top of page
ahida_background.png

selfie da zemrude

  • Immagine del redattore: Franco Bocca Gelsi
    Franco Bocca Gelsi
  • 2 lug
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 4 lug

Oltre il giardino # 2: Emilia Pérez, cinema pop vs kultura woke

Andrea Wöhr e H.Peter Vogel
Andrea Wöhr e H.Peter Vogel

Una recensione del film Emilia Pérez, regia di Jacques Audiard, che ha collezionato il più alto numero di candidature nella storia del Premio Oscar: 13.

Emila Pérez fa discutere. Molti critici queer sono preoccupati se non sconcertati dal successo di questo film. Gli attivisti woke sono furiosi, nonostante abbia come protagonista un’attrice transgender il cui percorso è al centro del film e si tratti di una storia di riscatto dalle forche caudine del Messico più decadente.


L’organizzazione LGBTQ «GLAAD» ha bollato il film come una cattiva rappresentazione delle persone trans. Critici e registi in Messico sono stati altrettanto schietti, lo sceneggiatore messicano Héctor Guillén ha definito il film una «presa in giro razzista eurocentrica», sostenendo che è stato girato in uno studio in Francia da uno scrittore-regista che non parla spagnolo e ha solo un’attrice messicana, Adriana Paz; nel cast principale Gascón è spagnola, mentre Saldaña e la co-protagonista Selena Gomez sono entrambe nate negli Stati Uniti. È stato anche accusato di banalizzare la portata della violenza nelle guerre della droga del paese che ha fatto 350.000 morti.


GLAAD sostiene che nessuna delle recensioni entusiastiche di Emilia Pérez sia stata scritta da persone trans, che sarebbe solo «un ritratto profondamente retrogrado di una donna trans», sostenendo che un’associazione problematica dell’identità trans con la criminalità è «un passo indietro per la rappresentazione trans». In un articolo per «The Cut», lo scrittore Harron Walker ha criticato l’uso dell’identità trans da parte di Emilia Pérez facendo l’esempio della scena in cui il chirurgo sostiene che anche «se cambi il corpo non puoi cambiare l’anima», a cui Rita replica: «Cambiare il corpo cambia l’anima, cambiare l’anima cambia la società», sostenendo che le due persone che discutono dell’etica della transessualità sono due cisgender, senza nessuna persona trans presente a controbattere.


Insomma, sulla carta questo film non dovrebbe funzionare, ma in realtà piace assai. Il film è stato deriso dai conservatori come un film woke, mentre i veri woke insaziabili sostengono non soddisfi le loro stesse richieste, malgrado Emilia Pérez sembri avere i tratti distintivi di un film che i woke dovrebbero amare, e che alcuni conservatori invece dovrebbero odiare. 


Ma un regista non ha forse il diritto di scegliersi il cast, le location e la crew che vuole? Questo film non si può negare sia per un «mercato internazionale», e un mercato dove l’80% degli utenti guarda i film doppiati il problema del falso accento è un problema irrilevante, di solo gusto artistico. Dovrebbe essere il pubblico a decidere quanto questo nell’equilibrio generale incida, e a parte i messicani mi sembra che nessuno abbia rifiutato il film.


Il fatto che nessuno abbia approfondito troppo la tematica dei desaparecidos può sembrare non bello ma c’entra poco col tipo di film, e che un regista debba chiedere a degli attivisti messicani il permesso prima di fare un film sul Messico mi sa tanto di censura preventiva.

Emilia Pérez è un musical molto più centrato di quanto Wicked (film gradito agli attivisti LGBTQ) possa sperare di essere. Non si può negare che il film abbia un messaggio importante di tolleranza, che spezzi una lancia a favore della comunità LGBTQ, che contenga una speranza di cambiamento, e che la vera forza del film sia nella regia che comprende la scelta degli attori, la loro direzione, la performance cantata, la scelta della colonna sonora, le coreografie, insomma tutto ciò che ha a che fare con la pura creatività e con il linguaggio cinematografico.


Il film è un esperimento di ibridazione tra cinema e opera lirica e la sceneggiatura, in quattro atti, è tipica della lirica e fonda la sua originalità sul paradosso, su cui fa perno, e non manca di fare buon uso della struttura della tragedia. Il finale è ben chiaro, nessuno sfugge al proprio destino, ma tutti hanno il diritto di sognare e desiderare <<altro>> da ciò che il fato ha in serbo per loro.


Si tratta di un film che vuole essere dichiaratamente empatico e misericordioso, non è il classico musical hollywoodiano, semmai un melodramma pop che ricorda più un redivivo Mario Merola che non il brillantinante Grease, un film ricco di sottogeneri, giocoso, drammatico, farsesco.  Ciononostante «PinkNews» caldeggia l’idea che la sceneggiatura sia «cisgender», in quanto il personaggio trans principale trasuda una sorta di sicurezza che è quasi nauseabonda quando non dovrebbe esserlo, oltreché risultare superficiale e non riuscire a catturare le complessità delle esperienze transgender.

 

Paul B. Preciado, del «Pais», ha definito il film «transfobico» perché riduce la transizione di genere a un espediente narrativo piuttosto che a una vera e propria esplorazione dell’identità. Insomma il film è accusato dai progressisti woke di tokenismo, un fenomeno attraverso cui le maggioranze recluterebbero gruppi di minoranze per lanciare un messaggio di inclusività che molto spesso si rivela essere falso (vedi ad esempio The Smurfette principle, «il principio di Puffetta», unica donna in un gruppo di maschi bianchi! Ah no, erano celesti.


Quindi mentre i conservatori considereranno la nomination all’Oscar di Karla Sofía Gascón come un’ulteriore prova dell’agenda di Hollywood gli altri la dichiarano tokenism. Quel che è peggio è che è vero è che l’Academy ha istituito precise regole sull’inclusività dei generi sotto-rappresentati che impongono determinati requisiti di diversità, equità e inclusione per poter essere presi in considerazione per il premio come miglior film.


Nel caso di Gascón, i conservatori potrebbero liquidare la sua candidatura come meno legata alla sua performance e più al desiderio dell’industria di essere vista come woke. Gli attivisti progressisti invece sembrerebbe non riescano a essere soddisfatti. Questa indignazione dei progressisti nei confronti di Emilia Pérez risulta surreale, dimostrando ancora una volta che nulla potrà mai soddisfare certe richieste che celano in realtà la ricerca di una malcelata conflittualità sociale che purtroppo non essendo radicata nel cuore del problema, la lotta di classe, le disparità di reddito, la rappresentatività politica, non squisitamente culturale, non basta mai, per fortuna.


Così un film interpretato ottimamente da un’attrice trans, brillante, divertente e a tratti commovente, finisce per non soddisfare tutti i requisiti richiesti. Insomma, un boss del cartello che affronta i suoi demoni è sì un essere umano complesso, ma non abbastanza complesso, quindi rappresentare una persona trans come chiunque altro in un film, difetti compresi, diventa offensivo. Dopo che per anni si volevano personaggi trans interpretati da attori trans (ed Emilia Pérez lo fa) non è ancora abbastanza. 


Per fortuna che Emilia Pérez è un film, non il libretto rosso woke.  Il dibattito è aperto, la «cancel culture» incombe, si trovano decine di articoli in rete. La Yourcenar non avrebbe dovuto scrivere Le memorie di Adriano che parla di un imperatore uomo bisex e Memorie di una Geisha non sarebbe dovuto esistere perché scritto da un cis bianco, che dovremmo poi dire di Salgari?

 

Andando avanti così uno scrittore gay non potrà far altro che scrivere storie sui gay, e un regista cis fare solo film sui cis, per fortuna ognuno di noi dal punto di vista animico e psicologico può avere in sé diverse parti, farne una questione di genere in questi termini diventa auto-ghettizzazione.

Il fatto che gli attivisti ne siano sconvolti dice più di <<loro>> che <<del film>>, predicano tolleranza e inclusione e offrono intolleranza e censura. Diventa poi difficile biasimare i coatti di destra per aver criticato Emilia Pérez e le nomination agli Oscar come segno della Hollywood soggetta all’ideologia woke, soprattutto se nessuno da sinistra lo sostiene. 


Per tornare al film, c’è anche una ricerca del divertissement (come diceva Pascal «l’uomo cerca il divertimento per distrarsi dalla noia e dalla tristezza della vita quotidiana») in questa operazione, fatta da un regista oltre i 60 che ha voluto dar sfogo alla sua vena creativa con un ottimo risultato.

La cifra stilistica del film risiede nella retorica dell’opera <<lirica>>, lì va cercato il senso del film, il quale va scomposto nella sua struttura, predisposta con cura da Audiard in questo modo.

C’è la ricerca di uno schema metrico, vi è un’alternanza tra duetti, assoli e pezzi col coro dove i brani sono quasi parlati proprio come nell’opera (in molte opere liriche infatti vi è una suddivisione in brani separati da un recitativo, un tipo di canto drammatico che si avvicina al discorso, oppure al dialogo parlato), che poi sia riuscito, per gli intenditori della Lirica non saprei, purtroppo non sono un intenditore della Lirica, ma resta un ottimo film.


Audiard ha fatto qualcosa che nessuno aveva fatto prima, ha saputo scegliere e mixare sapientemente gli attori i musicisti e le coreografie unite a ottime scenografie e una fotografia al servizio di una teatralità meravigliosa, ma le fanfare woke vogliono inchiodarlo sulla croce della mancanza di verosimiglianza al <<reale>>, quel <<reale>> che si rifiutano di guardare in faccia, che crea lotte intestine tra i red-neck e i migrantes, sacrificati sull’altare della produttività e della ricchezza dei plus a sfavore dei minus.


Prossima puntata American Fiction, storia di un libro-parodia degli stereotipi della cultura black, vista da parte di uno scrittore con aspettative woke e molto <<intellettualizzato>>, che si rivela un bestseller contro le sue stesse convinzioni. 

bottom of page