selfie da zemrude
- Giuliano Spagnul
- 21 mag
- Tempo di lettura: 6 min
Ancora su Gli uomini pesce di Wu Ming1

Spagnul continua le sue riflessioni sulle presentazioni milanesi (qui trovate il primo contributo insieme a Sara Molho ) dell’ultimo libro di Wu Ming 1 "Gli uomini pesce". Una potente opera - sostiene Spagnul - che si potrebbe definire un esoterismo di sinistra. Il testo che segue si interroga sul bisogno di creare un'immaginario che disincanti il capitalismo e la sua egemonia. Ma come? Di fronte alla fine del mondo bisogna che abbia un'efficacia qui e ora.
Nella recensione su Jacobin, Enrico Manera ci dice che Wu Ming con il loro lavoro sull’immaginario delineano «progressivamente una prospettiva di costruzione finzionale e simbolica, una mitologia della ragione adatta al nuovo millennio che, senza cadere nell’irrazionalismo regressivo e reazionario, sappia offrire le risorse di un reincantamento capace di far uscire l’utopia emancipativa dalle secche del razionalismo calcolante e del nichilismo disperante».
Gli uomini pesce si muove dunque dentro quello che si potrebbe definire un esoterismo di sinistra. Una vera e propria incursione in quello che viene comunemente considerato territorio privilegiato della destra e quindi, vista da sinistra, come una pericolosa concessione al campo avversario, per definizione oscurantista e irrazionale.
A tal proposito possiamo ricordare la condanna ufficiale di Togliatti alle ricerche sulla magia di Ernesto De Martino. Manera prosegue nella sua recensione precisando che questa mitologia della ragione viene anche definita come una «Mitocrazia che si interroga su se stessa e cerca di non prendersi troppo sul serio», aggiungendo: «Basta che funzioni».
La funzione a cui deve assolvere deve essere quella di reincantare qualcosa che si è disincantato.
Avevamo un mondo incantato e qualcuno, un guastafeste, ce l’ha rovinato; tocca ora a noi provare a reincantarlo di nuovo. Non credo di condividere questa idea di un mondo disincantato e non credo che questo libro ci parli di questo, ma è importante partire da qui per riuscire a evidenziare uno dei nodi più importanti, a parer mio, di quest’opera, di questo lavoro sull’immaginario.
Isabelle Stengers, filosofa della scienza, amica e sodale di un’altra ribelle della scienza ufficiale, Donna Haraway, ci dice che il mondo è tutt’altro che disincantato, è piuttosto avvolto da un incantesimo estremamente potente: quello del capitalismo. Non è una nuova mitologia che potrà reincantare un mondo già fin troppo incantato, e neanche farci uscire dal nichilismo prodotto dalla disperazione.
Concedetemi di ripetere quella formula ormai stantia, ripetuta fino alla noia: «È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Ebbene, questa citazione, che è stata ripresa (e resa famosa) da Mark Fischer, viene in origine da Fredric Jameson, in un articolo scritto nel 2003, ed è importante allora ricordarla nella sua versione originaria e integrale: «Una volta, qualcuno ha detto che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Una volta, cioè ancora prima di adesso, in un passato non meglio precisato, qualcuno ha detto, cioè un autore anonimo: in pratica non è difficile intuire che questo autore anonimo altri non sia che il sentire comune di una data epoca, di un determinato periodo storico facilmente individuabile in quegli anni di passaggio tra il vecchio e il nuovo millennio. Ma la cosa più importante è quello che Jameson scrive a seguire e che raramente viene riportata: «Possiamo ora riformulare la frase e testimoniare il tentativo di immaginare il capitalismo attraverso l’immaginazione della fine del mondo». Cioè, se il pensiero comune non riesce più a immaginare la fine del capitalismo (un prodotto storico che come ha avuto un inizio deve avere per forza una fine) il motivo va ricercato nell’incapacità di immaginare il capitalismo stesso. Ne siamo troppo coinvolti, troppo avvolti dal suo incantesimo pervasivo, capillare. L’unico modo che abbiamo per provare a immaginarlo, distanziandolo da noi stessi, è attraverso l’immaginazione della fine del mondo: perché il capitalismo è la fine del mondo. Un’apocalisse senza riscatto, senza rigenerazione alcuna come invece era nelle apocalissi millenaristiche del passato.
Quello che ci troviamo di fronte è la consumazione totale del mondo che abitiamo, di cui facciamo parte integrante e da cui non c’è uscita possibile: «Lo abbiamo scoperto da poco (…) quanto siamo tutt’uno con il nostro pianeta, e dunque quanto saremmo, letteralmente, fuori luogo nello spazio esterno. Il mito del volo spaziale è stato fondato sull’incomprensione, sull’ignoranza del nostro essere. Il problema è che nel frattempo quel mito ha reso pensabile la rinuncia alla Terra. Invece di cambiare il mondo, ormai ci immaginiamo, in un giorno magari lontanissimo ma che prima o poi arriverà, di cambiare pianeta, di trovarne uno nuovo da colonizzare, sfruttare e consumare (è entrata in uso, credo, ormai la parola terraformare) come abbiamo sfruttato e consumato questo di cui siamo parte, questa Terra che secondo alcuni ideologi del malaugurio possiamo abbandonare come un cumulo di rifiuti» (pag. 400).
Nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle il più grande lavoro di immaginazione è stato quello relativo alla conquista dello spazio da una parte e quello relativo a tutti gli scenari possibili di distruzione del nostro pianeta. Una potente macchina mitologica (per usare un concetto formulato da Furio Jesi), nata negli Stati Uniti negli anni venti, che si è data il nome di Science Fiction (in italiano tradotta, all’incirca, con Fantascienza) a opera di uno sparuto gruppo di radiotecnici, piccoli inventori, scrittori ed editori improvvisati, critici, fan, lettori si è attivata per far funzionare questo dispositivo che ha saputo operare, a livello globale, sulle nostre soggettività, al seguito dell’evoluzione accelerata della tecnoscienza e a convincerci che fine del mondo e conquista dello spazio fossero il destino ineluttabile dell’intera umanità. E ci sono riusciti.
Non più la salvezza in un’utopia, ormai trasformatasi sempre più in distopia, ma in un fuori, in un altrove nell’immensità dello spazio. È per noi tutti ormai familiare la disabitudine ad abitare i nostri luoghi, la nostra terra, e la fine del mondo è stata esautorata da ogni possibile idea di salvezza: apocalisse e rinnovamento non stanno più insieme.
Quel mondo che alla protagonista della storia, Antonia, (una geografa, mentre la protagonista di Ufo 78, ricordiamocelo, era un’antropologa) sembrava rinnovato dopo la bomba d’acqua, questa reminiscenza in piccolo dell’antica idea di apocalisse, non può più essere sentito come tale, l’apocalisse è definitiva senza riscatto alcuno.
Allora se torniamo alla recensione da cui siamo partiti possiamo dire che non c’è nessun reincantamento possibile da fare, perché il capitalismo è già un potente incantamento che ci fa immaginare ciò che non è e non sarà mai.
Non lasceremo mai questo pianeta perché non c’è nessun altro pianeta di riserva, né per noi né per quei quattro super ricchi che pensano di potersi salvare a spese degli altri.
Occorre invece disincantare (Antonio Caronia in una delle sue ultime interviste parlava di una grande pars destruens da fare), nel senso di dismettere le illusioni false a favore delle illusioni vere.
Perché è certo che stiamo parlando sempre di illusioni:
«Una donna cammina tra le pietre, controvento, guardando dove mette i piedi. Ha i capelli bianchi e corti. Mi raggiunge, mi si affianca e mi prende la mano, come se ci conoscessimo. Di fronte a noi, le prime luci di Gaeta e la massa del Monte Circeo.
-Tu sei la morte? – le chiedo.
Lei ride, rovesciando la testa all’indietro.
-Ma no, che stereotipo... Io sto sognando e tu fai parte del mio sogno.
-Anch’io sto sognando.
Ecco, tutto si spiega: è l’intersezione dei rispettivi sogni.-
E fissa il mare, rapita dalle onde che si alzano e riabbassano.
-Chissà perché, mormora, e col rombo che fa il mare, per udirla devo porre attenzione – quando diciamo «un sogno» è implicito che sia bello, e se non lo è specifichiamo: «un brutto sogno». Sogni che potessi dire belli, io non ne ho fatti mai. I sogni mi mettono sempre a disagio, perché sono bislacchi, imbarazzanti, e se me li ricordo è perché svegliandomi li ho interrotti, così non hanno nemmeno una fine. Pure per te è così?
Non saprei dire meglio – rispondo (pag. 458).
La vita che noi stiamo sognando è l’unica che abbiamo, ed è l’unica che ci è data da vivere. È il dono terribile e doloroso quanto meraviglioso, di un’avventura che sta a noi scegliere di vivere o meno. Alla sofferenza solo l’immaginazione può fornire la capacità di trasformarsi in lavoro etico, di costruzione di un’etica per nuovi modi di vita, non di mondi nuovi ma di nuovi modi di vivere il mondo che ci è dato di vivere, l’unico possibile, ma con diversi modi possibili di viverlo.
«Per l’alchimista, il mezzo più saggio per bandire la morte, per cacciare la melancolia, non è dire e ripetere, come il mistico, che il mondo è mortale, che si vive nel mondo dell’inferno e della corruzione, nel regno delle catastrofi, delle guerre e delle persecuzioni, ma di nutrire un sogno ben altrimenti ambizioso: la Terra intera, mediante la sua sofferenza e mediante l’umano stesso che soffre, può innalzarsi, si innalza verso la vita e la salvezza. Questa salvezza noi stessi la creiamo, noi possiamo affrettarla, scatenarla. Una visione piena di speranza e di ottimismo, anche se si deve attraversare la Nigredo, la morte, la putrefazione...» (pag. 584).
Questa è la grande opera alchemica, il nostro «che fare» che non deve essere solo «efficace», ricordate sempre la recensione dell’inizio: «purché funzioni», ma deve anche essere bella, cioè secondo un’estetica che nel significato profondo di questa parola vuol dire: capacità di percepire ed essere coinvolti. Percepire il luogo in cui si abita ed esserne coinvolti insieme a tutti gli altri umani e non che come noi lo abitano. Ricordo infine che questo è stato il trentaduesimo anno di occupazione di Cascina Torchiera senz’acqua, anno che è stato dedicato al sogno.
E possiamo allora dire con Wu Ming che stiamo sognando un’intrapresa in cui realizzarci dal punto di vista scientifico, spirituale e, come avrebbe aggiunto Ilario (il protagonista di questo libro), politico.