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  • Immagine del redattore: Marco Sommariva
    Marco Sommariva
  • 2 giorni fa
  • Tempo di lettura: 7 min

Verità e potere restano inconciliabili.

Kallocaina di Karin Boye

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Il testo analizza il romanzo Kallocaina di Karin Boye, scritto nel 1940, ambientato in uno Stato totalitario dove il controllo assoluto sulle persone arriva fino alla mente e alla sfera privata. Il protagonista, lo scienziato Leo Kall, sviluppa un siero della verità che permette di estorcere pensieri nascosti, diventando strumento ideale per il Potere. Il romanzo anticipa temi ancora attuali come la repressione del dissenso, l’indottrinamento dei bambini, l’invasione della privacy, la giustizia strumentale e la manipolazione delle leggi. Attraverso esempi tratti dal libro e collegamenti con fatti di cronaca contemporanei, il testo sottolinea la pericolosità di uno Stato che sacrifica la libertà in nome della sicurezza. La presa di coscienza del protagonista rappresenta un invito alla resistenza individuale e collettiva contro ogni forma di dominio autoritario.

Chi non ha mai sognato di possedere il siero della verità e penetrare nel segreto della mente e del cuore degli altri? Quale Potere non lo riterrebbe l’ideale strumento di controllo?

Kallocaina – titolo di un romanzo della svedese Karin Boye – è, appunto, il nome del siero della verità che lo scienziato Leo Kall, l’Io narrante, inventa per garantire sicurezza e stabilità allo Stato.

Scritto nel 1940, mentre la Seconda guerra mondiale iniziava a stravolgere il pianeta e non era facile nutrire grandi speranze nell’avvenire, questo libro ci racconta una società dominata da uno Stato di polizia che sopprime ogni libertà, arrivando a invadere anche la sfera privata dei cittadini.

Le tante questioni sollevate dal romanzo sono ancora molto attuali, fra queste: il timore di parlare, la necessità di formare militarmente i figli il prima possibile, l’urgenza di chi ha il Potere di sapere cosa succede nelle famiglie, l’uso strumentale della giustizia e la disinvolta interpretazione delle leggi.


Iniziamo col timore di parlare, una tale paura da indurre alcuni criminali a scegliere l’ascensore come luogo di cospirazione:


«Quattro treni erano già arrivati riversando per quattro volte la folla alla luce del giorno, quando finalmente Linda oltrepassò le sbarre. Le andai rapidamente incontro e proseguimmo il cammino fianco a fianco. Parlare era naturalmente impossibile, per via delle esercitazioni della flotta aerea che giorno e notte impedivano ogni dialogo all’aperto. Ad ogni modo lei notò la mia aria soddisfatta e, pur rimanendo come sempre seria, mi fece un piccolo cenno d’incoraggiamento. Fu solo quando, arrivati alla nostra casa, scendemmo in ascensore fino al nostro appartamento che si fece intorno a noi un relativo silenzio – il rimbombo della metropolitana che faceva tremare le pareti non era tanto forte da impedirci di parlare. Tuttavia ci astenemmo prudentemente da ogni conversazione prima di essere entrati. Se qualcuno ci avesse sorpreso a parlare in ascensore avrebbe potuto più che giustamente sospettare che discutessimo di cose che non volevamo far sentire ai bambini o all’assistente domestica. C’erano già stati casi di nemici dello Stato e altri criminali che avevano scelto l’ascensore come luogo di cospirazione. Era d’altra parte la cosa più ovvia, visto che per motivi tecnici l’occhio e l’orecchio della polizia non potevano essere installati in ascensore e il portiere aveva in genere altro da fare che correre su e giù per le scale ad ascoltare».


Sul timore di parlare per cui tanto ci si prodiga da tempo perché s’espanda quanto più possibile, mi vengono in mente alcuni fatti di cronaca di questi ultimi tempi, tipo la storia del docente sotto inchiesta per aver criticato l’acrobatica pattuglia nazionale delle Frecce Tricolori, o quella dell’insegnante sospeso dal lavoro con una decurtazione del 50% dello stipendio per aver criticato un ministro; oltre a questi, sicuramente a ognuno di voi verranno in mente altri episodi, così come ritroverete l’eco della sfiancante cronaca quotidiana nei prossimi estratti.

E ora passiamo alla necessità di formare militarmente i figli il prima possibile che è quello che sta succedendo un po’ ovunque in Europa, specie in Polonia e nella madrepatria dell’autrice di questo romanzo, la Svezia:


«[…] l’assistente domestica della settimana aveva già apparecchiato per la cena e ci aspettava con i piccoli che era andata a prendere al piano dei bambini. Sembrava una ragazza diligente e a posto e se la salutammo amichevolmente non era solo perché sapevamo che, come tutte le altre assistenti domestiche, era tenuta a fornire un rapporto sulla famiglia alla fine della settimana – in obbedienza a una riforma che, secondo l’opinione generale, aveva nettamente migliorato l’atmosfera di molte case. L’allegria e il buonumore si instaurarono immediatamente intorno alla nostra tavola, tanto più che Ossu, il nostro primogenito, era con noi, essendo la sua sera di permesso di rientro a casa dal campo d’infanzia. […] Intorno a noi vedevamo coppie dividersi non appena la loro nidiata di bambini era pronta per il campo d’infanzia – dividersi e risposarsi per creare nuove nidiate. Ossu, il nostro primogenito, aveva otto anni, e già da un anno era al campo d’infanzia. Laila, la più piccola, ne aveva quattro e le restavano ancora tre anni in casa. […] I bambini raccontarono quel che era successo al loro piano nel corso della giornata. Avevano giocato nella cassa dei giochi – un’enorme vasca smaltata, di più di quattro metri per lato e uno di profondità, nella quale potevano lanciare piccole bombe-giocattolo per incendiare i boschi e i tetti delle case in materiale infiammabile che vi spuntavano, oppure combattere vere e proprie battaglie navali in miniatura, riempiendo la vasca di acqua e caricando i cannoni delle minuscole navi con lo stesso leggero esplosivo usato per le bombe; c’erano perfino le torpediniere. Era un modo per sviluppare giocando il senso strategico dei bambini fino a renderlo naturale, quasi istintivo, garantendo al tempo stesso un divertimento di prim’ordine. Talvolta invidiavo ai miei bambini di crescere con giochi così perfetti – nella mia infanzia quel leggero esplosivo non era ancora stato inventato – e veramente non capivo come, nonostante questo, aspettassero con trepidazione di compiere i sette anni per poter andare al campo d’infanzia, dove le esercitazioni erano molto più simili a una vera formazione militare e dove si restava giorno e notte».


Altra questione sollevata da Kallocaina ancora molto attuale, è l’urgenza di chi ha il Potere di sapere cosa succede nelle famiglie:


«”Ho una bella notizia da darti” dissi a Linda mentre mangiavamo la minestra di patate. “Il mio esperimento è arrivato al punto che domani posso cominciare a provare su materiale umano sotto il controllo di un supervisore”». […] «”È indiscreto domandare di che esperimento si tratta?” Chiese l’assistente domestica.

Era nel suo pieno diritto fare domande, dal momento che era lì apposta per sapere che cosa succedeva in famiglia. E non vedevo in che modo potesse ritorcersi contro di me, o danneggiare lo Stato, se la notizia della mia scoperta si diffondeva prima del tempo. “È qualcosa da cui spero lo Stato potrà trarre grande vantaggio, risposi. Un mezzo che costringe chiunque a svelare i propri segreti, tutto quello che fino a quel momento si è sforzato di tacere, per vergogna o per timore”».


Proseguiamo con la descrizione di una società dove si fa un uso strumentale della giustizia, per cui si arriva a suggerire che è meglio per lo Stato che un suo nemico venga condannato grazie a una falsa testimonianza, anche se non ha commesso un’azione punibile ai sensi della legge:


«”È davvero tanto difficile?” Domandò Rissen tamburellando con le dita sul bordo del tavolo in modo irritante. È davvero così difficile da capire? Mi permetta una domanda – non è obbligato a rispondere, se non vuole: “considera la falsa testimonianza un male in qualsiasi circostanza?” “Naturalmente no, risposi un po’ stizzito. Se lo richiede il bene dello Stato. Ma non è il caso in qualsiasi processo senza importanza”. “Ci pensi bene, disse Rissen con aria scaltra, inclinando la testa di lato. Non è forse meglio per lo Stato che il suo nemico inetto, dannoso e per di più antipatico venga condannato, anche se non ha commesso un’azione punibile ai sensi della legge?”»


Chiudo con un altro dei mali dei nostri giorni denunciati su queste pagine da Karin Boye, la disinvolta interpretazione delle leggi, tipo quella contro la mentalità anti-Stato che porta a denunce che, benché esaurientemente motivate e firmate con nome controllabile, la polizia si riserva il diritto di prendere o meno in considerazione:«Il mattino dopo sul giornale apparve un articolo intitolato: i pensieri possono essere condannati. Era un resoconto della nuova legge, che faceva anche accenno alla mia kallocaina, che l’aveva resa possibile. Niente poteva parere più ragionevole delle nuove disposizioni penali: d’ora in poi non ci si sarebbe più attenuti rigidamente agli articoli di legge, che prevedevano la stessa pena per il criminale incallito come per chi era stato traviato una volta, se colpevoli dello stesso misfatto. L’accusato stesso sarebbe stato al centro dell’indagine, non la sua azione isolata. La sua mentalità sarebbe stata esaminata e analizzata a fondo, non per rispondere alla vecchia domanda priva di senso: Responsabile o no, ma per distinguere il materiale che poteva ancora essere utile da quello ormai inservibile. La pena non doveva più consistere in un certo numero di anni di lavori forzati attribuiti automaticamente, ma doveva essere studiata in accordo con i più eminenti psicologi ed economisti in base ai vantaggi che offriva. Un essere carente dal punto di vista fisico o morale, da cui lo Stato non avrebbe mai potuto trarre alcun profitto, non poteva aspettarsi di vivere soltanto perché non era riuscito a nuocere. D’altro canto si era anche costretti a tener conto dell’insufficienza della popolazione e nei casi peggiori a risparmiare anche materiale meno desiderabile che, malgrado tutto, poteva tornare utile come forza lavoro. La nuova legge contro la mentalità anti-Stato entrava in vigore il giorno stesso, ma con l’espressa condizione che tutte le denunce venissero esaurientemente motivate e firmate con nome controllabile; non quindi anonime come prima, per evitare una marea di denunce irrilevanti che avrebbe comportato un eccesso di spese a carico dello Stato per l’organizzazione giudiziaria e per la produzione della kallocaina. In ogni caso la polizia si riservava il diritto di prendere o meno in considerazione le denunce, come riteneva opportuno».


La progressiva presa di coscienza del protagonista del romanzo gli consentirà di scoprire che Verità e Potere restano inconciliabili: controllo e realtà delle cose portano alla disgregazione di quel Sistema su cui si regge lo stesso Potere che pretende di tenerti d’occhio ovunque tu sia, qualsiasi cosa tu faccia.


Speriamo questa presa di coscienza del protagonista contagi presto un po’ tutti noi.


Marco Sommariva (Genova 1963) è autore di numerosi romanzi e testi di critica letteraria.

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