selfie da zemrude
- Franco Bocca Gelsi
- 1 lug
- Tempo di lettura: 12 min
Oltre il giardino # 1: Il cinema come volontà di rappresentazione

Il saggio riflette criticamente sullo stato attuale del linguaggio cinematografico e audiovisivo, denunciando una deriva verso un’estetica dell’anestesia e della neutralizzazione del conflitto. In un contesto dominato da algoritmi e mercato, il cinema tende oggi a lisciare le fratture, a evitare lo strappo, e a produrre senso preconfezionato, disinnescando ogni tensione. Il montaggio, un tempo luogo di crisi e pensiero, è ora solo continuità. Tuttavia, sopravvive una contro-estetica marginale, frammentaria, che abita la soglia, rompe il flusso e interroga ancora il presente. Non nei grandi film, ma in spazi liminali – cineforum digitali, newsletter, microcomunità – si cerca di riattivare un rapporto vivo con l’immagine, capace di generare nuove domande collettive. Il testo chiude con un invito: non a rifondare il cinema, ma a ridefinire lo sguardo, il gesto, l’intenzione, affinché l’immagine torni a essere atto condiviso, simbolico, intensamente presente. Questo articolo fa parte della rubrica <<Oltre il giardino>> curata da Franco Bocca Gelsi
C’è una zona d’ombra nel logos dell’immaginario poetico dell’audiovisivo moderno che sta sotto la soglia della visibilità, sotto la soglia dell’urgenza. È quella parte di immaginario che non grida, non denuncia, non si offre come contenuto, ma pulsa: come un infrasuono del non detto, come una termoregolazione simbolica che mantiene ogni forma narrativa entro limiti accettabili di calore. Non esplode, non deflagra, niente. Il senso è temperato, la visione è raffreddata con cura. Le fratture si suturano in automatico, le contraddizioni si dissolvono in estetica, la tensione si attenua prima ancora di nascere.
Questo regime di immagini non sembra nemmeno più il prodotto di una volontà esterna. La narrazione si è autocostruita per non urtare, per scorrere fluidamente, per rassicurare, per consolare come un algoritmo emotivo di superficie. Il potere simbolico non vieta, attenua, non impone, regola, non urla: modula.
Eppure, da qualche parte qualcosa scarta ancora dal flusso.Un’estetica molecolare, fatta di frammenti affettivi, gesti minimi, vibrazioni laterali, continua a disarticolare la forma dominante.
Una contro-semiosi che non conferma, non vive nel flusso centrale, nella narrazione condivisa, nella sintassi dell’approvazione; è un détournement lento, quasi inavvertibile, ma ostinato, un battito fuori campo, un gesto fuori asse, un non-allineamento semantico che non si oppone, che disarma la coerenza del visibile.Un modo di abitare il linguaggio senza permesso, senza approvazione, senza share.
Cinematograficamente se pensiamo al linguaggio strutturato possiamo riferirci alla Corea del Sud, dove film come Parasite, Decision to Leave, Burning riescono a lasciare ancora un segno, o pensando al cinema iraniano clandestino a Panahi o Rasoulof, dove ogni inquadratura è un détournement reale, un’immagine che non può fluire, e proprio per questo torna ad avere peso, o al cinema colombiano recente, Laura Mora, Ruiz Navia, dove il racconto non si redime, si disperde, ma non si neutralizza. In entrambi i casi, è la frattura stessa che viene abitata come linguaggio, cinema che riesce a tenere la ferita aperta, non a ricucirla, non è nostalgia del trauma, è dissonanza attiva. Una forma di racconto che non si lascia anestetizzare, che non accetta la regolazione, che non vuole fluire verso il lieto fine, non per recuperare un linguaggio perduto, ma per riattivare l’intervallo, la soglia, il margine ustionante in cui il bordo, o la marginalità torna a farsi presenza.
Negli anni Venti, alcuni teorici e cineasti russi – Kulešov, Ejzenštejn, ma anche Šklovskij in filigrana – avevano cominciato a trattare il cinema non come narrazione, ma come dispositivo di pensiero.Il montaggio non era una tecnica di raccordo, ma una frizione intenzionale: un varco nella percezione ordinaria, una tensione impressa alle immagini per costringerle a rivelarsi, infatti Kulešov lo dimostrava con la giustapposizione, un volto, poi una tomba, e lo spettatore leggeva il lutto, ma non era nel volto, e nemmeno nella tomba. Il senso si generava nell’intervallo, nello scarto. Ejzenštejn andò oltre, per lui, il montaggio era il punto in cui il visibile diventava ideogramma. Non un modo per mostrare la realtà, ma per piegarla finché non ammetteva di essere costruita. Il cinema non rappresentava il mondo, lo esponeva a una prova, lo disallineava, lo sottoponeva a una crisi di senso reinventandolo, una nuova semiosi.
Quel gesto, così materiale, così formale – non era estetizzante, non c’era decorazione, né compiacimento, c’era la volontà di ferire lo sguardo, di interpellarlo senza dargli risposte. Non per mostrargli la verità, ma per togliergliela da sotto i piedi. Oggi del montaggio non è scomparsa la tecnica, ma la funzione. Il montaggio non cerca più la frattura: cerca la continuità, non costruisce crisi di senso, ma le assorbe, sutura, ammorbidisce, accompagna, non interrompe più il flusso, lo regola.
Oggi quella tensione non è più attiva perché è stata neutralizzata attraverso un immaginario addomesticato, afásico, televisivo. Non ha perso soltanto la voce, ha smarrito la facoltà di nominare ciò che racconta, di riconoscere ciò che accade, non riesce più a dare forma nemmeno al proprio silenzio.
La sensazione, inquieta, sfuggente, è che qualcosa si sia smorzato, non c’è più lo strappo, non c’è più nemmeno la pretesa di generare materiale mitopoietico, la lingua cinematografica si è lasciata addomesticare, forse perché i temi sono stati sospinti fuori campo, ma più ancora perché il potere che plasma l’immaginario non ha più il volto della borghesia, perché la borghesia ha smesso di interrogarsi sul suo ruolo, è stata superata dal mercato stesso e inglobata nell'algoritmo finanziario. Non è più il capitale con volto umano, né il paternalismo culturale delle classi dominanti. Oggi il potere è una funzione che sta nel codice che ordina le immagini, nell’indice che detta la visibilità, nel calcolo che trasforma lo spettatore in profilo.
E allora la domanda diventa: come si fa a montare nuovo senso ancora? Non a montare immagini, ma a montare discontinuità, a costruire dispositivi che non uniscano, ma disarticolino, che non pacifichino, ma sospendano il senso finché non diventa nuovamente cosa viva, corpo estraneo, linguaggio ritrovato.
Il vuoto come funzione semantica
C’è un vuoto, lo sentiamo, sarebbe ingenuo pensarlo come una semplice mancanza, una disattenzione collettiva o una crisi di ispirazione.Il vuoto, oggi, non è un effetto collaterale del sistema, è parte del sistema, non è lo spazio che il cinema non riesce più a colmare, semmai è la zona che deve restare vuota perché tutto ciò che è esterno al cinema continui a funzionare.
Le immagini non tacciono: parlano, scorrono, si moltiplicano, ma parlano d’altro, parlano intorno, parlano senza toccare il centro, e se lo toccano lo disconoscono. E in questa proliferazione narrativa, il cuore tematico si è dissolto, non perché non ci siano storie da raccontare, ma perché ci sono troppe condizioni implicite su ciò che si può mostrare, e come.
La rimozione non è censura, è pre-configurazione dell’accesso. I film non vengono vietati, semplicemente, non accadono, l’autocensura è interiorizzata per la sopravvivenza professionale. Il potere non si impone più come forza impositrice gerarchica, ma agisce come un custode del margine, flessibile, modulare, incorporato nella logica e negli stilemi narrativi che regolano il visibile, incorporato nella logica e nelle micro-forme retoriche del racconto visivo contemporaneo. Si è persa la sacralità dello sguardo indagatore a fronte di una semplificazione eccessivamente disincantata e fintamente dissacrante.
Il sistema valoriale in cui siamo immersi non dice mai <<no>>, ma orienta impercettibilmente verso l’insignificante, ecco perché certe sceneggiature o progetti non entrano nei fondi pubblici, perché non girano nei pitch di mercato, perché non attivano l’interesse delle piattaforme. E allora non esistono, e se non esistono, il mondo che avrebbero potuto far emergere resta silente, non rappresentato, e quindi sempre meno pensabile.
Ciò che chiamiamo <<vuoto>> è una zona cieca prodotta attivamente, una zona ottimizzata dal punto di vista industriale, innocua dal punto di vista culturale, impossibile da sovvertire narrativamente senza perdere l’accesso al sistema. Non è che il vuoto non ci fosse prima, è la sua funzione che è cambiata, prima era uno spazio di attrito, una zona di rischio, qualcosa che il cinema provava ad attraversare.
Oggi quel vuoto viene sigillato prima che qualcuno possa anche solo puntarci una macchina da presa, o forse nessuno riesce più a uscirne, o peggio, ci entriamo senza accorgercene, e non troviamo più niente da dire, come se tra noi e l’immagine si fosse inserita una membrana invisibile, un sistema operativo che decide in anticipo quali fratture sono compatibili, quali contraddizioni sono raccontabili, quali traumi possono diventare contenuto e quali, invece, devono restare esterni al campo simbolico.
La crisi del cinema, allora, non è la crisi delle storie, ma la crisi della possibilità di produrre discontinuità semantiche. Se il linguaggio smette di fare male, il potere può dormire tranquillo, non ha più bisogno di censurare, basta che resti al centro, silenzioso, fuori fuoco. Siamo noi a renderlo invisibile, ogni volta che montiamo senza fratture, scriviamo senza frizioni, raccontiamo senza chiederci se stiamo solo omaggiando Kronos.
La domanda vera è questa, cosa succede quando il cinema smette di togliere il velo e inizia a cucirlo? Non raccontiamo più per mostrare, raccontiamo per non vedere. Il cinema, oggi, non occulta, protegge. Protegge il vuoto come luogo semantico da abitare, protegge l’assenza di conflitto, anche di classe, protegge una falsa convinzione che tutto sia già stato detto, che non resti più nulla da interrogare, solo da rappresentare con cura, una sorta di nichilismo soft, travestito da finta maturità culturale disincantata, un dissenso stilizzato, civile, produttivo e finalizzato alla ricomposizione e all’eliminazione del conflitto visto come forma infantile e ribelle, quindi un’omologazione perfettamente funzionale al potere.
Quindi cosa stiamo davvero proteggendo?
Estetica dell’anestesia: la forma come neutralizzazione
Nel vuoto che abbiamo cominciato a descrivere, un vuoto attivo, funzionale, sistemico, qualcosa è però subentrato, non è il silenzio, non è il buio, è la pienezza. Film che filano lisci come codice ottimizzato, trame che incrociano linee temporali, dispositivi, identità. Regie che giocano con il tempo, con il corpo, con il fuori campo, tutto è a posto, ben confezionato, ritmato, vendibile; eppure nulla rimane.
Come se l’immagine fosse stata riempita non per dire di più, ma per neutralizzare il vuoto, uno spazio che non deve essere riempito con domande, urgenze, riflesioni, come se la forma fosse diventata una capsula sensoriale, levigata, autoreferenziale, autoconclusiva. Non è formalismo, è <<formatizzazione>> percettiva. Non è ricerca è ricorsività algoritmica, lo spettatore ama ciò che ha già visto, e lo rivede con una variazione del 3%, ogni frame promette qualcosa, ma niente sposta davvero l’asse.
E in questo eccesso di senso (fabbricato, calibrato, profilato), si compie una delle operazioni più sofisticate del nuovo potere; non vietare nulla, ma soffocare tutto nel visibile.Nessun contenuto è proibito, ma tutti vengono pre-digeriti.Un film può parlare di guerra, di fine del mondo, di apocalisse sociale, ma lo farà senza dissonanza, senza rischio semantico, senza generare cortocircuito.
Il risultato è un paradosso, estrema ricchezza formale, estrema povertà percettiva. Il cinema italiano, salvo rare eccezioni che non fanno massa, sembra vivere pienamente questo scollamento.Si muove dentro una grammatica post-borghese, non più legata alla rappresentazione della società o al dramma dell’individuo moderno, ma del rampollo che non trova uno spazio nel mondo senza interrogassi ne su quale debba esser il mondo ne perché lui dovrebbe avere uno spazio, soprattutto senza essere mai nemmeno veramente pop, né veramente sperimentale. Piuttosto una superficie mid-level, fluida, educata, che non disturba né interroga, e che per questo risulta perfettamente funzionale a ciò che il potere semantico contemporaneo richiede.
Oggi il potere non cerca più l’egemonia culturale, cerca l’abbassamento del livello di soglia. Vuole che si guardi tutto, purché niente ci riguardi davvero. Il montaggio, un tempo, faceva inciampare, oggi ricuce, liscia, chiude. Lo spettatore non viene più convocato, ma accompagnato, e in questo accompagnamento, in questo <<tutto fila>>, si gioca la grande scommessa dell’anestesia estetica, un’arte che non disturba, un’immagine che non devia, un cinema che ha smesso di chiedere <<che senso ha tutto questo?>> e ha cominciato a chiedere soltanto <<ti è piaciuto?>>.
Le sopravvivenze minime: dove ancora si pensa guardando
Se tutto sembra anestetizzato, se il cinema industriale non ferisce più e quello d’autore spesso non osa oltre la rottura programmata in cerca di visibilità, resta da chiedersi dove si sia rifugiato lo sguardo vivo. Non lo sguardo esperto dei critici polverosi da cineteca chiusa per inattività, non lo sguardo colto troppo colto, nemmeno lo sguardo radicale all’osso e oltre. Ma lo sguardo che cerca ancora di trasformare la visione in una domanda collettiva popolare nel senso gramsciano o pasoliniano del termine.
Forse non si è rifugiato, si è naturalmente ritirato, sottratto, riformulato altrove. Fuori dalla sala, fuori dai festival, fuori dalla liturgia della critica, in luoghi più intermittenti, meno istituzionali, più banali apparentemente. Vive in attesa di nuove rotture, cercando di generare un proprio codice nei gruppi Telegram, nei blog che sopravvivono a bassa frequenza, nelle rassegne senza glamour, nei cineforum digitali, nelle newsletter che sparano nel buio e parlano a duecento, forse trenta persone.
E perfino nei filmati auto-celebrativi di TikTok e Instagram: banali, ripetitivi, ma forse, in qualche modo, sottratti allo sguardo censorio del liminale. Non si tratta di eroismo, né di qualche strana mitologia della resistenza. È solo un gesto quotidiano che continua a scorrere sotto traccia, che insiste anche quando sembra inutile, una forma minima di prossimità che, ogni tanto, fa ancora la cosa più semplice, condividere qualcosa insieme, fosse anche solo il tormentone del momento.
Non sono comunità, almeno non nel senso pieno, sono microclimi simbolici, fili di senso che si tengono solo se qualcuno li tiene. Nessuna legittimazione culturale, nessuna spinta algoritmica se non l’assonanza che ti porta a visualizzare sempre gli stessi contenuti, ( che non è poco mi rendo conto) ma, ogni tanto, accade qualcosa, una conversazione attorno a un film che non funziona ma dice, una visione condivisa non in streaming, ma in simultaneità emotiva, una recensione che non spiega il film, ma apre un varco dentro chi l’ha letta.
Qui sopravvive qualcosa che assomiglia a un’ecologia della visione, non tanto uno spazio alternativo, quanto un diverso rapporto con le immagini, non più contenuto da consumare, ma incontro da abitare, seppur ripetitivo, disorganico, sbilenco, nevrotico nel proprio isolamento da dispositivo auto-consolatorio, auto-affermativo, auto-narrante, auto-algoritmico, e proprio per questo, non ancora disattivato, creduto dismetabolizzato.
Non si tratta di nostalgia, questi spazi non sono migliori, né più puri, ma non sono ancora completamente integrati, stanno a metà, sono il purgatorio semantico dell’audiovisivo popolar-populista, tra il nerd e il pop, tra lo specialista e l’ossessivo, tra il dispersivo e il ritualistico. Ed è proprio questa ambivalenza a renderli fertili, e non sappiamo se da qui nascerà un nuovo linguaggio, ma è qui che il linguaggio, oggi, si interroga ancora su di sé, e seppur senza coscienza, è proprio qui che si produce, in modo confuso, fragile, a bassa definizione, quella funzione critica dell’immagine che il mercato non sa più generare, e il potere preferirebbe non dover disinnescare.
Soglia aperta: che fare con le immagini, adesso
Non si tratta di concludere, un pensiero critico che si rispetti non tira mai le somme, circoscrive il campo dell’analisi, solo per scoprire cosa resta fuori. E ciò che resta fuori, oggi, è proprio la domanda su cosa possiamo fare, ancora, di nuovo, diversamente con le immagini e l’immaginario.
Non l’industria, non le piattaforme, non il feticcio della qualità, del campionato del botteghino o del desueto passeggiare su un tappeto rosso in cerca di scatti auto-celebrativi, ma l’immagine come atto collettivo possibile e condivisibile, come frammento di senso che non si lascia chiudere, che chiede risposta, che apre a nuovi legami, una nuova alchimia delle immagini e dell’immaginario.
Perché se abbiamo attraversato un vuoto riconoscendo che è funzionale, se ne abbiamo visto il rivestimento estetico e anestetico, e se ne abbiamo intravisto gli spazi in cui qualcosa sopravvive, allora non ci resta che interrogarci su quale gesto può riattivare il cinema come spazio di soglia.
Il gesto non è necessariamente produttivo, non è <<fare un altro film>>, né <<riportare la gente in sala>>. Il gesto può essere guardare in altro modo, scrivere diversamente, tacere dove tutti parlano, inquadrare dove nessuno guarda.Il gesto è una piccola sabotatura del flusso, una deviazione nel campo del visibile, una faglia dentro l’evidenza, la vera questione da porre non è più dove si guarda, ma con chi si sogna.Non in senso lirico, ma ontologicamente politico; esiste ancora una sfera simbolica condivisa?Un campo in cui la visione non sia solo esperienza individuale, ma riconoscimento reciproco, possibilità di coesistenza e tensione vettoriale.
Alla fine del secolo scorso, il cinema affrontava la questione chiedendosi se la coscienza del mondo potesse essere una coscienza di classe, soprattutto quello italiano, ma oggi quella domanda sembra evaporata, non perché sia stata superata, piuttosto perché non sappiamo più dove collocarla. Come se il cinema, travolto dalla fine delle ideologie ma ancora di più dal crollo dell’idealità sostituita dall’edonismo, dalla personalizzazione, dalla profilazione, dalla neutralizzazione algoritmica, non potesse più interrogare il mondo, se non dentro i limiti imposti dal codice che lo struttura.
Eppure qualcosa continua a deviare sotto soglia, forse non più nel cinema come apparato, forse nel gesto che lo sfiora, che lo disarma, che lo riattiva in altra forma. Scrivere, parlare, discutere, mostrare, non per ripetere l’estetica della frattura, ma per ritrovare un’intensità del presente che non sia né nostalgica né digitale, ma incarnata, condivisa, frammentata, reale.
Non si tratta di correggere il mondo attraverso il cinema, ma di incontrarlo ancora, dentro uno specchio deformato o deformante, che proprio perché imperfetto riesce, a volte, a riflettere ciò che non vogliamo vedere. L’audiovisivo non va purificato, né rifondato, va rifocalizzato.
Come una lente troppo satura, che ha bisogno di un filtro nuovo, non per selezionare, ma per trattenere ciò che può ancora precipitare in senso semantico, depositarsi, condensarsi, opporsi alla trasparenza vacua del superficiale travestito da senso civico e finta retorica epico istituzionale.
Non rigettiamo il genere, il codice, la forma, chiediamo però alle immagini di aprire spazio, di costruire contenitori tridimensionali in cui l’immagine non scorra, ma si comprima, si rifranga, torni a pensare e pesare, come in un filtro polarizzante sul tempo che lasci passare solo ciò che brucia abbastanza da farsi memoria iconografica, impronta.
Franco Bocca Gelsi è un produttore cinematografico e di documentari. E’ diplomato E.A.V.E. ed Eurodoc, networks Internazionali di Europa Creativa. Svolge principalmente il ruolo di Creative Producer seguendo gli sviluppi dei progetti, di cui per alcuni è anche co-autore della sceneggiatura.
Tra i film più famosi prodotti ci sono Fame Chimica, L'Estate d'Inverno, Fuga dal Call Center, La Festa, Blind Maze, e in post-produzione Rumore e Gli Assenti. Tra i documentari, L’importanza di essere scomodo - Gualtiero Jacopetti, Linea Rossa, La via del Ring, l’Ultimo Pastore, Treno di Parole, La Nuova Scuola Genovese e in preparazione E’ la vita che sogna.
Ha insegnato in diverse scuole di cinema tra cui civica scuola Luchino Visconti di Milano, Centro Sperimentale Lombardo, N.AB.A., IULM, Accademia 09. E’ ideatore, e membro del comitato scientifico, dell’Alta Scuola per la Serialità Ecipa/CNA. Si occupa di Alta Formazione per professionisti del mondo dell’Audiovisivo. E' stato tra i primi italiani soci dell’European Producer Club, membro dell’European Film Academy, e fondatore di CNA Cinema e Audiovisivo, di cui è Presidente della sessione Milano Lombardia.