scienza e politica
- Giuseppe Onufrio

- 7 ore fa
- Tempo di lettura: 8 min
Geopolitica delle risorse e crisi climatica

Il saggio analizza le intersezioni tra geopolitica delle risorse fossili e transizione energetica in un contesto internazionale segnato dalla crisi climatica. La COP30 di Belém evidenzia ancora la pressione dei lobbisti delle fossili, mentre la politica statunitense sotto Trump — descritta come espressione di un <<blocco di interessi fossile>> — ostacola la transizione verde e alimenta tensioni con paesi ricchi di petrolio come il Venezuela. L’autore mostra come il passaggio alle rinnovabili stia ridefinendo gli equilibri globali: la Cina domina le filiere tecnologiche della transizione, mentre Russia e altri esportatori di combustibili fossili restano marginali. Negli USA emergono contraddizioni profonde, con stati come California e Texas che avanzano nella decarbonizzazione nonostante la leadership federale contraria. Il testo sottolinea che l’economia delle rinnovabili richiede meno estrazioni e offre maggiore riciclabilità dei materiali rispetto ai combustibili fossili, mentre l’innovazione continua ad accelerare (batterie al sodio, ferro, tecnologie di accumulo termico). In conclusione, la transizione energetica è descritta come un processo ormai inarrestabile, benché rallentato dagli interessi fossili, compresi quelli italiani, che continuano a ostacolare lo sviluppo di un sistema energetico pienamente rinnovabile.
A Belem in Brasile la trentesima Conferenza delle Parti sul Clima Globale (COP30) vede come sempre attivi un foltissimo gruppo di lobbisti delle fonti fossili che, come ha dichiarato il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres, <<stanno lavorando per garantire che l’azione sul clima non solo rallenti ma faccia passi indietro>>. Se alla COP30 gli Stati Uniti di Trump, che hanno abbandonato per la seconda volta l’Accordo di Parigi sul clima, non sono presenti, una nuova crisi potrebbe sfociare in un conflitto armato, quella tra gli USA e il Venezuela.
Gli analisti di geopolitica hanno, credo giustamente, indicato in una <<nuova dottrina Monroe>> delle aree di influenza, questa mossa del declinante impero americano, in coerenza con la linea aggressiva già espressa nei confronti del Messico, del Brasile, del Canada: come se nel nuovo ordine mondiale che si va delineando, venendo meno il ruolo di unica superpotenza americana, si stia tornando alla politica di potenze più regionali.
Non si vuole qui entrare in questo dibattito ma ricordare quello che quasi nessun osservatore ha notato nella crisi creata da Trump nei confronti del Venezuela: questo Paese ha le più grandi riserve petrolifere del pianeta (1).
Se, nel caso del Messico, la linea di aggressione trumpiana ha utilizzato il tema del narcotraffico (per le importazioni illegali di fentanyl, droga che miete migliaia di morti negli USA), il Venezuela col narcotraffico non ha nulla da spartire, come ha recentemente ricordato il giudice Gratteri, tra i massimi esperti in materia.
Nella fase, delicatissima, di transizione storica cui stiamo assistendo, governata certamente da dinamiche politiche e tensioni tra le diverse aree del mondo, c’è una dimensione che va esplicitata: gli USA di Trump rappresentano un <<blocco di interessi fossile>>. I rinnovati accordi con l’Arabia Saudita di questi giorni, l’intenzione serissima di controllare le risorse del Venezuela e i reiterati attacchi di Trump alla transizione rinnovabile nel suo stesso Paese – anche a colpi di decreti presidenziali (parte dei quali poi bloccati dai giudici) – hanno un motivo fondamentale: nell’economia energetica dominata dalle fossili (e specialmente dal petrolio e dal gas) la primazia americana è indiscussa. Non è così, com’è noto, per le tecnologie della transizione verde e della mobilità elettrica (e digitale: c’è una certa sovrapposizione tra queste filiere industriali) nel cui campo è chiaramente la Cina a guidare il mondo.
Che la transizione verde avrebbe riscritto la <<geopolitica delle risorse>> è noto da tempo. Da segnalare le diverse analisi sul tema dell’Agenzia internazionale per le fonti rinnovabili (IRENA) diretta da Francesco la Camera (2).
Già in un rapporto del 2019, sulla base del numero di brevetti tecnologici legati alla transizione verde, IRENA mostrava come, in termini di sviluppo delle nuove tecnologie, la Cina fosse avanti agli Stati Uniti e, un po’ più indietro, l’Europa e il Giappone. Mentre i Paesi completamente <<fuori dalla transizione>> coincidevano con i principali esportatori di petrolio e gas: dalla Russia all’Arabia Saudita, dall’Indonesia al Sudafrica.
In Russia il primo (e finora unico) impianto eolico industriale è entrato in funzione nel 2021, costruito da una azienda italiana, il primo in Europa era stato in Danimarca nel 1987. Sempre nel 2021 il governo federale tedesco aveva aperto un ufficio per l’idrogeno verde a Mosca: in futuro anziché importare gas si potrebbe importare idrogeno prodotto da eolico, la Russia è tra le aree del mondo con un potenziale enorme. Ma la sua oligarchia – prevalentemente petrolchimica - non è interessata a sviluppare le rinnovabili, come confermato dai responsabili dell’azienda italiana. È quella russa un’economia basata sull’esportazione di petrolio, gas e carbone (e combustibile nucleare di cui domina il mercato). Un’economia rinnovabile prevederebbe la creazione di una nuova classe imprenditoriale, un diverso rapporto col territorio e una capacità tecnologica mentre, persino nel settore petrolifero, la Russia dipende dalle tecnologie occidentali.
Dunque, nel rivolgimento complessivo dell’ordine internazionale di questa fase storica, c’è anche una dinamica specifica legata alla transizione verde, con diverse contraddizioni come abbiamo visto nel caso russo. E questa dinamica è uno degli elementi di vero conflitto strategico tra Stati Uniti e Cina, Paese che non dispone di risorse petrolifere e di gas, ma solo di carbone (il cui peso geopolitico è decisamente minore). E questa dinamica è basata su un apparente paradosso: molte delle tecnologie rilevanti per la transizione verde sono nate e sono state sviluppate negli Stati Uniti. Che però, allo stesso tempo, sono diventati i più grandi esportatori di petrolio e gas grazie alla tecnica – ambientalmente molto distruttiva - del fracking. Così, se l’industrializzazione dell’auto elettrica è stata realizzata per prima dalla Tesla di Musk, oggi a dominare il mercato (sia in termini quantitativi che, ed è una novità recente, qualitativi) sono i marchi cinesi.
Se oggi le tecnologie rinnovabili rappresentano, e di gran lunga, le forme di produzione di elettricità a minor costo, lo si deve al combinato disposto di politiche europee lungimiranti (e incentivanti), seguite da alcuni degli Stati americani, e dal colossale investimento nelle filiere produttive che ha fatto la Cina. E, se all’inizio il costo del lavoro era un fattore determinante, oggi è proprio l’assetto tecnologico cinese e la qualità a fare la differenza. Certo, in un contesto in cui domina la politica sul mercato e in cui i sussidi statali giocano un ruolo decisivo. Ma, del resto, i sussidi diretti e indiretti giocano un ruolo decisivo anche nell’economia fossile del gas e del petrolio. Dunque, l’economia di mercato nel settore energetico è <<libera>> fino a un certo punto: fattori politici e di cartello, sussidi e politiche statali a sostegno diretto e indiretto hanno un grande ruolo.
La contraddizione statunitense è dunque questa: molte delle tecnologie hanno avuto origine in quel Paese, ma il loro sviluppo è stato più lento che in Cina e per una ragione precisa: lo scontro con gli interessi dominanti in campo fossile. Alla COP30, assenti gli USA è però andato il governatore della California Gavin Newsom, che si profila anche come lo sfidante di Trump per il 2028, quasi a sopperire l’assenza del governo federale. La quarta economia del mondo, la California, infatti è in piena transizione verde, tra i Paesi più interessanti nello sviluppo di un sistema basato sulle rinnovabili e sulle batterie industriali che, assorbendo l’eccesso di produzione in certe ore, garantiscono in modo crescente la stabilità della rete elettrica. Ed è interessante vedere come nella corsa alla transizione verde la California debba confrontarsi con il Texas, stato fortemente repubblicano, che in termini di consumi elettrici è il doppio della California. Lo stato già <<capitale del petrolio>> è oggi infatti la capitale dell’eolico e, per certi versi, la sua transizione va meglio di quella della California che invece sull’eolico è indietro. Solare ed eolico, infatti, per ragioni tecniche e di natura delle fonti si integrano a vicenda, come si vede in tutti Paesi attivi nella transizione verde come Australia, Germania, Spagna e, in piccolo, persino in Italia.
Una differenza sostanziale tra un mondo dominato dalle fonti fossili e quello che si delinea in un assetto dominato dalle rinnovabili – necessario per evitare la catastrofe climatica – è che i materiali necessari ai cicli produttivi hanno generalmente una minore concentrazione rispetto ai giacimenti di petrolio e gas. In particolare, le <<terre rare>> sono elementi chimici rari ma distribuiti nella crosta terrestre e anche il litio, che non fa parte delle terre rare ma importante per le batterie delle auto e industriali a servizio delle reti elettriche, la stessa Cina deve importarlo (ad esempio dall’Australia). Il dominio cinese nella produzione delle tecnologie verdi, infatti, non dipende affatto da un <<controllo territoriale>> diretto o indiretto dei giacimenti, ma pressoché esclusivamente dalla sua capacità industriale e tecnologica di controllo della catena produttiva.
Anche in termini di quantità di materiali da estrarre c’è una differenza sostanziale tra l’economia basata sulle fossili e quella basata sulle rinnovabili. Ogni anno si estraggono qualcosa come 15 miliardi di tonnellate di combustibili fossili, mentre l’estrazione di metalli ed elementi chimici per la transizione verde è dell’ordine di 10 milioni di tonnellate l’anno, più di mille volte in meno in termini quantitativi. E anche in termini economici la rilevanza dell’industria estrattiva è ben diversa nei due casi: il valore delle fonti fossili estratte nel 2021 era di 2 mila miliardi di dollari, contro i 96 miliardi dei metalli e materiali <<critici>>. E, differenza più importante di tutte, i combustibili fossili una volta estratti e lavorati vengono bruciati e impattano sull’ambiente locale e sul clima globale; i <<materiali critici>> rimangono invece largamente disponibili anche dopo che le tecnologie sono andate a fine vita. Il litio lo si può recuperare ad alte percentuali dalle batterie a fine vita, come già si comincia a fare, è solo una questione di costi (e di politiche). Il miglioramento tecnologico oggi cerca di incorporare l’obiettivo di massimizzare la <<riciclabilità>> di questi materiali strategici.
E non è finita. L’innovazione tecnologica nel campo delle rinnovabili e dei materiali innovativi procede. Nuovi elementi chimici sono già emersi, ad esempio, nel campo delle batterie, campo essenziale per la transizione energetica. Batterie al sodio sono già disponibili, sia per i servizi di rete elettrica che per le auto a minor costo; batterie al ferro per l’uso industriale sono già nel mercato. E, novità persino in Italia, hanno già debuttato batterie a base di sabbia e acciaio, che convertono l’elettricità rinnovabile in calore a media temperatura per essere usato nelle industrie (buona parte dei consumi industriali infatti è di calore fino a 400°C). La possibilità di progressivamente <<elettrificare>> gli usi energetici oggi coperti dalle fonti fossili è consistente e nel campo della produzione elettrica le rinnovabili sono ormai l’opzione più economica (e che genera più posti di lavoro in proporzione).
Per chiudere questa breve rassegna, necessariamente sintetica, l’attacco alla scienza di Trump, citato da Gianfranco Pancino in queste pagine, è parte di una strategia complessiva di <<resistenza fossile>> alla transizione verde. Una buona parte delle conoscenze che abbiamo sulla crisi climatica si deve proprio a istituzioni scientifiche statunitensi oggi sotto attacco: il rischio climatico è un rischio esistenziale per l’umanità e negarlo al livello di un Presidente degli USA è semplicemente criminale. Se Elon Musk, in soccorso di Trump, ha minimizzato la rilevanza della crisi climatica, non è così per Grok4, l’intelligenza artificiale promossa dallo stesso Musk (3) che ha proprio usato l’espressione <<rischio esistenziale>>.
In conclusione, nelle dinamiche internazionali c’è uno scontro esistenziale tra gli interessi fossili oggi ancora dominanti e l’emergenza di una transizione che nonostante gli evidenti conflitti è in corso e appare non arrestabile: il progresso delle tecnologie non lo si può fermare per volontà politica (4). Ma lo si può rallentare e di molto, come accade in Italia dove gli interessi dell’Oil&Gas sono largamente dominanti. Sostenuti in modo bipartizan da tutti i governi succedutisi e aiutati da assurde moratorie regionali (come in Sardegna) e pseudoambientalisti anti-rinnovabili la cui azione aiuta a mantenere il gas fossile, importato a caro prezzo, al centro del sistema energetico, mentre una strategia 100% rinnovabile sarebbe possibile (5).
Note
Le riserve principali petrolifere https://energy-oil-gas.com/news/6-countries-with-the-largest-crude-oil-reserves-in-the-world/
I rapporti geopolitici di Irena si possono scaricare da questa pagina web: https://www.irena.org/How-we-work/Collaborative-frameworks/Geopolitics
Si veda il mio scambio su X (Twitter) proprio con l’intelligenza artificiale Grok4 in cui a domanda risponde tra l’altro che: <<Climate change ranks as one of humanity's top existential risks, comparable to pandemics or nuclear war, due to its cascading effects on stability.>>
Si veda, ad esempio, la sintesi del rapporto EMBER: https://ember-energy.org/app/uploads/2025/09/Slidedeck-The-Electrotech-Revolution-PDF.pdf
Esiste ampia letteratura sulla fattibilità di un sistema energetico basato solo sulle rinnovabili; per l’Italia veda il documento promosso da 100% Rinnovabili Network e firmato da una quindicina di ricercatori e accademici italiani: https://www.100x100rinnovabili.net/wp-content/uploads/2025/03/Report-Verso-la-neutralita-climatica_100x100-rinnovabili-network.pdf
Giuseppe Onufrio, fisico, ricercatore nel campo dell'energia e dell'ambiente per varie
istituzioni e come consulente scientifico per varie istituzioni ed enti scientifici. Ha fatto
parte del consiglio di amministrazione dell'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente
(ANPA, ora ISPRA) nel 1998-2001. Direttore scientifico dell'Istituto Sviluppo Sostenibile
Italia (ISSI, ora Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile), un istituto di ricerca privato. A
Greenpeace Italia ha ricoperto il ruolo direttore delle campagne e ne è stato direttore
esecutivo dal 2009 al 2025.

