e con sicurezza, che può facilmente tornare alla Madre quando vuole. Si riappropria della sua matrice e delle sue origini in cinque minuti; riacquista forza e certezza. «Lì ero, lì sono e lì tornerò», in un rispecchiamento ciclico. Una volta un compagno mi ha detto che agli uomini piace la fica perché da lì seno usciti. Lo trovo molto vero. La scopata è il rito di riapprcpriazione, è la sfida al Padre, allaltro Uomo che potrebbe essere al suo posto in quel momento, ma che non c’è, perché Lui è stato scelto, e quindi è Privilegiato. Che possiamo fare per non essere oggetto di riappropriazione, noi che non abbiamo niente di cui vogliamo veramente riappropriarci, perché ci hanno negate, sottovalutate ed espropriate così bene, che spesso non sentiamo nemmeno l’esigenza di riappropriarci di noi stesse? Si può, ovviamente, evitare la scopata e ogni rapporto col maschio, ma per chi non ci riesce, secondo me, il pompino è l’ideale perché dice tante cose: «Il tuo pene non serve alla riproduzione perché io non voglio figli, e neanche per il piacere, perché quando mi penetri non sento niente. Non serve per trovare in me tua Madre, perché io ti chiudo la porta in faccia e non ti lascio entrare. Questo mondo oscuro e senza fondo che ti sbigottisce e ti attrae è mio e soltanto mio. Tu, con quel tuo inutile e ridicolo battacchio non avrai più campane da suonare. Se nessuna te lo invidia più, puoi andare a seppellirti. Se vuoi ti dono la mia bocca, ugualmente umida e calda, che però non è riservata a te, perché tu entri col pane, la carne, l’acqua, la frutta; vieni come loro succhiato, bevuto, deglutito. Così tu mi restituisci il latte che io, Madre, ti ho dato. Sei il mio biberon tiepido e ti voglio vuotare fino all’ultima goccia. Posso consentirti di entrare un attimo in me, ma solo per poter sentire sul cazzo il mio sapore di donna, mescolato al tuo. Non sei tu ad appropriarti di me, non mi schiacci, non mi semini; sono io che ti prendo, ti sento tremare, ti gestisco. Sei passivo, cadi nell’irrazionale, che tanto detesti e che rimuovi, perché «femminile», urli, ti rubo il tuo potere. Sei stato «mio». Ne sono così convinta che sono arrivata a forme di espressione direi quasi sublimi in questo campo. Una volta ho fatto un pompino subacqueo in apnea, dando dei numeri a Maiorca. La fine del mondo! Ho vissuto fino in fondo l’eros come tanatos: stavamo per annegare tutti e due. Un’altra volta ricordo un pompino al miele di castagno dei frati di Camaldoli, delizioso. Così ho concluso la mia orazione. Le compagne mi sono state a sentire a bocca aperta; dopo qualche secondo di silenzio, Marina mi ha mandata affanculo. Ha detto che la mia è pura e semplice idolatria del cazzo; è instaurare una dipendenza edipica dal maschio. Immaginarselo come un biberon, vuol dire rendersi piccoli e dipendenti di fronte a un adulto che ti mette qualcosa in bocca e ti obbliga a succhiare. È il voler regredire a quando erano gli altri a darti tutto», a pensare a te e tu ricevevi, senza dover pensare a niente. Ho ammesso che quelle fantasie mi erano venute guardando mia figlia succhiare il biberon la mattina, ma ho negato che si trattasse di idolatria, perché idolatrare vuol dire adorare da lontano, vuol dire «non toccare». Io, al contrario, mi sento attiva e cerco una riappropriazione, seppure per procura fallica. Pina è intervenuta dicendo che lei un’analisi così approfondita sul pompino non l’aveva mai fatta e che non aveva niente in contrario a farli, però non li sente come una cosa sua, ma piuttosto come una cosa fatta per far piacere al partner. Tant’è vero che agli uomini i pompini piacciono particolarmente. Non li sentono come espropriazione, ma come un altro servizio reso a loro. Anche la parola «pompinara», gli uomini la usano con disprezzo maggiore di «puttana», proprio perché considerano il pompino uno dei servizi più sgradevoli. Io ho ribattuto che, secondo me, sono così suscettibili su «pompini e pompinare», proprio perché si sentono coinvolti ed espropriati; e più una cosa ti coinvolge, più hai bisogno, se senti il coinvolgimento come espropriazione, di minimizzarla, di dire che non conta niente, che non ti interessa e anzi che, al limite è disgustosa. Molti uomini hanno questo atteggiamento con le mogli, hanno la mania di parlar male del matrimonio, anche se poi tutto sommato sono contenti; o della donna con cui stanno, perché, minimizzando l’Altra, loro acquistano maggior autonomia e valore. Marina ha detto che io nel sesso non cerco di appropriarmi di me stessa, ma «dell’amore del proprietario del cazzo», cioè di quello che per gli altri, e anche per me, rimane un valore. E finché cercherò di appropriarmi del maschio non avrò mai né forza, né indipendenza. né libertà. La discussione è diventata un po’ un casino, perché parlavamo tutte insieme, poi è ripresa con un certo ordine. 


SERENA: Voi tutte avete parlato di sessualità come tenerezza. Io invece, sento il fatto di viverla come tenerezza, quasi come una deviazione dalla «spinta» naturale, che, secondo me, è volta alla soddisfazione sessuale diretta. La tenerezza, l’affettività generalizzata le sento anch’io come bisogni, ma le sento come bisogni molto «femminili», cioè indotti da una società maschile repressiva, che non vuole che la donna scopi, ma che impari a sublimare in affettività generalizzata e generica. Io voglio tenerezza e affetto, ma non sottovalutiamo il valore della semplice scopata, care compagne. Non mistifichiamo anche quella aggiungendo orpelli che, comunque, sappiamo che non riusciremo mai ad avere; anzi, direi meglio, non demistifichiamola! Io vedo in questo atteggiamento una punta di cattolicesimo. A voi la scopata non basta, perché continuate a considerarla una cosa «sconveniente» che non si giustifica in se stessa. Io ho avuto una sola storia importante con un compagno sposato e vi assicuro che non si reggeva su altro che sulla scopata. Aveva una moglie «comprensiva» che gli diceva: «Scopa, caro, scopa pure; capisco che un uomo geniale come te non può esaurirsi in un solo rapporto. Ricordati, però, che quando vuoi, qui ci sono sempre io». Lui completamente scisso fra me e la moglie. Dopo qualche mese di passione travolgente con me, ha deciso di tornare con la moglie, e fin qui tutto bene; solo che invece di affrontare chiaramente le cose, ci ha impiantato sopra un mistero gotico. «Ti amo, ma ti debbo lasciare», diceva sciogliendosi in lacrime. «Perché? Che è successo?», chiedevo io angosciata. «Non chiedermi niente, non posso dirtelo, ma tieni sempre a mente queste mie parole (attimo di sospensione)... ti amo da morire». E non ci siamo più visti. Vi ho raccontato tutta la storia per dirvi che lui era certamente uno stronzo, scorretto e incapace di affrontare le cose, però ho scopato bene lo stesso e poi lo devo ringraziare, perché è stata quella storia di merda con lui che mi ha aperto gli occhi al femminismo. Adesso non ho più vere e proprie storie, però, se mi capita, i maschi me li scopo, perché no? IO: Non sono d’accordo. Per me la scopata non ha significato se non c’è anche qualcos’altro. Forse dobbiamo capirci su cosa intendiamo dire quando parliamo di «scopata significativa» o di «scopata insignificante», quando diciamo «mi è piaciuto, non mi è piaciuto». Io scopo e magari ho anche l’orgasmo, ma può non piacermi lo stesso. La vivo meccanicamente, mi lascia con la bocca amara e un senso di vuoto, Mi è «piaciuta», ma mi sembra ugualmente inutile. Sarà che quando ho chiuso il matrimonio con Gianni mi sono buttata per cazzi, è ovvio che c’è sempre la discriminante politica; se non sono cazzi rossi niente da fare. Serena dice che rossi o bianchi sono tutti più o meno uguali. L’unica differenza è che i bianchi ti aprono le porte, ti aiutano a scendere dalla macchina, si prodigano, insomma, in mille modi. Ti considerano una minorata bisognosa di aiuto e te lo forniscono loro. I cazzi rossi ti considerano ugualmente una minorata e ti lasciano cuocere nel tuo brodo, perché loro «devono occuparsi delle loro contraddizioni». Ma, diciamo che Serena ama il paradosso. Dicevo, mi sono buttata e ho accumulato la quantità a discapito della qualità, e nessuno mi ha mai coinvolta, nemmeno in progetti per l’indomani. Con orrore e vergogna, a un certo punto mi sono anche accorta che preferivo gli «uomini di successo», quindi i più prevaricatori, arrivisti, padroni. Una rivalsa? Non lo so. Forse ho problemi col Potere. Mi devono essere venuti stando con Gianni, che si presenta come il classico uomo di potere, citato nelle antologie. Per un po’ ho subito da lui quasi tutto quello che ha ritenuto di infliggermi, quando stavamo insieme. Come diceva Marina, quando una si fa oggetto, se la prende in culo. Bisogna provarlo, per sapere cosa vuol dire essere svilita quotidianamente, subire quella violenza che non si risolve puramente semplicemente in pugni e schiaffi, ma che è data dal fatto che è Lui che decide cosa farai tu la sera, con chi uscirai e dové andrai. (Se non vai sei la solita scassacazzo che vuole rovinare la serata agli altri e lo fa solo per fare dispetto). È lui che decide quanti soldi si spendono e come, Lui che stabilisce il ritmo di vita, gli orari, le amicizie, Lui che deciderà quando scopare e come. Nel mio caso specifico, poi, la cosa era particolarmente tragica, perché io sono una a diurna» per forza di cose e lui un notturno per eccellenza; allora si scopava tardi, alle tre di notte, dopo la cena con gli amici, il cinema e non so cosa altro, quasi che non si sapesse più che fare a quel punto per non dormire, mentre io crollavo irritata e mezza addormentata e dopo quattro ore mi sarei dovuta alzare, mentre lui sarebbe rimasto a letto fino a mezzogiorno. Avrei dovuto abolire il lavoro e ogni altro interesse. La sessualità concentrata sul cazzo e sulla fica, dove tutto si svolgeva educatamente e con perizia, come il compitino fatto da uno dei bravi della classe, che condensa in poco tempo due o tre idee fondamentali. Poi di nuovo il silenzio. Io mi alzavo, la mattina, lui dormiva, tornavo da scuola, lui era appena uscito. Gli uomini poi, e generalizzo perché è una pretesa che ho trovato in molti, sono talmente convinti del potere taumaturgico del loro cazzo, che usano il sesso strumentalmente, per calmare gli animi dopo una lite, per ricucire un rapporto in crisi, per sollevare le depressioni, per farsi passare il mal di testa o di schiena, per attivare la circolazione, per stare meglio «dopo». Gli attribuiscono un potere a parte, che trascende la loro volontà. Dopo l’idea in sé, hanno scoperto il cazzo in sé». Per loro, essere un cazzo, perde la connotazione negativa. Il cazzo ha una sua esistenza razionale, autonoma, ma anche irrazionale, emotiva, impulsiva (ecco dov’è la loro irrazionalità!), quindi non colgono alcuna contraddizione, per esempio, nel fatto di non aver voglia di parlare e di avere un rapporto a livello razionale, ma di metterti con grande disponibilità il cazzo in mano. Te lo offrono su di un piatto d’argento, come la testa di San Giovanni. La parte viene accarezzata, vezzeggiata, palpita, vive, risponde e partecipa, mentre il tutto se ne sta lì, in silenzio, magari col muso a rimuginare su presunti torti subiti; «torti», che in genere sono stati sussulti di vitalità e di autonomia da parte nostra e recepiti subito come un’offesa alla loro immagine. Pero è ugualmente gratificato, perché essere «un cazzo», appunto, un dato positivo. Io cerco di fare un viaggio faticoso verso la totalità, e mi riesce inaccettabile questo smembramento. Non riesco ad accettare in un rapporto «stabile», che non si abbia voglia di giocare, di scherzare, di parlarsi, amarsi, costruire qualcosa insieme, ma solo di scopare. 

Quando mi sono messa ad andare per cazzi, volevo, forse, cercare di capire cosa aveva provato Gianni scopando con quella del piano di sotto, con la moglie paraplegica di un suo amico, con una sua zia, con la professoressa di tedesco, e via cazzeggiando. Volevo essere come lui, entrare nel suo ordine di idee e vedere quanto fosse gratificante la scopata emancipatoria. Sono stata soltanto male e adesso sento il bisogno di sfoltire drasticamente. Voglio scopare solo quando sono veramente io a deciderlo. Tornando a Gianni, mi diceva sempre e mi dice tuttora «io ti amo e potremmo stare tanto bene insieme», ma alla parola «amore» secondo me, bisogna dare dei contenuti. Non ha nessun valore dire «ti amo e voglio scopare con te, ma non mi interessa quello che pensi e fai, ma voglio essere libero di fare qualunque cosa, ma voglio essere io a decidere, voglio avere altre donne e tu mi devi essere fedele, altrimenti mi precipiti in un mare di insicurezze, eccetera». 

Dico: «No grazie, del tuo amore faccio volentieri a meno!». 

Verbalmente Gianni mi ha sempre amato tanto, ma quando la figlia aveva tre mesi mi ha comunicato che aveva bisogno di ritrovare se stesso, di abbandonare un ambiente di merda e condizionante, di scrivere un libro e che quindi si sarebbe trasferito nella «ville lumiere», l’ombelico del mondo, Parigi. Sapevo bene che era una fuga da una crisi in atto fra noi, che Gianni non si sentiva di discutere e che, anzi, negava. Se ne è andato (come rifiutargli una possibilità di realizzazione?!), lasciandomi addosso tutto il suo amore, sua figlia e ogni responsabilità. Poi è tomato, perché ha deciso che si sarebbe realizzato mettendo in piedi la radio e probabilmente si stuferà presto anche di quella. Mi domando: in tutte queste sue decisioni, in che modo io sono entrata, cosa c’entrava il fatto di amarmi? 

Siamo tutte concordi nel dire che la sessualità ha per i maschi un suo posto preciso e limitato nel quadro generale dei rapporti sociali. Loro trovano una gratificazione narcisistica in quello che sono, mentre noi ci amiamo poco, non riusciamo a trovare un’identità o la troviamo spesso soltanto in una storia sentimentale, piuttosto che nel lavoro o in altri interessi, anche perché i lavori che ci prospettano sono sempre quelli più noiosi, sottopagati e che perpetuano i nostri ruoli «femminili».Siamo anche concordi nel dire che quando abbiamo cominciato il lavoro alla radio e le cose fra noi compagne andavano bene, eravamo anche riuscite a ridimensionare il rapporto col maschio. Più il nostro «esterno» e debole, più abbiamo bisogno di identificarci con il maschio. 


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