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  • Immagine del redattore: Franco Bocca Gelsi
    Franco Bocca Gelsi
  • 3 set
  • Tempo di lettura: 13 min

Aggiornamento: 7 set

Oltre il giardino # 4. Non mi sono fatto niente: come un libro può diventare un film

Donata Vanerio
Donata Vanerio

Il libro di Maurizio Gibertini, Non mi sono fatto niente, non è solo una testimonianza, né un’autobiografia politica, né un mémoire carcerario. È un oggetto narrativo instabile, urticante, che attraversa decenni di storia italiana e insieme interroga il presente. 

Wim Wenders osservava che ogni film è politico e che i più politici sono proprio quei film che fingono di non esserlo, perché propongono lo status quo come se fosse naturale.

Questo articolo riflette su come un testo simile possa diventare film. Non adattandolo pedissequamente, ma traducendone la tensione sotterranea. Tra ideologia, corpo, sconfitta e Sud America, il cinema potrebbe raccogliere la sfida: riportare al centro dell'immaginario ciò che la cultura ufficiale ha rimosso.

C’è qualcosa di profondamente disturbante, e al tempo stesso necessario, nel libro di Maurizio Gibertini, Gibo. Non è quello che racconta, la vicenda personale di un militante della lotta armata, il carcere, la sconfitta, la memoria, ma come lo fa, con una voce che non cerca redenzione, non costruisce una narrazione giustificativa, non si aggrappa a una teoria. È una voce che insiste, che ritorna, che si contorce nella domanda mai pacificata:  «come si attraversa la propria storia senza rinnegarla, e senza farsi schiacciare dal giudizio storico?»


Da produttore, prima ancora che da lettore o spettatore, questa voce mi ha intrigato, non perché porti un messaggio politico da attualizzare, sarebbe un grave errore cercarlo lì, ma perché apre una fenditura nella superficie di un immaginario collettivo che abbiamo anestetizzato. 

C’è un territorio che il cinema italiano ha evitato con cura, o che ha ridotto a cliché, quello della soggettività politica sconfitta. Non parlo del militante come simbolo ideologico, ma della persona, della vita che ha sbagliato traiettoria senza spegnersi del tutto, che ha perso, sì, ma che resta in piedi nella memoria del proprio desiderio originario. Un desiderio di trasformazione, di giustizia, di senso, un desiderio che non può più essere rivendicato, ma nemmeno completamente sepolto.

Il libro non è un’opera cinematografica in senso stretto, è troppo denso, troppo pieno di passaggi, riflessioni, episodi, pensieri ossessivi e discontinui, eppure, proprio per questo è, paradossalmente, perfetto per generare un film. 


Perché non ci obbliga a seguirne la struttura, ma ci costringe a sceglierne il nucleo, a trovare quel centro incandescente che può sopravvivere alla trasposizione, e forse proprio grazie alla trasposizione trovare nuova forma e nuova vita. Ci sono opere che vogliono essere fedelmente adattate, e ce ne sono altre che non si fanno adattare, ma che sfidano chi le prende in mano a compiere un atto creativo a loro misura. Il libro di Gibertini è di questo secondo tipo, e non perché sia sperimentale, lo è, ma in modo grezzo, non intellettuale, ma perché contiene una materia viva, una materia bruciante, che chiede non solo di essere rappresentata ma di essere riattivata. 

E allora il lavoro del cinema non è quello di spiegare, giudicare o archiviare. È quello, molto più umile e più difficile, di restare vicino, di restare accanto a una voce che non chiede approvazione, ma ascolto.


Ed ecco la Milano degli anni Ottanta, un quadro complesso, dove la vita di strada si intreccia con le pulsioni di una società in fermento e contraddizione prima del capolinea odierno fatto di smartcity che espellono i propri figli per far posto ai professionisti. La città delle mode borghesi, dei sushi bar e dei nightlife che non dormono mai, diventa come tutte le grandi città un territorio di droga e dipendenze. Eroina e cocaina, sono elementi non solo di degrado ma di esperienza quotidiana per molti, un ambiente segnato da zombie in cerca di roba, un luogo dove la malavita si intreccia con la normalità e l’urgenza di sopravvivere.


L’uso di sostanze, la frequentazione di luoghi come il Parco Sempione piazze di spaccio, supermercati a cielo aperto, sono descritti con un realismo crudo e senza edulcorazioni, con turni di decine di persone, questo vissuto diventa, non è un semplice sfondo, un aspetto imprescindibile della storia personale, che restituisce tridimensionalità al racconto di vita.

Nella narrazione di Maurizio Gibertini emerge un rapporto ambiguo con un a sorta di edonismo che sfocia spesso nell’autodistruzione, ma è anche una forma di resistenza, un modo per affermare la propria esistenza e vivere appieno. Non si tratta di una ricerca del piacere superficiale, ma di una tensione reale e contraddittoria, che attraversa l’esperienza politica e personale di una generazione intera.


I momenti di vita quotidiana, le relazioni familiari, gli incontri con amici e parenti, emergono come controcanti a questa realtà dura. Le passioni intense, le scelte di vita al limite, le avventure vissute con intensità assoluta danno corpo a una figura complessa, che non si lascia rinchiudere in un’unica dimensione.


Questa tensione tra piacere e dolore, tra autodistruzione e amore per la vita, costituisce un elemento chiave per comprendere la storia di Gibertini e rappresenta una dimensione fondamentale per qualsiasi adattamento cinematografico che voglia restituire la complessità e l’umanità del protagonista.


Il carcere, a sua volta, è più che una location o un contesto, è un personaggio, uno spazio mentale, una prova ontologica, è il luogo dove l’ideologia si sbriciola, ma l’identità non scompare. Insieme è anche lo spazio dove la società rinchiude ciò che non vuole guardare. Come ha osservato, in più occasioni, Corrado Stajano nei suoi scritti civili sulla giustizia e il carcere, la prigione è spesso il luogo in cui finiscono i sommersi, i dimenticati, i residui di un conflitto sociale che non ha più voce né rappresentazione. È lì che si accumulano le vite marginali, gli sconfitti di una storia che ha smesso di nominarli. Michel Foucault l’aveva già intuito con lucidità feroce, non si tratta di rieducare o correggere, ma di controllare, disciplinare, silenziare. E quando il carcere viene rappresentato con onestà, come accade in Hunger di Steve McQueen, il corpo martoriato che diventa strumento politico, linguaggio estremo, allora qualcosa si incrina anche nello spettatore, la distanza si accorcia, l’empatia diventa inquietudine, una domanda etica ritorna.


Nella vicenda di Maurizio Gibertini, c’è uno spazio segnato dal dolore ma anche dalla capacità di resistere e di affermarsi. Nel carcere, il corpo diventa un campo di battaglia ontologico, martoriato dalla repressione ma anche luogo di resistenza quotidiana. La sofferenza fisica non è solo un limite, ma un linguaggio estremo, un modo di comunicare con il potere e di sfidarlo.


Questa dimensione corporea non si riduce però al dolore. Nel racconto emergono anche momenti e sensazioni legate ai sensi, agli stati alterati, alla ricerca di sensazioni forti, che costituiscono un’espressione dell’identità e della volontà di esistere oltre la sconfitta. Il corpo è teatro di tensioni, tra autodistruzione e vitalità, tra umiliazione e forza.


Il piacere, in questo senso, non è un semplice sfogo, ma una forma di resistenza simbolica e materiale, attraverso i sensi la storia di Gibertini si fa racconto di un’esperienza umana totale, fatta di contrasti e complessità.


Agamben ha detto in Homo Sacer (Il potere sovrano e la nuda vita), che il detenuto è la figura paradigmatica della nuda vita, esclusa dallordine politico ma totalmente assoggettata al potere.

In Andare ai resti, di Emilio Quadrelli e Alessandro Dal Lago, attraverso interviste e testimonianze, si racconta di come il carcere degli anni Settanta diventò un luogo attivo di lotta politica, dove brigatisti e criminali comuni condividevano aspirazioni e strategie. Come osserva Quadrelli, quelle celle non erano solo prigioni, ma spazi di vertenza esistenziale in cui si tentava una forma di resistenza identitaria e politica, trasformando la detenzione in resistenza quotidiana.

Nel cinema, questa dimensione va rappresentata come elemento fondante, perché è la biopolitica il luogo dove si incrociano ideologia, storia e vita vissuta. Ignorare questa tensione significherebbe perdere la profondità emotiva e politica del racconto.


Non penso che questo film debba essere un pamphlet carcerario, ma non può neppure permettersi la leggerezza di trattare il carcere come uno sfondo. È un luogo-soglia, un confine ontologico, dove la lotta si deforma, si piega, ma anche dove può emergere, paradossalmente, un barlume di verità; in quella cella, ciò che resta dell’ideologia si mescola con ciò che resta dell’uomo.

Non si tratta neppure di fare l’ennesimo film sulla lotta armata, ma di abitare quella faglia temporale dove la tensione ideale, l’errore strategico e la sconfitta personale si intrecciano. Il rischio del dualismo attuale, buoni contro cattivi, Stato contro devianza, è quello di ricadere in una semplificazione narrativa che impedisce, ancora oggi, una vera elaborazione collettiva. 

Lo Stato, ed il capitalismo, hanno vinto politicamente, questo è un dato, ma la storia che si può raccontare non è quella dello Stato né quella, semplicisticamente contrapposta, dei terroristi, semmai è quella di una domanda che brucia, cioè quale coscienza è sopravvissuta alla disfatta, una coscienza che si interroga non solo su ciò che è stato fatto, ma su ciò che è stato rimosso.

In questo senso, il film può essere anche una riflessione su questa rimozione collettiva e sulla necessità di ri-umanizzare e ri-politicizzare l’archivio emotivo di quegli anni. Come scriveva Pasolini sui golpe degli anni 70 nei suoi Scritti corsari: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive», una dichiarazione che oggi suona come monito per chi tenta di raccontare ciò che è stato rimosso. Bisogna quindi avere il coraggio di restituire uno spessore, una complessità anche a chi, in quegli anni, ha fatto scelte estreme e disastrose, non tanto per giustificarle, ma per comprenderne l'origine profonda. 


Perché se la società ha cancellato le sorgenti politiche della lotta, se ha disinnescato ogni lettura storica trasformando la lotta di classe in malattia mentale o devianza criminale, allora il cinema può, forse deve, restituire almeno lo spazio del dubbio e della complessità.

Il titolo Anni di Piombo è diventato il sigillo semantico di questa semplificazione, come se il piombo, la violenza, fosse l’unica sostanza di quegli anni. È un’etichetta che ha addomesticato il conflitto e sepolto la sua genealogia. Come nel film della Von Trotta, dove la soggettività politica viene rappresentata, sì, ma sempre isolata, decontestualizzata, come fosse una febbre personale, un dramma familiare o psichico, e non l’effetto di un’intera stagione storica. 

La critica borghese ha ridotto il militante a personaggio tragico e non a sintomo di una spinta collettiva, e molti film italiani, salvo rarissime eccezioni, si sono mossi su questo binario, o il racconto intimista, o la criminalizzazione spettacolare.


Il libro di Gibertini sfugge a questa gabbia. Perché non ha paura di mostrare la continuità fra tensione politica e scelta individuale, fra errore e lucidità, fra dolore e responsabilità. Non chiede assoluzioni, non rivendica bandiere, ma restituisce peso all’esperienza. Ecco perché è importante, perché ci costringe a chiederci non solo cosa è successo, ma come è stato possibile che tutto questo venisse poi disattivato, svuotato, reso muto. Riaprire quel nodo significa anche questo, riconoscere che una parte di quella storia non è finita, ma è stata soltanto esorcizzata. E che un film può riaccenderla, non per nostalgia, ma per responsabilità semantica, perché non si tratta solo di fare memoria, ma di riconoscere la trasformazione del linguaggio, la strategia con cui il potere ha vinto anche a livello simbolico, trasformando la lotta in patologia, e la militanza in follia.

Il protagonista non è un eroe né un simbolo, semmai è un corpo e una mente che attraversano il tempo del carcere e poi il viaggio in Sud America, con tutto il peso di ciò che è stato e di ciò che non può più essere. Nella presentazione a Casetta Rossa, Gibo racconta con lucidità e pudore quanto quell’esperienza carceraria continui a esercitare un’influenza profonda sulla sua vita. Non è un capitolo chiuso, dice: «è una materia ancora viva, incistata nella memoria e nel corpo». Anche a distanza di anni, il carcere si manifesta come una presenza irrisolta, che riaffiora nei gesti, nei pensieri, nella difficoltà stessa di raccontarlo. Il libro nasce anche da questo bisogno di dare forma a qualcosa che, per sua natura, sfugge alla forma definitiva. Il racconto non cerca di riabilitare, ma di restare: nel dubbio, nella lacerazione, nella memoria che non si lascia ridurre a slogan. Qui il viaggio diventa mitopoiesi, dal carcere al Sud America, passando per le bianche spiagge dell’India e dello Sri Lanka, ma anche tra linee di fuoco, fughe, traffici e verità sussurrate nelle celle e nei sentieri delle guerriglie.


In un’intervista a Radio Mir International, Gibertini ha raccontato che dopo il carcere percepiva uno stato di sospensione, una sensazione di bivio permanente che lo ha spinto a intraprendere un viaggio in Sud America, non per trovare una nuova causa, ma per interrogare dove si chiude una storia e ne comincia un’altra, non alla ricerca di una nuova causa politica, ma per interrogare il confine tra ciò che è stato e ciò che può ancora essere.

Questo viaggio rappresenta un percorso in cui la memoria e il corpo si fondono nella ricerca di un senso più ampio. È un’esperienza che trascende la storia politica per entrare nella dimensione universale della trasformazione umana.


Nel racconto emerge la necessità di rappresentare questa fase non come una semplice fuga o redenzione, ma come una sospensione carica di domande e di tensioni, una ricerca che ha il sapore di un Odissea contemporanea. Il viaggio è parte integrante della narrazione, perché costituisce l’orizzonte dove il passato si confronta con l’incerto futuro, dove il protagonista cerca di riappropriarsi della propria identità, un senso che sappia cogliere la complessità di un percorso esistenziale e biopolitico al tempo stesso.


In questo senso, il film può permettere qualcosa che oggi manca, una rappresentazione viva, lirica, che non chiede perdono ma offre comprensione. In fondo, è la stessa scelta che fece Danilo Montaldi in <<Autobiografie della leggera>>: «Non ho voluto giudicare. Ho voluto solo lasciar parlare chi non ha mai avuto voce». Non è un racconto eroico né una difesa, è un’epica fatta di corpo e memoria, che ha attraversato la soglia del carcere, discese nelle guerriglie dell’altrove, e ora ritorna, senza certezze, senza redenzione, ma con la lingua della sopravvivenza.

Come produttore, so bene quanto sia difficile oggi proporre storie che disturbano il canone estetico dominante. Il cinema italiano, salvo rare eccezioni, ha finito per adottare uno sguardo borghese, pacificato, che edulcora il conflitto e rimuove il trauma sotto il velo della redenzione o del folklore. Ma ci sono storie, come questa, che non si lasciano addomesticare. E proprio per questo, oggi più che mai, sono necessarie.


Il libro di Gibertini non chiede un film: sfida a farne uno. Sfida chi scrive, chi dirige, chi produce a sottrarsi all’autocensura, a uscire dalla comfort zone del film giusto, del film possibile, del film che si può finanziare. Perché il rimosso non si addomestica, si attraversa. E questo attraversamento richiede una lingua altra, una grammatica emotiva e politica che non si impara nei manuali, ma nell’attrito con la materia viva della storia.


Ma nel cuore della narrazione di Gibertini non c’è solo la storia politica o la lotta interiore, il viaggiare, ma anche un tessuto di relazioni umane che danno spessore e profondità al personaggio. La vita familiare, gli affetti quotidiani, i legami con la figlia, la compagna e i parenti emergono come elementi fondamentali che intrecciano la sua esperienza personale con quella collettiva.


Questi aspetti mostrano un uomo capace di tenerezza, contraddizioni e passioni, una figura lontana dallo stereotipo del militante monolitico. La sua storia è anche fatta di momenti di socialità, di piccoli gesti, di quotidianità vissuta con intensità, che aprono uno squarcio sull’umanità dietro la figura pubblica.


L’umanizzazione di Gibertini è necessaria per evitare che la sua storia diventi una mera esposizione di ideologie o un racconto di sconfitta. Al contrario, restituisce al lettore e allo spettatore un ritratto vivo, complesso e autentico, capace di suscitare empatia e riflessione.

Per il cinema, rappresentare questa dimensione significa riconoscere che la storia che si racconta è prima di tutto una storia di persone, con le loro fragilità e le loro forze, i loro amori e i loro dolori, e non solo un simbolo o un’idea.


Viviamo in un tempo in cui l’autocensura non è più imposta dall’alto, ma interiorizzata, e ci sono storie che si evitano per prudenza, per paura di esporsi, per la fatica di nominare ciò che la lingua comune ha già bollato come indicibile, ed è ancora una questione semantica, dopotutto, di nomi mancanti, di parole che fanno paura, di silenzi che diventano struttura.


Allora la domanda non è solo: «chi avrà il coraggio di raccontare questa storia?» La domanda vera è: «chi sarà capace di rompere il patto borghese con la rassicurazione? Chi sarà disposta o disposto a misurarsi con ciò che ancora brucia, con ciò che non si può rappresentare senza prima esserne toccati?»


Chi verrà da me, o da un altro produttore altrettanto incosciente, con una sceneggiatura, una visione, un’intuizione che sappia raccogliere questa sfida? Forse è il momento di capire che il vero cinema politico, oggi, non è quello che enuncia tesi, ma quello che osa toccare ciò che abbiamo disimparato a nominare.

Non cerchiamo eroi decaduti o negativi, cerchiamo visione, e una lingua nuova per restare accanto a ciò che, troppo a lungo, abbiamo tenuto fuori campo.

Libri

  1. Giorgio Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995.

PDF (versione inglese da Stanford U.P., ma richiama l’edizione originale): Eretici+15thing.net+15Il Mulino+15

2. Alessandro Dal Lago e Emilio Quadrelli, Andare ai resti. Cronache della radicalità, Eleuthera, 2004.

  1. Maurizio Gibertini, Non mi sono fatto niente, Ed. Milieu, 2025.

  2. https://www.ibs.it/non-mi-sono-fatto-niente-libro-maurizio-gibo-gibertini/e/9791280682949



Film


4. Anni di piombo (Die bleierne Zeit), regia di Margarethe von Trotta, Germania Ovest, 1981.

5. Hunger, regia di Steve McQueen, Regno Unito/Irlanda, 2008.


Interviste


6. Presentazione alla Casetta Rossa (YouTube)

Titolo del video: Maurizio 'Gibo' Gibertini presenta il suo libro NON MI SONO FATTO NIENTE


7. Intervista a Radio Mir International (Facebook)

Titolo indicativo: Non mi sono fatto niente – Ed. Milieu, di M. “Gibo” Gibertini

Nota: il contenuto al momento risulta privato o rimosso, ma resta una fonte reale identificata tramite canale ufficiale.



Saggi e articoli accademici (citati implicitamente)


8. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, 1976.



Contributi menzionati indirettamente


9. Pier Paolo Pasolini, “L’articolo delle lucciole”, Corriere della Sera, 1° febbraio 1975.

CRIS/UNIBO IRIS: conferma titolo e data DeBaser+5Cris Unibo+5Corriere della Sera+5

Approfondimento Il Mulino Wikipedia+14Il Mulino+14Cris Unibo+14


10. Danilo Montaldi, Autobiografie della leggera, Feltrinelli, 1961.

IBS (prima edizione / edizioni Feltrinelli) La Feltrinelli+1IBS+1


 

Franco Bocca Gelsi è un produttore cinematografico e di documentari. E’ diplomato E.A.V.E. ed Eurodoc, networks Internazionali di Europa Creativa. Svolge principalmente il ruolo di Creative Producer seguendo gli sviluppi dei progetti, di cui per alcuni è anche co-autore della sceneggiatura.

Tra i film più famosi prodotti ci sono Fame Chimica, L'Estate d'Inverno, Fuga dal Call Center, La Festa, Blind Maze, e in post-produzione Rumore e Gli Assenti.  Tra i documentari, L’importanza di essere scomodo  - Gualtiero Jacopetti, Linea Rossa, La via del Ring, l’Ultimo Pastore, Treno di Parole, La Nuova Scuola Genovese e in preparazione E’ la vita che sogna.

Ha insegnato in diverse scuole di cinema tra cui civica scuola Luchino Visconti di Milano, Centro Sperimentale Lombardo, N.AB.A., IULM, Accademia 09. E’ ideatore, e membro del comitato scientifico, dell’Alta Scuola per la Serialità Ecipa/CNA. Si occupa di Alta Formazione per professionisti del mondo dell’Audiovisivo. E' stato tra i primi italiani soci dell’European Producer Club, membro dell’European Film Academy, e fondatore di CNA Cinema e Audiovisivo, di cui è Presidente della sessione Milano Lombardia.

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