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selfie da zemrude

  • Immagine del redattore: Roberto Silvestri
    Roberto Silvestri
  • 11 set
  • Tempo di lettura: 14 min

Aggiornamento: 14 set

Terzo cinema # 1: In ricordo di Fadhel Jaziri


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Con questo testo Roberto Silvestri inaugura la rubrica «terzo cinema» a sua cura per il comparto «selfie di zemrude».

Negli anni Ottanta il cinema africano è esploso, dopo due decenni di indipendenza di quasi tutto il continente, segnata però da non poche complicazioni neocoloniali. In particolare il Maghreb, l’occidente arabo, inventò una via originale, né realistica, né fiabesca, all’introspezione della condizione umana. Due di quei capolavori furono firmati da un poeta dell’immagine che ci ha lasciato pochi giorni fa senza che l’Italia del «piano Mattei» se ne accorgesse.

Il primo è un kammerspiel «punk», Le nozze (in arabo Al Ôrs), tragicomico dramma di una coppia piccolo-borghese disintegrata e sconfitta, come un Sid e Nancy dell’altra riva.


L’altro è il kolossal minimalista Arab, sulla complicità delle borghesie e delle teologie sciite e sunnite nella tragedia palestinese, girato a colori brillanti e saturi negli spazi giganteschi di una basilica colonial-cristiana, la cattedrale sconsacrata di San Luigi, eretta nel 1881 dal protettorato francese sulla sommità della collina di Byrsa dedicata a Luigi IX, morto nel 1270 a Tunisi durante la crociata da lui guidata. Nello stesso spazio era stato replicato per 70 volte lo spettacolo teatrale Arab, poi trascritto in sceneggiatura cinematografica. Oggi questo dittico, considerato un classico del terzo cinema, è stato realizzato, nel 1978 il primo e nel 1988 il secondo, da un collettivo di attori, cineasti, maestranze tecnico-operaie e drammaturghi tunisini che mettevano in discussione i modi di produzione gerarchici sia del cinema industriale che d’autore. Nel 2025 Cinema Ritrovato di Bologna ha scoperto i furori fassbinderiani e il bianco e nero di Le nozze, un po’ in ritardo, forse per l’imbarazzo che l’Occidente prova quando il vicinissimo Oriente affronta e abbatte tabù o passatismi culturali con non minore slancio illuminista.


Arab invece è ancora tenacemente clandestino, nonostante un’unica proiezione italiana al festival di Rimini del 1989, forse perché imbarazza chi sa ritessere fili interrotti con il precoce, ma da noi rimosso, rinascimento arabo (l’Andalusia, gli scritti del «femminista» trecentesco Ibn Khaldoun) e ereditare dai collettivi francesi del Maggio l’orrore per i privilegi di casta e per la routine professionale. Quel dittico rompeva con la retorica narrativa del melodramma «arabesque» egiziano, egemone nel mondo arabo ma ormai manierato. Ne ridicolizzava la «radiofonicità» (attraverso una scrittura filmica complessa), il maschilismo e l’iconoclastia (con personaggi psicologicamente a tutto tondo, non solo più macchiette: il buono, il cattivo, il buffo...) ma soprattutto i modi di produzione gerarchici, non collettivi e mai improvvisativi.Contribuì alla realizzazione di quel dittico il regista, drammaturgo e attore Fadhel Jaziri, leggenda del teatro e del cinema tunisino, che ci ha lasciato l’11 agosto scorso, a 77 anni. È mancato per insufficienza respiratoria pochi giorni dopo un intervento chirurgico al cuore.Artista impegnato, intellettuale visionario e cosmopolita, Jaziri ha affrontato, attraverso opere teatrali, film, documentari e spettacoli musicali, i principali problemi del Maghreb, i tabù culturali e la violenza delle oligarchie arabe con lo stesso coraggio, forza e precisione dedicata a quella parte feconda della memoria e della storia araba e pre-araba da non rimuovere.


Un rivoluzionario della forma. Estranea alla tradizione occidentale drammaturgica ma anche al canone musicare egiziano dell’arabesque, con i suoi ricchi abbellimenti obbligatori ma sempre più esangui, è anche la sua ultima opera, Jranti el aziza (Sul violino), presentata nell’ambito del 59° Festival Internazionale di Hammamet poche ore prima della morte. È una musical dark intriso di ironia, nostalgia e straniamento brechtiano, un viaggio profondo nella storia tunisina moderna attraverso l’odissea di un violinista: la canzone araba, voce del popolo, è qui specchio vitale delle trasformazioni sociali e politiche del paese e un rifugio creativo di fronte all’incarognirsi del tempo. Già. Jaziri è rimasto sulla scena fino all’ultimo secondo. A bout de souffle: Il mio lavoro – ha dichiarato – è l’ossigeno che respiro».I cinque decenni di impegno civile e di innovazione artistica costante del suo lavoro sull’immagine visiva e sonora in una cultura preferibilmente aniconica (o che congela le immagini negli stereotipi immodificabili che i Marvel Movies hanno saccheggiato) sono stati ricordati perfino nell’elogio funebre ufficiale dal ministero degli affari culturali tunisino, per quanto freddi e conflittuali siano stati sempre i suoi rapporti di Jaziri con le istituzioni politiche e censorie di Tunisi, da Bourghiba a Ben Ali a oggi.


È impressionante, a conferma del suo status di «eretico», la mancanza di ritratti o fotografie sui social che documentino i suoi primi lavori. Difficile trovare in rete immagini di Fadhel giovane sovversivo in lotta nei campus, anche se si elogia oggi la sua opera «ricca e variegata che ha profondamente influenzato la cultura tunisina». Perfino dei suoi due capolavori firmati con Fadhel Jaibi, Le nozze e Arab, poche sono le sequenze, le istantanee o le foto di scena rimaste.Ma chi è Fadhel Jaziri e perché pochi in Italia lo hanno ricordato, anche se si potrebbero definire Luca Ronconi o Mario Martone i «Fadhel Jaziri italiani». E se fu proprio Roberto Rossellini a scoprirlo come attore, nel suo Messia del 1975. E Nathaniel (Natanaele) uno degli apostoli (così lo chiama Giovanni, per gli altri evangelisti è Bartolomeo di Cana). Siamo così vicini alla Tunisia, basta pensare che le radici di Francis Ford Coppola, da parte di madre, di Claudia Cardinale, nata nel quartiere di «Piccola Sicilia», e dell’ex sindaco Pci di Napoli Maurizio Valenzi sono lì. E che all’inizio del secolo scorso gli immigrati italiani superavano la popolazione coloniale francese. Eppure la Tunisia è così lontana, e si allontana sempre di più.


Molto alto, bruno, grandi baffi e folta barba, occhi scuri penetranti, una tipica bellezza mediterranea, elegante, con l’immancabile sciarpa bianca sui completi occidentali o nelle tipiche vesti tunisine con chechia, Fadhel Jaziri poteva scatenare erotismo crudele, alla Jack Palance, o erotismo eroico, alla Omar Sharif.


Come attore Jaziri è anche nel cast di Sijnane di Abdellatif Ben Ammar (1975) su un episodio chiave della lotta nazionale per l’indipendenza, lo sciopero dei minatori del 1952. Si è dedicato alla regia cinematografica per la prima volta nel 1976, assieme a Fadhel Jaibi, in Al Ôrs (Le nozze), per poi adattare Ghassalet Ennawader per la televisione. Nel 1981 ha co-sceneggiato e interpretato il lungometraggio Traversée di Mahmoud Ben Mahmoud. Nel 1984 ha co-fondato la società Nouveau Film con Jalila Baccar e Fadhel Jaibi, che ha tratto dopo il 18 mesi di lavorazione teatrale, il film Arab, opera inaugurale delle le Giornate del Cinema di Cartagine (JCC) del 1988, dove ha vinto il Tanit di bronzo per poi essere selezionato alla Semaine Internationale de la Critique/Caméra d’Or di Cannes 1989. Ha diretto poi Thalathoun (cioè Trenta, nel 2007), il suo primo lungometraggio da regista unico, sui patrioti tunisini di un secolo fa: il politico riformista Tahar Haddad, il sindacalista Mohamed Ali El Hammi e il poeta Abu Al Kacem Chebbi. Ha poi girato Khoussouf (Eclisse, 2016), thriller anti-jihadista premiato per la sceneggiatura al festival di Alessandria d’Egitto e El Guirra, sulla sindrome autoritaria che avvelena molti progetti rivoluzionari, selezionato per il JCC 2019.Se gli altri grandi mattatori del teatro tunisino moderno, Tawfik Jebali e i defunti Moncef Souissi e Ali Ben Ayed, hanno avuto rapporti stretti con l’Italia, la commedia dell’arte e il teatro di ricerca europeo, Fadhel Jaziri, studioso e ammiratore di chi ha capovolto i dogmi scenici occidentali (da Peter Brook a Jerzy Grotowski, da Julian Beck e Eugenio Barba e al quasi coetaneo Robert Wilson), molto amico di Enzo Ungari e Serge Daney (con il quale condivideva non solo la passione per l’immaginario sovversivo ma anche per il tennis di Federer in Tv), si è battuto per creare ponti culturali e artistici panafricani e afro-asiatici (nel 2006 ha diretto a Tunisi uno stage di teatro No assieme al maestro Naohiko Umewaka con giovani attori tunisini) ha incrociato e amato la nostra cultura con maggiore passione, e molto prima del «piano Mattei».


Non troppo ricambiato, come vedremo.Nell’agosto del 1982, alla 39esima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, l’ultima diretta da Carlo Lizzani, fu proiettato, nella sezione Mezzogiorno-Mezzanotte, curata da Enzo Ungari, un film maghrebino di profetica bellezza, gioiello ambiguo e scandaloso del «nuovo cinema arabo». Si tratta di Traversées, ovvero La traversata, scritto e diretto dal tunisino Mahmoud BenMahmoud con la collaborazione ai dialoghi proprio di Fadhel Jaziri, che ne è anche l’interprete principale. Se il filmmaker irlandese Mark Cousins lo vedesse ne gradirebbe certamente l’improvviso e innovativo salto di tono formale: da una prima parte «hitchcockiana», lineare e a suspense, si entra in una seconda parte misteriosamente mistica, poetica, ellittica, «orientale». Questo match culturale è raddoppiato dalla colonna sonora ibrida e ironica, tra le canzoni nordamericane da juke-box e un salmodiante recitativo funebre algerino, affilata sperimentazione di una «terza via» del cinema arabo, né di genere né d’autore, piuttosto simile al tragitto teatral-cinematografico di Ghatak, Fassbinder e Straub, votato alla produzione di immagini dense, libertarie e «crudeli», e non di parole d’ordine travestite da immagini, esemplare prosecuzione di Traversées, opera complessa strutturalmente che ci libera di tutti i cliché collegati al cinema dell’immigrazione miserabilista, piagnucoloso, sentimentale o guerrafondaio che vedremo nei decenni successivi. La storia (in parte autobiografica) di La traversata inizia nella notte del 31 dicembre 1980, sul traghetto della Manica tra Ostenda e Dover, quando Bogdan, focoso operaio jugoslavo (l’attore Julian Negulescu), e Youssef, raffinato intellettuale tunisino (Fadhel Jaziri appunto), vengonorespinti alla frontiera britannica e anche a quella belga a causa di cavilli burocratici e per l’imbarbarimento progressivo delle leggi europee sulla circolazione «aliena».Intrappolati sul ferry-boat i due passeggeri cercano di scappare dalla loro kafkiana situazione ma, detestandosi, utilizzano metodi opposti. Bogdan, contagiato dalla violenza dominante e dalla tattica identitaria del «dente per dente», sceglie la reazione dura e finirà per decapitare un poliziotto inglese. Siamo alle scaturigini sia dell’imminente gioco al massacro sciovinista inter-jugoslavo che dell’immaginario stragista, dei sequestri aerei, per esempio, utilizzati – dopo il tonfo nasseriano e il tradimento marocchino nella guerra dei 6 giorni – dalle ali sedicenti estremiste e perfino «maoiste» dei movimenti di liberazione palestinese, più per vendetta maschilista e collezionismo martiriologico, che per liberarla davvero la Palestina.


Gli islamisti proseguiranno su quella stessa via suicida, eccitati dal trionfo sanguinario di Khomeini.Mahmoud Ben Mahmoud e Fadhel Jaziri, poeti delle «migrazioni interiori», esplicitano nelle loro opere una strategia di attacco al clima politicamente e religiosamente «bloccato», ritessendo contro l’insorgenza dei petrodollari wahabiti, i fili dell’illuminismo arabo andaluso, cortese e rinascimentale, di Ibn Khaldoun, il sociologo, l’economista, lo storiografo e l’intellettuale tunisino a tutto tondo del XIV secolo, inattualmente libertario.L’individualista «postmoderno» Youssef utilizza infatti l’arma della seduzione e del mascheramento «tattico» e riesce davvero a liberarsi, con l’aiuto di una bella passeggera straniera. La politica delle alleanze, del carnevalesco trasformarsi, della guerra diplomatica. Anche perché, ipotizzando a un certo punto una più semplice richiesta di auto, lo scrivere una bella lettera di protesta all’ambasciata, Yussef si chiede però perplesso: «Ma a quale ambasciatore, a quale dei 24 o 25 ambasciatori arabi, scrivere, buon dio?».Yussef, al culmine di un litigio con Bogdan afferma: «Quello che tu vuoi non è un paese, è un’idea, un’identità, una causa, dei territori senza fine, sempre più terra! Ma nonci sono paesi, non c’è terra promessa, né da conquistare né da reintegrare, non ci sono che masse galleggianti irrigate di sangue, come questo maledetto battello. Bogdan, non siamo affatto nello stesso mondo».


Mahmoud Ben Mahmoud spiegherà così il film a noi, «alieni» dell’altra sponda, quando il film vincerà il primo premio alle Giornate del cinema africano di Perugia, invitato dall’allora direttore artistico Mohamed Challouf, studente tunisino dell’Università per stranieri:

«Come arabo sono umiliato quotidianamente. Sono occupato prima di tutto in Palestina;poi dall’America e dalle potenze coloniali e neocoloniali; sono in una guerra senza pietà con lo straniero, con me stesso, col mio sottosviluppo; col mio ritardo, i miei blocchi, la mia mentalità, e anche col blocco sovietico che ci ha preso in giro da tanto tempo. Ho fatto questo filmcontro la volontà di potenza. Il film termina con una donna nella nebbia. È uno spazio artistico, dionisiaco, strettamente privato. Avevo bisogno di riabilitare questa dimensione privata che, di fatto, sottintende tutta la nostra religione: la vista stessa del Profeta, le sue relazioni con le donne. Il Profeta è più umano nella sua vita privata di quanto non lo sia diventato nel suo testo e nel suo messaggio. Mai avrebbe potuto rendersi complice di quello che i musulmani hanno fatto alle donne». Ma Traversées, proiettato nella Sala Grande del Lido di Venezia a mezzogiorno, fu visto soltanto da tre spettatori, Ungari, Ben Mahmoud e Jaziri. Il giorno dopo, nella sala stampa affollata per l’incontro successivo con Ridley Scott e il cast di Blade Runner, noi giornalisti osammo perfino fare domande di routine ai cineasti tunisini. Che risposero per le rime, andandosene.


Dunque.Questa volta non possiamo criticare la censura di mercato né i media, bensì noi stessi, i critici «militanti», i cari maestri, Serge Daney, Enzo Ungari, Enrico Ghezzi... Che la notizia della scomparsa di questo grande poeta delle immagini come Fadel Jaziri sia uscita in Italia solo su FilmTv (ma è stata ignorata un po’ in tutta Europa) è un fallimento nostro, della nostra generazione, di quello «spirito del '68» che cercò di cambiare il destino politico e culturale del globo intero, anche del vicino Maghreb, del Marocco, dell’Egitto, dell’Algeria e della Tunisia, e del Mashreq (Libano, Siria, Iraq, Palestina...) perché tutto è interconnesso.Nell’occidente arabo (ma anche berbero, fenicio, cristiano, ateo...), in particolare, il movimento «per la democrazie e la libertà non formale» per una democrazia dal volto socialista e libertario (non liberale) e per lo sganciamento dai blocchi Usa/Urss, fu particolarmente possente e ancor più sadicamente represso che a Parigi, come racconta Michel Foucault, allora insegnante a Tunisi e il volto e gli occhi rimodellato del cineasta Nouri Bouzid, dopo quattro anni di carcere duro e di torture.


Autocrazie, teocrazie e autocrazie travestite da socialismo nazionale non tollerano le immagini disordinate, la «soggettività desiderante» (come chiamava Naghisa Oshimail motore della controcultura) e dunque sindacati autonomi, femminismo, stato di diritto, tutela delle minoranze etniche e sessuali, rispetto delle regole e degli accordi internazionali. Tutto ciò che oggi è sotto tiro o già proibito anche dopo le fantastiche primavere arabe dalle potenze economiche di cui i monopartiti militarizzati sono sudditi fedeli (salvo saltare, se indeboliti, come è successo a Sadat, Mubarak, Bourghiba, Ben Ali, Ben Bella...), perché generano inconsci ribelli, turbamento antropologico inquietante e perenne conflitto sociale. Molto meglio non separare lo Stato dalla Chiesa, come sta facendo spudoratamente anche Israele, molto meglio giocarsi a orologeria la carta del fondamentalismo nazionalista squadrista: Ennada, Hamas, Fratelli musulmani, Al-Qaida, Boko Haram, e Hezbollah hanno il meraviglioso pregio di essere profumatamente pagati dai simoniaci petrodittatori sauditi o iraniani per mettere al rogo poesia e satira, cinematografi e biblioteche, danzatori e musicisti, sport e l’immaginario non conforme.


Ebbene Fadhel Jaziri, drammaturgo e cineasta, attore e insegnante li ha combattuti tutta la vita. Nato nel 1948 nella Medina di Tunisi, figlio di un imprenditore della borghesia colta, proprietario dell’hotel Zitouna, del caffè Ramsis e di una libreria a Bab Souika, punto di riferimento per intellettuali e artisti dissidenti, come uno dei suoi maestri, il pittore Zoubeir Turki (1924-2009). Ha studiato al liceo Sadiki, e teatro, prima in Tunisia poi a Londra e Parigi perché fu espulso come indesiderabile sessantottino facinoroso dall’Università di Lettere e Filosofia. Rientrato in patria crea il primo Festival della Medina nel 1971 all’interno dell’Associazione per la Preservazione della Medina di Tunisi. Nel 1972, insieme a un gruppo di giovani artisti, fonda Le Théâtre du Sud de Gafsa, contribuendo così al decentramento culturale nelle aree più depresse della giovane e indipendente Tunisia. Dal 1972 al 1974, con le commedie J’Ha, L’Orient en désarroi, La geste di Mohamed-Ali El-Hammi e La geste hilalienne, il Teatro Gafsa suscitò entusiasmo popolare nonostante il carattere provocatorio delle sperimentazioni e l’allontanamento dal repertorio «alla francese», allora dominante. Soprattutto se pensiamo a El-Karrita, prodotto da Masrah Ennas (Fadhel Jaziri, Fadhel Jaibi e il più cinefilo Habib Masrouki) nel 1975, replicato in Tunisia e all’estero per diversi anni.


Nel 1976, Fadhel Jaziri ha fondato il Nouveau Theatre de Tunis, compagnia privata, con Mohamed Driss, Fadhel Jaibi, Tawfik Jebali, Raja Farhat, Mohamed Idris e Habib Masrouki, diplomato all’Idhec di Parigi in regia e direzione della fotografia, autore di cortomemetraggi, del primo disegno animato a colori del cinema tunisino, Notre monde, del 1967 e del bianco e nero abbagliante di Le Nozze, tratto dall’opera teatrale che, assieme a El Wartha (L’Eredità) del 1976, Attahqiq (L’Istruzione) del 1977 e Ghassalet Ennawader (Tempesta Autunnale), scritto da Masrouki nel 1980 (l’anno nel quale a 30 anni Habib Masrouki si è suicidato a trent’anni) sono diventate pietre miliari del teatro arabo moderno.


Fadhel Jaziri fu coautore delle produzioni e, come attore, interpretò i ruoli principali nella maggior parte delle opere al fianco di Jalila Baccar, Mohamed Driss, Taoufik Jebali e Raja Ben Ammar. Il testo, la messa in scena, la scenografia, le luci, la recitazione, erano oggetto di una creazione e anche improvvisazione collettiva, in cui ognuno contribuiva con il proprio talento. Ogni pezzo è nato e si è costruito nel corso di sessioni creative, attorno ai contributi e ai talenti di ciascuno. Più specificamente, la messa in scena per Fadhel Jaibi, il testo per Mohamed Driss, la scenografia e i costumi per Fadhel Jaziri, la fotografia, le luci e la visione estetica generale per Habib Masrouki.

Per Arab tutto è partito da una doppia «visione», un sogno di Jalila Baccar (una donna incinta esposta a un grande, imprevisto calore) e una visione di Jaziri che durante il mese di Ramadan, abitatuato a lunghe camminato, era salito sulla collina di Byrsa dominata dalla gigantesca chiesa sconsacrata di San Luigi. Quando il film è stato proiettati a Rimicinema il regista ha raccontato come è nato il progetto: «Ho trovato questa basilica chiusa e mi sono seduto sul marmo dei gradini guardando il paesaggio. C’era un po’ di nebbia e la luce era come velata, il paesaggio era quasi scomparso, era terra di nessuno. Ci siamo detti, tra quel sogno e questa visione ci deve essere materiale per scrivere uno spettacolo. A poco a poco abbiamo allargato l’idea incontrando altre persone da aggregare nell’avventura. Abbiamo scritto e scritto ma non è stato così veloce come speravamo, anzi il tutto è diventato una specie di incubo anche se ogni scelta è stata presa in comune, c’è uno scambio e un negoziato continuo su tutto, dalla produzione alle scene, alla recitazione e, quando siamo passati alla versione cinematografica, alle inquadrature, ai movimenti, alle luci, ai costumi. Ma prima abbiamo passato un anno e mezzo dentro la basilica a lavorare sullo spettacolo teatrale. La storia resta la stessa e nel film, dello spettacolo teatrale, è rimasta un’emozione... una hostess dell’aria, un angelo che viene dal cielo e atterra in un luogo dove si trova una famiglia assediata e che si sta preparando a morire, perché sa che da quell’assedio nessuno uscirà vivo. Allora è la storia di una morte, una premonizione come solo la poesia e l’arte sanno essere. Il mondo arabo soffre di una mancanza di comunicazione verso l’esterno e anche al suo interno. Troppo spesso trattati e convenzioni sono state lettera morta, dentro e fuori il mondo arabo.


Alla fine delle repliche avevamo due possibilità: o partire in turnèe per il mondo arabo o fare un film che avrebbe reso lo spettacolo duraturo e per sempre riproducibile. Volevamo un film che fosse meno aggressivo e duro della piece teatrale, invece è diventato ancora più disperato».   

È importante ricordare che i testi delle opere del Nuovo Teatro sono originali: Le Nozze è di Mohamed Driss, L’Eredità di Tawfik Jebali e Mohamed Driss. Gli attori, attraverso le loro improvvisazioni, hanno contribuito ad arricchire la creazione. Jalila Baccar, Raouf Ben Amor, Raja Ben Ammar hanno preso parte a questa dinamica che ha davvero rivoluzionato il teatro tunisino tra il 1975 e il 1980. Molti uomini e donne di teatro e di cinema tunisini, che oggi eccellono a livello nazionale e internazionale, sono stati loro discepoli.Pur orientandosi gradualmente verso il cinema e gli spettacoli musicali, Fadhel Jaziri continuò a produrre opere teatrali: Lem nel 1983 e Arab nel 1987 (già pensato anche per la versione cinematografica). Tra le due, il progetto cinematografico fallito Kahla Hamra (Rosso sterile) dopo due anni di lavoro. Seguono le repliche di Attahqiq, Saba (1997) – fermato dalla censura e Saheb el himar (2011) dedicato allo scrittore e drammaturgo tunisino Ezzedine El Madani, e presentato alle Giornate Teatrali di Cartagine (2012). Con El Awada (La Prova), che inaugurò il festival internazionale di Hammamet nel 1989 e vinse il Premio per la regia alle Giornate Teatrali di Cartagine nel 1990, Fadhel Jaziri inaugurò una nuova era: quella delle performance coreografico-musicali, senza mai abbandonare teatro e cinema.


Nel 1991, come produttore e regista di Al-Nouba (La Nubia), rinvigorisce un’intera tradizione musicale popolare emarginata dai canali ufficiali anche perché contaminata dalle armonie e coreografie mistiche sufi. Presentato in apertura del Festival Internazionale di Cartagine, questo spettacolo fu allestito allo Zénith di Parigi nel 1992, trasmesso lo stesso anno su Antenne 2 e poi ritrasmesso su TV5 Monde. Medesima esperienza in Al-Hadra 1 e 2 (La Presenza) del 1992 e 201, che, dopo la prima al palazzo dello sport El Menzah, per inaugurare il festival di Medina, fu invitato in Francia nel 1995 al Théâtre Gérard-Philipe di Saint-Denis e al festival Méditerranée di Marsiglia, poi al festival di Rabat nel 1999. La colonna sonora fu pubblicata su CD (Philips/Universal) nel 2000, e il documentario di 90 minuti sullo spettacolo uscì nel 2001.Contemporaneamente, le sue creazioni si moltiplicarono: Nujum (1994), un affresco musicale sul rinnovamento del repertorio arabo del XX secolo, Zghonda et Azzouz (1995), ispirato al cafè chantant tunisino degli anni '60, Bani Bani (1995) che chiuse la stagione tunisina in Francia e aprì il Festival di Hammamet, Mezoued (2003), Zaza (2005), Arboun (2018), Hob Zamen el harb e Caligola (2018). Fervente difensore delle espressioni culturali in tutta la loro diversità, il 10 novembre 2022 ha inaugurato il Djerba Arts Center, contributo alla decentralizzazione dell’offerta e della produzione artistica e culturale, evoluzione del Teatro Nuovo. 



Roberto Silvestri (1950) è giornalista e critico cinematografico. Alla fine degli anni Settanta inizia a scrivere per «il manifesto». Contemporaneamente è tra i fondatori del cineclub Il Politecnico e tra i responsabili della rassegna estiva Massenzio sostenuta da Renato Nicolini esprimendo una sua visione molto personale del rapporto cinema-mondo. È stato responsabile di numerosi festival cinematografici. Nel 2013 ha pubblicato per Einaudi il libro scritto, con Mariuccia Ciotta, Il CiottaSilvestri, Cinema – film e generi che hanno fatto la storia. Ha inoltre insegnato critica cinematografica al Dams del Salento di Lecce. 

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