selfie da zemrude
- Franco Bocca Gelsi
- 15 set
- Tempo di lettura: 9 min
Oltre il giardino # 5. L’amore che resta. Il cinema, l’assenza e la vertigine del sublime

C’è stato un tempo in cui l’amore sullo schermo non prometteva appagamento ma svelamento: non compimento, ma frattura. Questo saggio indaga la crisi della rappresentazione amorosa contemporanea – estetica, simbolica, narrativa – confrontando l’eredità tragica e liminare dei classici con film come In the Mood for Love e The Handmaiden, ultimi rimasti a mostrare l’amore come forza che disordina, sottrae senso e resiste alla normalizzazione. Lì dove il cinema occidentale tende oggi a tradurre il sentimento in funzione terapeutica, quelle pellicole ci ricordano che l’amore vero può essere ciò che non serve a nulla e, proprio per questo, trasforma tutto: un’esperienza estetica e politica che si tiene sulla soglia, fatta di sguardi, silenzi e gesti che rifiutano il compimento.
Introduzione
C’è stato un tempo in cui l’amore, nel cinema e nella letteratura, non era il luogo del compimento, ma della frattura. Un tempo in cui raccontare l’amore significava affrontare il rischio, l’impossibile, il non concesso. Oggi questa forza pare evaporata, schiacciata tra la retorica del benessere individuale e la funzionalità delle relazioni. In questo saggio si interroga la crisi contemporanea della rappresentazione amorosa – estetica, simbolica, narrativa – attraverso un confronto con opere classiche, film fondativi come In the Mood for Love, e The Handmaiden forse gli ultimi manifesti cinematografici dell’amore come forma liminale e reprensibile. Un viaggio fra eros, destino, mancanza, ineffabilità, per chiedersi se l’amore che non si realizza, o che sfugge alle regole, può ancora fondare un senso.
Il cinema occidentale è ancora in grado di raccontare l’amore?
E non l’amore come relazione ben funzionante o catastrofe da superare o ricondurre nell’alveo della comprensione. Non l’amore come traguardo, pacificazione, equilibrio fra individui compatibili, ma l’amore come forza che eccede, che disordina, che sposta i confini tra ciò che è commensurabile e ciò che non lo è. L’amore come esercizio del liminare, che sfugge sia al codice sociale che alla grammatica del benessere fisico-spirituale. Esiste ancora un cinema che sappia metterlo in scena?Un tempo, era proprio l’amore a farsi vettore di crisi simbolica. Pensiamo a Romeo e Giulietta, tragedia fondativa del nostro immaginario: due amanti che non possono esistere dentro le logiche delle famiglie, e che proprio per questo si incarnano come forza pura, assoluta, inevitabile. O ai Promessi Sposi, in cui l’amore tra Renzo e Lucia non è un semplice legame affettivo, ma l’elemento che espone il potere, la violenza, l’interferenza continua tra l’individuo e l’istituzione. E ancora Carmen, l’opera di Bizet che porta in scena una donna che non si lascia possedere, che ama a modo suo, e muore per non piegarsi. In tutti questi casi, l’amore non è mai solo storia privata: è una soglia culturale, uno scarto. È ciò che non può stare al proprio posto.Per tutto il Novecento, il cinema ha continuato a raccogliere questa eredità.
Pensiamo a À bout de souffle, di Godard, dove Belmondo sceglie di farsi uccidere piuttosto che fuggire, come se l’amore, per essere vero, dovesse restare irriducibile al compromesso. È una morte estetica, non eroica: una forma di fedeltà all’assoluto. Oppure Jules et Jim, dove la passione si consuma in un triangolo senza centro, dove l’amore non si lascia addomesticare, e Catherine è la figura che scardina ogni equilibrio narrativo, rendendo impossibile qualsiasi normalizzazione. In La signora della porta accanto, Truffaut va ancora oltre, mostrando un amore che distrugge non perché patologico, ma perché troppo vero per essere contenuto in un ritorno alla vita normale. Due amanti che si consumano fino al suicidio, senza redenzione né morale. Non sono amori tossici: sono amori tragici, e come tali generano senso. Esistono perché non possono durare, e proprio in questo durano per sempre.Anche La scelta di Sophie, con Meryl Streep, ci parla di un amore devastato dal trauma, di un corpo che porta il peso di una decisione irrappresentabile, scegliere tra due figli nel lager nazista. Non è un film d’amore, eppure ogni frammento della narrazione è impregnato di ciò che l’amore non ha potuto salvare, e del senso di colpa di continuare ad amare dopo l’orrore. Come Anna Karenina, come Carmen, come Antigone stessa, amori che non occorrono perché non possono funzionare, e proprio per questo fondano una verità. E allora: che cosa racconta oggi il cinema occidentale?
Quando l’amore non funziona lo trasforma in patologia, in difetto di personalità, in occasione per la crescita individuale o per un’analisi freudiana. Lo chiama fallimento sentimentale, ma in realtà è solo l’incapacità culturale di rappresentare ciò che non si chiude. Ciò che non serve a nulla, ma segna tutto.Pensiamo ad Alda Merini, ridotta a follia da un sistema che non sapeva cosa farsene del suo amore straripante. L’amore come eccesso, come poetica, come interruzione del discorso razionale, non c’è più spazio per questo. Non nel cinema tuojours non nei racconti dove tutto deve servire a qualcosa, alla coppia, alla crescita, alla felicità, alla terapia.
Eppure è proprio lì, sul bordo del non funzionale, che l’amore si rivela come forza culturale. Non come sentimento da proteggere, ma come principio di cambiamento. L’amore che non si adatta, che non aggiusta, che resiste all’assoggettamento. L’amore che, anche se non porta da nessuna parte, muove tutto.
E poi c’è In the Mood for Love. Forse l’ultimo grande manifesto dell’amore impossibile nel cinema moderno. Un film in cui l’amore non si compie, non si dice, non si tocca. Wong Kar-wai costruisce una partitura di silenzi, ripetizioni, incontri sfiorati, dettagli minimi: un piatto di noodles, il fruscio di un vestito, un passaggio sotto la pioggia. I due protagonisti sono prigionieri di convenzioni che nessuno ha imposto, ma che tutti rispettano, eppure proprio in quell’impossibilità nasce la loro verità: un amore che non si lascia ridurre alla funzione coniugale o all’impulso erotico, ma che resta, nella memoria, come qualcosa che è accaduto proprio perché non è successo.La regia insiste su inquadrature che diventano pitture: corpi che riempiono lo spazio lasciando fuori qualcosa da intuire, come nei costumi di Maggie Cheung, spesso ripresa di spalle, sempre in movimento, attraversata da una grazia rituale che si fa ossessione. La macchina da presa la segue nel ripetersi dei gesti quotidiani – salire le scale, passare davanti alla porta, appoggiare la schiena al muro – ma ciò che dovrebbe sembrare banale diventa vertigine: ogni passo è un gesto sospeso, un’esitazione scolpita nella lentezza. I volti sono spesso immersi nell’ombra o trasfigurati dal fumo, corpi dipinti dalla luce tiepida di un lampione o intrappolati nel riflesso di una finestra. Tutto è attesa, sospensione del tempo. Un amore platonico, fatto di sguardi, di parole non dette, di sottesi e reticenze, di pudore come forma di intensità, così trattenuto da sembrare quasi irreale. Ma proprio in questo suo non avverarsi – nel suo rimandarsi continuo – vibra con la forza del tragico, di ciò che è costretto dal destino a non essere. È un amore che sfida il declino attraverso la stasi, che rinuncia ad agire per non cadere nella delusione, nella volgarità dell’esplicitazione (tu sola sapevi che il moto non è diverso dalla stasi-Eugenio Montale-Xenia I, poesia 14/Satura-1971). Così la tensione cresce fino a diventare sublime: ciò che non si tocca, non si dice, non si ottiene, brucia più di ciò che si consuma. È un amore vissuto dentro un ritmo a levare, che non esplode ma si innalza come una marea muta. E tutto ciò che è sublime è spaventoso e potente al contempo, così tanto bello da far paura, così bello da provocare uno smarrimento.Tutto è attesa, ma non come rinuncia, piuttosto come strategia del mirabile. Ciò che è sublime è ciò che ci sta sotto e sopra allo stesso tempo, ci schiaccia e ci eleva, ci commuove e ci paralizza. L’amore di In the Mood for Love è fatto di sguardi, di sottesi, di parole mai davvero dette, è un amore palpitante nell’apparente inerzia, che rifiuta il tempo lineare, il compimento, la carne. È l’amore come forma irriducibile, così seducente da far paura, così potente da provocare smarrimento. Un amore impossibile, e proprio per questo indimenticabile.E ancora The Handmaiden di Park Chan-wook, un film che inizia come un congegno noir, un intrigo costruito sulla menzogna, ma che lentamente si disfa nel gesto più inaspettato, l’amore. Ma non un amore da red carpet, né da compromesso. È un amore che nasce nel sotterraneo, tra inganno e oppressione, in un mondo in cui ogni ruolo, coloniale, patriarcale, sociale, è già stato assegnato. Due donne, in un tempo e in uno spazio che non concede alternative, operano un détournement. Non si ribellano frontalmente, non esplodono, deviano il flusso del potere. Interrompono il copione scritto per loro, lo piegano, lo riscrivono.Il riferimento è chiaro, détourner, nel senso più radicale con cui lo intendeva il situazionismo francese, strappare qualcosa al suo uso previsto, sabotarne la funzione dominante, trasformare l’oppressione in campo di gioco. E qui, il gioco non è mai leggero, è carne, è rischio, è corpo che finge per salvarsi e poi ama per liberarsi.Il desiderio in The Handmaiden non è liberato nel senso occidentale e terapeutico del termine, è sguardo, attesa, tradimento, trasformazione. Il corpo non è erotizzato per il piacere dell’osservatore, ma come strumento di fuga, come spazio di verità. L’amore, qui, non serve a costruire una famiglia né una morale, ma a decostruire il dispositivo narrativo stesso; la truffa diventa alleanza, la servitù complicità, la colpa libertà.È un cinema che non spiega, che non rivendica, che non consola, accende una miccia, e ci lascia lì, tra il magnifico e il crudele, tra l’istinto e la rivelazione.Un amore sulla soglia, anche questo, che si disegna nei vuoti, nelle ripetizioni, nel doppio fondo della finzione, e che forse proprio per questo, proprio perché non doveva esistere, resta impresso come un gesto necessario.Eppure non si tratta solo di rappresentare l’amore: si tratta anche di come lo si rappresenta.In In the Mood for Love, e The Handmaiden, l’amore non è raccontato, è messo in scena come stato sensoriale. Non c’è solo la trama, ma la luce, l’inquadratura, il suono, i gesti. Il cinema torna a essere ciò che dovrebbe essere sempre, un dispositivo estetico completo, un’esperienza incarnata. La colonna sonora, ossessiva e malinconica, lavora come un secondo livello di racconto. La musica non accompagna, stratifica. Non commenta, agisce. Come nei film di Sirk, o come in alcune sequenze di Visconti, l’audio e il visivo diventano due forze distinte che si corteggiano e si contraddicono, proprio come i personaggi.È qui che si riapre la questione dell’estetica decadente occidentale.Perché non è solo l’amore ad essere scomparso dallo schermo, ma anche l’idea che il cinema possa ancora farsi veicolo del sublime. Non c’è più spazio per il non detto, per l’attesa, per la sospensione. Il cinema contemporaneo occidentale, e italiano in particolare, ha scelto la chiarezza, la funzione, l’utilità narrativa. Non tollera più il vuoto. Non accetta più l’arco teso, ogni storia deve portare da qualche parte, ogni scena deve spiegarsi, l’inquadratura è sempre a servizio del plot, mai in contrapposizione, lo spettatore non può più perdersi, deve capire, sentire, identificarsi. Ma il simbolico non si lascia capire subito, turba e smarrisce, e riemerge dall’inconscio con potenza infinita.Un tempo il cinema lavorava sul confine tra luce e ombra, tra visibile e invisibile, tra detto e non detto, adesso, nella maggior parte dei casi, lavora come un tutorial, ti spiega cosa devi provare, quando devi ridere, quando devi piangere, cosa è giusto pensare. Non lascia sospesi, non ti costringe a restare senza appigli, e allora anche l’amore, che è l’esperienza più instabile che esista, viene ridotto a percorso interiore, a incidente relazionale, a carburante drammaturgico.L’estetica del cinema occidentale contemporaneo non prevede più la vertigine.Non regge la potenza del silenzio, né l’ambiguità del gesto.Non sopporta la presenza dell’osceno, di ciò che resta fuori scena, ma che pure condiziona tutto.Il punto non è solo il contenuto, ma la rappresentazione estetica dell’amore.E quando la forma si impoverisce, l’amore smette di essere pericoloso.Diventa utile, gentile, curabile, progettuale, ma non è più in grado di sconvolgere, e quindi nemmeno di fondare un nuovo senso.Non è più in grado di far paura e di smuovere le coscienze.Ma forse, prima ancora dell’estetica, a essere imploso è il modello culturale attraverso cui l’amore viene raccontato. Un modello occidentale, borghese, normalizzante, che ha trasformato il sentimento in funzione sociale o moda marginale, coppia, stabilità, crescita personale, sicurezza emotiva. L’amore deve portare da qualche parte, deve giustificarsi, deve funzionare, e se non funziona, allora è guasto, da riparare, da psicanalizzare, da ridurre a incidente.È questo lo schema dominante, o l’amore è pacificato, calvinista, affidabile, progettuale, oppure è libertario, liquido, performativo, disponibile a ogni esperienza purché temporanea. Due estremi che si co-rispondono e si neutralizzano, ma che in fondo servono allo stesso scopo, mantenere l’amore dentro il campo del controllo.Tutto ciò che eccede viene derubricato a squilibrio, l’amore che brucia troppo viene chiamato tossico, l’amore che non si piega viene detto infantile, l’amore che non guarisce viene trattato come sintomo.Eppure ci sono stati momenti, nella letteratura, nel teatro, nella poesia e nel cinema, in cui l’amore era esattamente questo, una forma di disordine necessario, una rivelazione.L’amor fou di Breton.Carmen che sfugge e rifugge.Catherine senza centro in Jules et Jim.Frida che dipinge e ama nella consapevolezza del dolore.Ada Merini che scrive in manicomio, e lascia versi che nessuna analisi può contenere.L’amore inquieto non è una devianza, è un eccesso di linguaggio, non risponde a una funzione, non serve, dice.Dice quello che la cultura non sa ancora dire, e proprio per questo fa paura e proprio per questo è arte.Forse allora, più che cercare nuove storie d’amore, servirebbe ritrovare il coraggio di ascoltare l’amore che non si lascia dire.Che non si chiude in una soluzione narrativa, ma resta, come un tremito, sulla soglia del visibile.Forse è lì che dovremmo andare a parare, o forse no, forse basta restarci dentro.
Franco Bocca Gelsi è un produttore di film e documentari. Tra i film più famosi prodotti ci sono: «Fame Chimica», «L’Estate d’Inverno», «Fuga dal Call Center», «La Festa», «Blind Maze», e in post-produzione: «Rumore» e «Gli Assenti». Tra i documentari: «L’importanza di essere scomodo: Gualtiero Jacopetti», «Linea rossa», «La via del ring», «L’ultimo pastore», «Treno di parole», «La nuova scuola genovese». Ha insegnato in diverse scuole di cinema tra le quali: Civica scuola Luchino Visconti di Milano, Centro Sperimentale Lombardo, N.AB.A., IULM, Accademia 09. È ideatore e membro del comitato scientifico dell’Alta Scuola per la Serialità Ecipa/CNA. Si occupa di Alta formazione per professionisti del mondo dell’audiovisivo. È stato tra i primi italiani soci dell’European Producer Club, membro dell’European Film Academy e fondatore di CNA Cinema e Audiovisivo, di cui è Presidente della sessione Milano Lombardia.